Recensione la fiamma del peccato regia di Billy Wilder USA 1944
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Recensione la fiamma del peccato (1944)

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locandina del film LA FIAMMA DEL PECCATO

Immagine tratta dal film LA FIAMMA DEL PECCATO

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Immagine tratta dal film LA FIAMMA DEL PECCATO

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Nell'immaginario collettivo cinematografico il titolo "La fiamma del peccato" è sempre stato sinonimo di film noir. Oltre a costituire un po' il prototipo e l'esempio perfetto di questo genere, l'opera di Billy Wilder del 1944 è anche uno dei film strutturalmente più solidi e visivamente più suggestivi mai girati. Il suo intreccio senza sbavature, la tensione tenuta sempre a livelli molto alti, il coinvolgimento emotivo diretto e profondo nelle vicende interiori dei personaggi fanno sì che dopo 70 anni il film continui ad appassionare e a lasciare ancora nell'animo dello spettatore un ché di angoscioso e di dolente.
Questo capolavoro costituisce stilisticamente infatti uno dei passaggi cruciali nell'impresa artistica cinematografica di rappresentare la parte scura dell'animo umano.

Fin dalla nascita del cinema i cattivi e i delinquenti sono sempre stati una presenza fissa nei film. Venivano però trattati in genere come semplici personaggi, figure narrative e basta. Furono i registi tedeschi espressionisti negli anni '20 i primi che ebbero il coraggio di rappresentare il male come una componente fondamentale dell'animo umano. Questo "male" aveva più che altro una sostanza spirituale e assumeva spesso la forma della follia o dell'incubo. Il grande merito dei film noir americani degli anni '40-'50 è stato quello di avvertirci che il male invece abita le città, è parte integrante della nostra vita quotidiana e può insidiare chiunque, anche chi ci sta vicino, anche noi stessi.
Basta abbassare un po' la guardia (come Lang ci mostra in "La donna del ritratto" e "La strada scarlatta") per essere risucchiati in un vortice di morte da cui è impossibile uscire. Hitchcock addirittura ci insegna a diffidare anche di chi ci è più caro (il suo capolavoro "L'ombra del dubbio"). Certamente l'atmosfera cupa e piena d'angoscia della fine della Seconda Guerra Mondiale ha contribuito al successo del genere. La morte, l'uccisione sentite come la normalità, come parte lecita del vivere umano, le grandi difficoltà materiali hanno indotto il sentimento collettivo a dubitare della tenuta etica del vivere civile ordinario.

Eredità visiva dell'espressionismo tedesco e quotidianità urbana mediata dalla narrativa "hard boiled" si incontrano proprio ne "La fiamma del peccato", uno dei primi capolavori noir. La sceneggiatura è infatti frutto della difficile collaborazione dell'oriundo regista austriaco Billy Wilder con il famoso scrittore Raymond Chandler (suoi i racconti con l'ispettore Philip Marlowe). Oggetto del loro adattamento cinematografico è un racconto del popolare scrittore James M. Cain (l'autore de "Il postino suona sempre due volte"), intitolato "Double Indemnity" (doppia indennità).
Si racconta di come Walter Neff, un assicuratore 35enne scapolo, perda la testa per Phyllis Dietrichson, un'avvenente signora bionda sposata, arrivando a uccidere il marito di lei per poter riscuotere il premio assicurativo, frutto di una polizza sulla vita estorta con l'inganno. Grazie ad un piano architettato ad arte, puntano a sfruttare la clausola dell'evento eccezionale per poter riscuotere una indennità doppia. Non tutto però riesce alla perfezione e la grande tensione emotiva profusa nello sforzo di non destare sospetti o di non fare errori finirà per logorare l'intesa della coppia, portandola inesorabilmente all'autodistruzione.
Troppo tardi Neff si accorgerà che l'unico legame affettivamente saldo della propria vita era quello con il collega Barton Keyes, un misto fra amicizia e affetto filiale. Un profondo dispiacere affettivo ed esistenziale è quello che trasmettono le ultime bellissime immagini del film.

