Un istruttore bisbetico di una scuola privata del New England è costretto a rimanere nel campus durante le vacanze di Natale per fare da babysitter a una manciata di studenti che non hanno un posto dove andare. Alla fine, stringe un improbabile legame con uno di loro - un problematico cervellone danneggiato - e con il capo cuoco della scuola, che ha appena perso un figlio in Vietnam.
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VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR: Miglior attrice non protagonista (Da'Vine Joy Randolph)
VINCITORE DI 2 PREMI GOLDEN GLOBE: Miglior attore in un film commedia o musicale (Paul Giamatti), Miglior attrice non protagonista (Da'Vine Joy Randolph)
Emarginazione, solitudine, esistenze tormentate, problematiche, abbandoniche ambientate come se si stesse all'"Overlook Hotel": rarefazione di ritmo, cast, dialoghi, eventi. Lasciando da parte l'esilarante "Downsizing", girato nel 2017 quando l'inverno demografico era già cronaca quotidiana, questo è lo stile di Payne che i manuali d'estetica definiscono "manierismo/accademismo" e quelli di cinema "nostalgia della New Hollywood", però quant'è tenero, delicato, sensibile, agrodolce, sommesso, umbratile, un nuovo "Christmas movie" post-frankcapriano. M'ha insegnato la trimetilaminuria (TMAU) e che "punire" deriva da "punico".
Bella storia (non originale) con un ottimo cast dominato da un Giamatti da Oscar... La regia è molto valida e ben ricrea gli anni 70 per un film che si gusta volentieri e che lascia qualcosa.
Ennesimo bel racconto di Alexander Payne che non inventa nulla di nuovo parlando del rapporto tra un burbero professore e un alunno prepotente e figlio di buona famiglia, ma che riesce sempre a tratteggiare con garbo delle figure che ti entrano nel cuore.
Momenti ironici si mescolano ai drammi pesonali che vivono i tre protagonisti del film e la loro lenta trasformazione arriva alla fine dove in realta' ti aspetti, ma ci arrivi dopo due ore piacevoli.
L'immagine iconica che rappresenta tutto il film penso siano le lacrime della cuoca durante i festeggiamenti del Natale, un pianto che va in contrasto con la festa piu' "felice" dell'anno ma che hanno un forte significato emotivo.
Vidi un simpatico brillante trailer al cinema. Le aspettative quindi erano ben diverse rispetto alla visione ben più sottotono del reale svolgimento della vicenda. The holdovers riesce a trasmettere delle sì lezioni di vita in un modo più intimista di quanto non ci si aspetta. Carino.
Classico film di Payne, che ormai riesce ad imprimere la sua inequivocabile firma anche su quei film che non scrive lui. La trama in realtà non è per niente originale: c'è il ragazzo ribelle ma di buon cuore, il professore solitario e poco apprezzato, l'ambiente ipocrita del liceo americano, la storia di formazione, ecc ecc, ma la mano di Payne è così esperta da trasformare la più classica delle storie in un bel film, che scorre via placidamente fino allo scontato ma commovente finale.
Ah, ovviamente Giamatti è essenziale per la buona riuscita del film: attore maiuscolo da sempre, anche in questo caso si prende il film sulle spalle e crea un personaggio memorabile.
Non è un vero e proprio omaggio alla New Hollywood anni 70, però Payne riprende esteticamente gli stilemi di quel periodo con un semplice racconto di formazioni fra individui che rappresentano un qualcosa che il mondo tende a mettere da parte o perlomeno una parte di questo mondo. C'è un professore detestato da corpo docente e studenti proprio per la sua inflessibilità a quei valori "arcaici" che la scuola dovrebbe insegnare ma ormai solo una facciata per gli interessi di una classe ricca che ne vuole usare il prestigio. C'è il ragazzo problematico lasciato solo dalla famiglia e tendenzialmente ribelle. C'è una capocuoca che trattiene sommessamente il dolore per la morte del figlio in Vietnam. Sono personaggi chiusi nei loro gusci, che rimangono sostanzialmente dentro di essi, con la differenza che cominciano a guardare le cose con uno sguardo diverso, più sottotraccia che mostrato in maniera palese. I personaggi si sviluppano e cambiano, ma non in maniera eccessiva e comunque percepibile. Un buon film che non raggiunge i livelli di Nebraska, che ho apprezzato di più, tuttavia un film degno di nota con un Giamatti straordinario.
Un pelo sotto le aspettative personali, non ho empatizzato a pieno con i due protagonisti, anche se bisogna riconoscere che l'interpretazione di Giamatti è notevole. Bella la fotografia, due ore e un quarto sono forse un po' troppe.
