Recensione a 30 secondi dalla fine regia di Andrej Koncalovskij USA 1985
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Recensione a 30 secondi dalla fine (1985)

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Miglior attore in un film drammatico (Jon Voight)
VINCITORE DI 1 PREMIO GOLDEN GLOBE:
Miglior attore in un film drammatico (Jon Voight)
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locandina del film A 30 SECONDI DALLA FINE

Immagine tratta dal film A 30 SECONDI DALLA FINE

Immagine tratta dal film A 30 SECONDI DALLA FINE

Immagine tratta dal film A 30 SECONDI DALLA FINE

Immagine tratta dal film A 30 SECONDI DALLA FINE

Immagine tratta dal film A 30 SECONDI DALLA FINE
 

Al suo secondo film americano Andrej Konchalovsky (fratello del più accreditato Nikita Michalkov), usando una sceneggiatura inutilizzata di Akira Kurosawa, realizza un film di inconsueta perfezione.

"A 30 secondi dalla fine" è la storia di un'evasione dal duro carcere di Stonehaven (Alaska).
L'anziano Manny (Voight) evade insieme a Buck (Roberts), un giovanotto che è in galera per scontare un reato di violenza carnale, inseguito dal direttore del carcere Danken, invasato da un odio furibondo per Manny. Con trenta gradi sotto zero ed a malapena coperti di stracci, i due riescono a salire su di un treno che, a causa della morte per infarto del macchinista, comincia a correre privo di controllo fino ad essere deviato per andare a schiantarsi in una zona desolata. Danken riesce in extremis a salire sul convoglio impazzito, dando luogo ad uno scontro finale con l'evaso e dirigendosi insieme a lui fieramente incontro ad una tragica fine, dopo che Manny riesce a metter in salvo il suo compagno di evasione ed una giovane donna impiegata della compagnia ferroviaria (De Mornay), sganciando il vagone di coda.

Ingiustamente bollato come film d'azione e penalizzato dall'orrenda traduzione del titolo originale ("Runaway train"), la pellicola si dipana secca ed essenziale in una allucinante ambientazione artica glaciale (scelta con furbizia da Konchalovsky negli States per richiamare paesaggi invernali russi).

Il duello animalesco tra l'evaso ed il direttore del carcere, alimentato da un rancore profondo che resta misterioso e inspiegato, annulla ogni distinzione tra bene e male, capovolgendo ed estinguendo l'iniziale impressione che l'evaso sia il buono e il direttore il cattivo. L'uomo è una bestia feroce, è capace di infliggere e sopportare crudeltà spaventose; la sua inclinazione alla ferocia è in grado di superare anche il limite entro cui siamo abituati a tollerarla. Nel film questa escalation si manifesta in un contesto naturale candido e silenzioso, come può esserlo solo un inverno artico, sottolineando ancora di più come l'esercizio di questo istinto animalesco primordiale allontani l'uomo e lo ponga al di fuori della dimensione naturale, richiamando per alcuni versi la riflessione tripartita uomo-natura-ferocia evidenziata da Boorman in "Un tranquillo week-end di paura".

L'epilogo, con il treno ineluttabilmente diretto verso lo schianto, è commentato musicalmente dall'"In Terra Pax" di Vivaldi (estratto dal "Gloria"), con i due contendenti con il volto trasfigurato da un ghigno belluino che non esprime follia, ma il desiderio di porre fine ad un confronto disumano ed in quanto tale insopportabile. Lo schianto finale non è solo la conclusione della storia, è la metafora della fine... Di tutto. Solo la natura matrigna prevale prepotentemente sulla ferocia dei suoi figli.

Un'attenzione speciale la meritano infine i titoli di coda, che prima di scorrere regalano una citazione finale, riportando un sillogismo tratto dal Riccardo III di Shakespeare che getta una luce sinistra e inaspettata sull'intera storia e agghiaccia più di quanto le immagini siano state in grado di fare: "Dicono che anche la belva più feroce è in grado di provare pietà. Io non ne provo alcuna, quindi non sono una belva."

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Recensione a cura di Gardner - aggiornata al 30/01/2008

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