Recensione c'era una volta in america regia di Sergio Leone USA 1984
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Recensione c'era una volta in america (1984)

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locandina del film C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA

Immagine tratta dal film C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA

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Immagine tratta dal film C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA
 

James Woods, uno degli attori protagonisti di "C'era una volta in America", ha definito questo stupefacente lungometraggio di Sergio Leone come "un impressionante rompicapo", un meccanismo perfetto che cattura e ipnotizza lo spettatore fino agli ultimi, struggenti fotogrammi.

"C'era una volta in America", naturalmente, è questo e molto altro. E' innanzitutto una storia indimenticabile, a metà strada fra la fiaba e la tragedia, che doveva essere raccontata dalle immagini e dalla musica per sprigionare appieno la sua potenza espressiva. A pochi sarà venuta in mente l'idea di leggere il libro "The Hoods", di Harry Grey, dopo aver visto il film che su di esso riposa: troppo forte, troppo profonda la soddisfazione che riempie lo spirito dopo la visione di "C'era una volta in America" per desiderare di rivivere la stessa storia attraverso le bianche, silenziose pagine di un libro. Senza le sfasature temporali di Sergio Leone, senza gli sguardi feroci e toccanti di Robert De Niro e James Woods, senza l'incomparabile colonna sonora sfornata dal genio di Ennio Morricone. Harry Grey si sarà già rassegnato: il padre naturale delle altalenanti vicende di Noodles, Max, Patsy, Cockeye e Dominic ha visto (e vedrà sempre più) il suo nome adombrato dall'ingombrante sagoma di Sergio Leone, che per ottenere uno dei più sfolgoranti capolavori della storia del cinema ha sacrificato dodici anni della sua vita. E che, in seguito allo sforzo fisico e psicologico legato alla realizzazione del film, avrebbe presto perduto la salute.

"C'era una volta in America", si diceva, è innanzitutto una storia indimenticabile, formidabile dal punto di vista narrativo e travolgente da quello emotivo. Ma è anche, senza ombra di dubbio, una poetica metafora, con potenzialità di indagine introspettiva, dell'ambiguità dell'animo umano. E' un poema nudo e crudo sull'amicizia, sul tradimento, sul rimorso. E' un cantico della creature (umane) che non risparmia cinismo e crudeltà a chi sa (e vuole) amare, così come contamina con l'amore e il pianto colui che ha seminato, per tutta la sua vita, solo dolore e morte.

Non c'è il bene o il male, in questa meravigliosa e lancinante vicenda; ci sono soltanto la spontaneità, la sofferenza di "noi" esseri imperfetti ma infine, ineluttabilmente, condannati al giudizio della nostra coscienza.

Noodles, Max, Patsy, Cockeye e Dominic sono cinque piccoli teppistelli che, in una New York fuligginosa di inizio '900, vivono di espedienti. I loro amori, le loro promesse, i loro sentimenti sono però autentici, ingenui, rigogliosi. Come quelli di cinque ragazzini, affiatati e anzi inseparabili, di dieci/dodici anni.

Ma la vita li dividerà ben presto, e senza alcuna pietà. La tragica morte di Dominic e il conseguente arresto di Noodles, che per vendicare l'amico ucciso accoltella il suo assassino Bugsy, spezzeranno il patto solenne che i cinque avevano appena siglato. Sarà l'inizio di una lunga, imprevedibile favola di sangue e di sorrisi, che attraverserà oltre quarant'anni di storia americana e farà riabbracciare e poi ancora dividere i quattro protagonisti, conducendoli infine alla morte oppure al... riscatto?

Dal punto di vista della grammatica filmica, la cronologia "impazzita" escogitata da Leone, che vive di prolessi e flashback, in un primo momento può disorientare lo spettatore; a una visione successiva, però, risulteranno chiari il senso e la "poetica" di tale operazione, che mescola le carte di un racconto complesso e intricato in modo da renderlo ancora più avvincente, avvolgendolo di quel fascino enigmatico che è poi una delle ragioni per le quali il pubblico ricorda questo film.