Si tratta in fondo di una storia molto comune, che potrebbe benissimo essere presa dalla cronaca nera di un quotidiano. Il grande merito di Wilder e Chandler è stato quello di avere trasformato semplici fatti criminali in vita vissuta e per di più vissuta con molta tensione emotiva, con profondo coinvolgimento interiore. Il film infatti parte praticamente "in quarta" già con i titoli di testa: in uno sfondo bianco abbacinante l'ombra sinistra di un uomo con le stampelle si avvicina zoppicando verso la mdp (cioè verso di noi), fino a diventare un'ombra gigantesca e inquietante che divora tutto; in sottofondo una delle musiche più scabre, dure e cupe composte dal grande Miklos Rozsa.

Dopo questa stupenda introduzione, che stabilisce perfettamente l'atmosfera del film, si procede presentando i personaggi, il loro carattere e le loro ragioni esistenziali. Allo scopo Wilder utilizza la geniale innovazione narrativa operata da Orson Welles con "Quarto potere". Si inizia dalla "fine", presentando una conseguenza drammatica e scioccante, e per il resto del film si cerca di rintracciarne le ragioni. E' un espediente stilistico molto potente che stimola lo spettatore ad appassionarsi non dei fatti esterni, ma dei meccanismi umani interiori, lo invita ad immedesimarsi, a vivere le scelte dei personaggi, a entrare nel loro animo e a condividerne le emozioni.
Wilder introduce in questo schema un'importante novità: è il protagonista stesso, Walter Neff, che racconta, che riflette su se stesso con una serie di flashback che occupa in pratica tutto il film. Ciò induce a una maggiore identificazione e coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore (a differenza di Welles che invece voleva far vedere Kane in maniera distaccata e oggettiva). Inoltre questo accorgimento fa sì che anche noi spettatori si venga come trascinati nelle scelte sbagliate, nei meccanismi perversi in cui si è andato a cacciare Neff. Anche noi in prima persona possiamo provare la seduzione inebriante di certe scelte "proibite", per poi viverne le tragiche ed ineluttabili conseguenze.

La storia si svolge quindi con questa presenza costante in sottofondo della voce di Neff, che ogni tanto ritorna sullo schermo al presente, sempre più sudato e sofferente, quasi a volerci ammonire delle conseguenze, ma anche a conferire una patina di rimpianto, dolore e partecipazione alle immagini, che si dipanano con ritmo lento e calcolato.
Il ritmo rallentato è infatti un'altra delle caratteristiche del film. In un thriller c'è da aspettarsi molta azione e suspense continua; ne "La fiamma del peccato" invece prevalgono le scene rappresentative dei luoghi e delle persone e sono proprio queste scene quelle che rimangono più impresse, quelle che conferiscono al film la particolare atmosfera "noir". Molto suggestive sono infatti le inquadrature notturne degli uffici vuoti all'inizio del film, le ombre che avvolgono le stanze, che circondano le persone; oppure le luci che filtrano dalle veneziane e che striano le pareti, l'ombra che accompagna Neff ogni volta che apre la porta di casa di Phyllis. Insomma il film è pieno di tanti suggestivi particolari rivelatori, come quello importantissimo che sintetizza mirabilmente la forte confidenza e amicizia che c'è fra Neff e Keyes (la cortesia di Neff di accendere il sigaro a Keyes strisciando il fiammifero fra le dita) oppure la scena del delitto, che viene "letta" e vissuta in tutta la sua drammaticità e morbosità tramite l'espressione di Phyllis.
Molta importanza viene data anche ai dialoghi, i quali non sono solo i classici dialoghi hollywoodiani strettamente funzionali alla storia, ma spesso si caratterizzano per spontaneità, vivacità e brio (caratteristica che Wilder svilupperà in pieno nei film successivi, soprattutto nelle commedie).