Payne si conferma fra i più interessanti registi di Hollywood con "The Holdovers". Uno dei pochi a portare avanti un cinema ormai relegato ai margini, che non cerca lo spettacolo, ma storie semplici con personaggi che rimangono impressi. "The Holdovers" è il classico "slow burn", che parte lentamente, quasi a non voler immergere immediatamente lo spettatore, ma portarlo pian piano nella storia. Infatti la narrazione è progressivamente sempre più coinvolgente, con un'ambientazione natalizia non banale e una colonna sonora azzeccata, fino ad una parte finale amara di alto impatto emotivo (il "sacrificio" è piuttosto inaspettato). A livello attoriale siamo a livelli altissimi, Giamatti superlativo e ottima anche Da'Vine Joy Randolph, ma la vera rivelazione è Dominic Sessa, che offre una performance grandiosa al primo ruolo in assoluto (raramente ho visto interpretazioni così belle alla prima prova).
Film tremendamente nostalgico in grado di catturare l'atmosfera, l'essenza e l'estetica degli anni '70 negli Stati Uniti nel periodo delle vacanze di natale e le conseguenti sensazioni sia di malinconia sia d'intimità che l'arrivo dell'inverno era, ed è tutt'ora, capace di portare.
Di un autenticità e un realismo raro, una cura dei dettagli fenomenale nei dialoghi, i costumi e la granulosa fotografia tanto che pare veramente essere tornati indietro di 50 anni ed assistere ad un classico senza tempo, uno di quei film che al giorno d'oggi si producono sempre più raramente.
Sentito e commovente, spero possa diventare un classico natalizio nei prossimi anni al pari di Willy Wonka, Una Poltrona Per Due e tutti gli altri.
Con un'esilarante citazione (quasi) del mitico "Cinque pezzi facili" di Rafelson, il film di Payne è delizioso e, sì, diciamo pure bellissimo, ma la sceneggiatura è fin troppo tradizionale per essere come dovrebbe anche vagamente (vacuamente?) graffiante, ironico, dissacrante. Diciamo che si poggia tutto sulla recitazione, attori tutti bravissimi, il consueto gigionismo di Giamatti affiancato a una promessa (Sessa) che sembra il figlio o il nipote di Steve Winwood (proprio lui, il cantante degli inglesi Traffic). Le "lezioni di vita" basate sui referenti dell'Antica Grecia sono efficaci ma troppo spocchiose, e alla fine il film - un Will Hunting miscelato con L'attimo fuggente - diventa a tutti gli effetti un carinissimo Christmas Movie. Ci sono momenti ispirati che ti prendono per mano e altri che, per quanto godibili, non sembrano evitare certi schemi prefissi, certi cliché (il libro da scrivere, poi, per ritrovare la ragione di vita non è tollerabile!!!). La parte migliore è quella centrale del viaggio a Boston, peccato che nella "vacanza" tra studente e professore manchi la cosa basilare, un bel concerto rock, magari. In ogni caso è un film che soddisfa i fans del regista, sempre bravo a soffermarsi sull'inadeguatezza e la solitudine dei suoi personaggi, Giamatti è un altro Schmidt dei giorni nostri, anche se "risale", come certi film di Altman o Mazursky, ai primi anni 70", quelli del Vietnam e dei diritti di cronaca
Un film discreto, ben diretto e abilmente interpretato, con un Giamatti sugli scudi in una sorta di racconto di formazione piuttosto ben tratteggiato tra dramma, sentimento e speranza. Un prodotto godibile, 5 candidature ai prossimi oscar, forse un po' retorico nei dialoghi e un po' eccessivo nella durata ma, comunque, discretamente interessante e coinvolgente.
I residuati, gli oppressi di Camus, i rimasti, che brillano nelle loro esistenze quotidiane dis/graziate, con le toppe sulle giacche sulle ginocchia o con il cuore rammendato da un filo ordinario, con un occhio solo o troppi ricordi, con le sabotate pareti delle nostre menti, le cicatrici argentate che le compongono, ed è ciò che fa alexander payne, mettere insieme tutto questo e consegnarci l'ennesimo bicchiere di vino d'annata da versare in un bicchiere di carta per le sere solitarie, centro nevralgico della cura della bellezza negli "oppressi", oh miei capitani, che sanno sempre cosa significa essere se stessi a proprie spese, che vediamo, solo se nella sottrazione miope delicata, che non contraddistingue il nostro tempo.