A tal proposito, nel 1994 si è tanto celebrato il pirotecnico "Pulp Fiction", dipingendolo come la pellicola-simbolo dell'epoca post-moderna disordinata e "meticcia", per alcune delle sue peculiarità, tra cui i continui "salti" temporali fra passato e futuro architettati da Tarantino. Ma già dieci anni prima, nel 1984, Leone aveva completamente stravolto l'ordine cronologico degli eventi narrati, aggiungendo alla struggente bellezza della trama di "C'era una volta in America" lo charme sottile (ma decisivo) del sofismo formale.

E proprio in questo gioco di scatole cinesi impazzite si riconosce l'"impressionante rompicapo", il meccanismo perfetto evocato da James Woods che contribuisce a tenere lo spettatore incollato alla poltrona, desideroso di comprendere il vero senso degli avvenimenti che misteriosi si dispiegano davanti ai suoi occhi. Solo alla fine delle tre ore e quaranta minuti la storia, e con essa i personaggi, si riveleranno nella loro essenza più profonda, andando a completare un puzzle di chirurgica precisione.

"C'era una volta in America", naturalmente, è anche l'apoteosi recitativa di Robert De Niro e degli altri attori, fra i quali si fa davvero fatica a individuare dei "comprimari". Nella magistrale interpretazione di "Noodles", poi, sopravvivono il newyorkese losco e disincantato di "Taxi Driver" e il "bravo ragazzo" dalla faccia tosta del film di Martin Scorsese, ma De Niro brilla anche di un eclettismo, per certi versi sorprendente, che lo trasforma in un David Aaronson problematico, malinconico, straziante.

"C'era una volta in America" è anche, fortissimamente, Ennio Morricone: come disse uno dei produttori del film, il compositore italiano è stato capace di partorire "forse la colonna sonora più suggestiva di tutta la storia del cinema."Una musica, aggiungiamo noi, che funge da straordinario "intensificatore" emotivo ma soprattutto da imprescindibile elemento narrativo; come un onnipresente "narratore esterno" che racconta con le note, anziché con la voce. Non sorprenderà quindi scoprire che Sergio Leone, tra una ripresa e l'altra, lasciava che le note di Morricone dominassero il set e fungessero da stimolo emotivo per gli attori, calati assieme a tutta la troupe in un'atmosfera magica, quasi "mistica". La stessa atmosfera che, miracolo della cinepresa, riesce ad avvertire e respirare lo spettatore.

"C'era una volta in America" è il capolavoro artistico che costringe all'interpretazione: il sorriso finale di Noodles, come è stato da più parti notato, potrebbe racchiudere una miriade di significati. Ma lo stesso Sergio Leone, dopo la "prima" del film al cinema Barberini di Roma, confidò a uno spettatore: "Vede, in fondo quel sorriso potrebbe pure significare una cosa molto semplice: il film inizia in una fumeria d'oppio e nella stessa fumeria d'oppio finisce. Quindi, potrebbe... dico potrebbe... anche essere che... beh, insomma, tutta la vicenda non sia stata altro che un...sogno vissuto da Noodles sotto gli effetti dell'oppio..."

Noi, forse, preferiamo credere che non sia stato solo un sogno. Che le cose siano davvero successe e... siano andate così.

Sogno o realtà, non si può non ribadire ancora una volta, in chiusura, la valenza simbolica del film, la sua metaforica poesia che canta splendori e miserie dell'animo umano. In "C'era una volta in America" non c'è il bene o il male, si diceva: del resto, negli ultimi fotogrammi, quando ormai lo spettatore ha interiorizzato la tragedia dei personaggi, all'interno del teatrino cinese le figure stilizzate del Bene e del Male si affrontano nell'eterna battaglia fra le opposte fazioni dello spirito umano...sovrapponendosi e confondendosi infine fra di loro.

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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 11/11/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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