Infine altro tassello fondamentale di questo capolavoro è la perfetta caratterizzazione dei personaggi operata dagli attori.
Fred McMurray dà a Walter Neff il fare di una persona assolutamente media, senza caratteristiche particolari (come lui stesso si autodefinisce) che cede improvvisamente a una ossessione, a un bisogno di evasione, di rottura a cui nemmeno lui sa dare una spiegazione; sa solo che ha cercato di combattere, ma non ha "combattuto abbastanza". Tutto gli sembra accadere come se fosse già segnato, con una sconsolante ineluttabilità a cui non trova la forza di reagire.
Il personaggio di Phyllis Dietrichson vive quasi esclusivamente grazie alla splendida interpretazione di Barbara Stanwyck. Questa attrice che non possiede i crismi fascinosi delle grandi dive (come Rita Hayworth o Ingrid Bergman) riesce a sopperire a tale mancanza grazie a un grandissimo mestiere, dando alle interpretazioni molta misura e soprattutto molta spontaneità e naturalezza. La sua Phyllis è molta viva e sicura di sé e dispiega tutto il suo fascino grazie allo sguardo ardente e ambiguo, al saldo controllo e alla prontezza di spirito. Non scordiamoci che viene vista tramite gli occhi di Neff e che quindi viene caricata di cinismo, freddezza e opportunismo (un altro tassello nell'accusa spesso mossa contro Wilder di misoginia). Nel finale sembra però riscattarsi, ha l'occasione di confessarsi ("I'm rotten to the heart") e forse per la prima volta nella sua vita di essere sincera e innamorata... ma troppo tardi.
In fondo anche lei come Neff soffre di quel disagio di vivere che è la caratteristica comune a tutti i film di Billy Wilder. E' come se la vita sociale imprigionasse le persone in una serie di norme soffocanti, in una routine avvilente da cui si cerca in tutte le maniere di uscire. Così Norma Desmond ha cercato disperatamente di evadere dal grigiore quotidiano, Sabrina ha addirittura tentato il suicidio, come pure tutti i mariti che hanno cercato rifugio nelle avventure extraconiugali nelle commedie con Marilyn Monroe e Jack Lemmon; addirittura Sherlock Holmes è stato dipinto come un uomo insoddisfatto e alienato.
Billy Wilder è stato forse uno dei registi del XX secolo che meglio di tutti (in tutte le salse stilisticamente possibili) ha saputo esprimere il sottile e inconsapevole disagio di vivere nella società capitalista moderna.

Probabilmente il personaggio più importante, o almeno quello più significativo, è forse Barton Keyes. Prima di tutto si raccomanda di ascoltare l'interpretazione originale dalla voce del grande Edward G. Robinson. Il doppiaggio italiano infatti appiattisce e banalizza molto il personaggio. Robinson invece riesce a conferire una verve e un pathos particolari che rivelano una natura molto complessa e profonda, al di là dell'arido mestiere di segugio a caccia di frodi.
Infatti arriva a dire che per lui le pratiche assicurative "sono vive, piene di drammi, di speranze e sogni loschi". Il suo più che un mestiere è una missione, quella di smascherare le falsità e le doppiezze, di operare in maniera quasi chirurgica all'interno dell'animo umano per carpirne la vera natura. Questo mestiere/missione è vissuto in prima persona e si rivela per lui qualcosa di faticoso, snervante e sovrumano, giusto perché non è mai piacevole ciò che l'animo umano nasconde dentro.
Infatti non ha osato pensare che il suo migliore amico fosse anche lui come tutti gli altri, un arrivista assetato di sesso, donne e soldi, uno che usa il denaro come unità di misura della vita. Ma Keyes non è solo un arido giudice, dietro le apparenze burbere e distaccate possiede un cuore (come arriva a intuire anche Neff) e questo cuore gli fa capire che l'uomo è un essere troppo debole, che non potrà mai essere perfetto e per questo occorre comprensione e compassione per chi "sbaglia". Nonostante la triste rivelazione della vera natura del suo carissimo amico Neff, continua a volergli ancora bene e glielo dimostra a suo modo, senza parole, semplicemente accendendogli la sigaretta sfregando il fiammifero fra le dita.
E' la prima e sarà anche l'ultima volta.

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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 26/06/2012 15.13.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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