Altro filmettino statunitense che ammanta tutto di dolore e difficoltà della vita e che poi fa di nuovo il pelo alla retorica dei figli caduta per la patria, dei nomi che campeggiano nelle scuole perché morti nelle guerre mondiali, della "seconda chance" e del cambiamento, elemento tipico della retorica statunitense, in un polpettone natalizio di facili sentimentalismi e stantio buonismo (però "dark humor" signori) che racconta di nuovo il mondo dei ricchi agiati (però ehi, non tutto è così bello come sembra). Il tutto incorniciato da uno stile totalmente privo di guizzi, tutto mostrativo, semanticamente nullo e che quindi riprende lo stile classico hollywoodiano esplicitando anche la metafora dei tre personaggi che sono soli nella scuola perché tutti soli nella vita (chi perché abbandonato dalla famiglia, chi perché la famiglia non ce l'ha più, chi perché rintanato in se stesso). Anche basta.
The Holdovers è una tipica pellicola di Payne, che come al suo solito mischia elegantemente ironia e dramma, questa volta in un clima natalizio che sa di festa troncata o comunque non goduta a pieno. La messa in scena minimale in interni, con la scuola diventata ormai vuota, fredda, depredata dei suoi addobbi non è altro che il riflesso della condizione dei personaggi, specialmente se si mette in rapporto al gioioso e festivo mondo esterno. Ciò che colpisce è l'approfondimento psicologico ben strutturato dei tre personaggi principali, che seppur profondo riesce a lasciare delle sfumature e dei margini che permettono allo spettatore ancora di supporre e presupporre.
Gli argomenti che emergono nelle due ore di durata sono molteplici, il film presenta uno schema abbastanza convenzionale per questo tipo di pellicole, caratterizzato da alti e bassi, momenti che alternano una dura incomunicabilità ad una forte empatia, l'affresco che ne esce fuori è quello di tre anime fondamentalmente sole a combattere con i loro traumi, prestando comunque un grosso spazio all'evoluzione dei personaggi che per voglia o necessità che sia iniziano a venirsi incontro. Dal professor Hunham interpretato da Giamatti, non esattamente il più popolare e simpatico della scuola, molto dedito al suo lavoro ed estremamente appassionato di storia antica, solo e con quella sfumatura macchiettistica che potrebbe ricordare il/la prof che abbiamo avuto un po' tutti al liceo per cui non esiste nulla all'infuori del lavoro, il classico blocco di ghiaccio a cui però basta una carezza per sciogliersi del tutto, come appunto mostra l'evoluzione del personaggio, dall'iniziale scontro con Angus arriverà gradualmente ad aprirsi, anche grazie ad alcuni gesti altruistici del ragazzo - come la deresponsabilizzazione in ospedale - fino ad abbattere le barriere formali tra studente e professore, è un personaggio che fa tanta tenerezza perché costretto costantemente ad indossare una maschera di autorità, è poco comprensivo con gli studenti ma sarebbe il primo ad aver bisogno di comprensione, la scena quando vede la signorina Crane baciarsi col suo fidanzato è di una tenerezza incredibile, e Giamatti è abilissimo nel far trasparire le emozioni del personaggio, così bloccato, così solo.
Dall'altro lato Angus è un ragazzo intelligente ma ribelle, probabilmente a causa di problemi con la figura genitoriale, anch'esso come Hunham inizialmente tende a nascondere le sue debolezze, ma a differenza del professore riesce ad essere più maturo ed è il primo che prova a stabilire un legame di collaborazione ed empatia, con una madre negligente nei suoi confronti e un padre che vuol tenere nascosto, per vergogna o per paura di diventare come lui un giorno è l'emblema del ragazzo anticomunicativo, un po' egoista per istinto di sopravvivenza ma in fondo dal cuore tenero.
E poi c'è la cuoca, questa signora che ha perso recentemente il figlio in Vietnam, che affronta l'elaborazione del lutto in queste festività natalizie terribili per lei, personaggio di grande umanità, dal forte istinto materno, come si vede nella cura che ha degli ospiti, il suo pianto dilaniante alla festa di natale è come una sirena di disperazione nel clima gioioso delle feste, perché durante le feste la tristezza non passa, viene solo messa da parte.
Dallo stile un po' vintage, leggermente sgranato e una componente visiva che può ricordare gli anni in cui è ambientato "The Holdovers" è un bel film dal taglio indipendente, col quale Payne continua coerentemente il suo discorso tra un po' di ironia e un forte dramma di fondo, con quei personaggi sfumati e quelle situazioni tipiche del suo cinema che fanno fermare un attimo a pensare, che fanno riemergere sentimenti contrastanti, dalla nostalgia all'apprezzamento dei piccoli momenti, di certo non è un autore che lascia indifferenti e questo film ne è una delle conferme.