Recensione la leggenda di narayama regia di Keisuke Kinoshita Giappone 1958
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Recensione la leggenda di narayama (1958)

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locandina del film LA LEGGENDA DI NARAYAMA

Immagine tratta dal film LA LEGGENDA DI NARAYAMA

Immagine tratta dal film LA LEGGENDA DI NARAYAMA

Immagine tratta dal film LA LEGGENDA DI NARAYAMA

Immagine tratta dal film LA LEGGENDA DI NARAYAMA
 

Sullo sfondo una tenda a strisce, ripreso in piano medio, un kurogo 1 fa urtare gli hyôshigi 2 e annuncia titolo e soggetto della rappresentazione:

"Da est ad ovest
ascoltate con attenzione
lo spettacolo che vi presentiamo
è la leggenda di Obasute
la vecchia abbandonata sulla montagna...
NARAYAMA BUSHIKO
"

La cinepresa si sposta escludendolo dal campo visivo e sul telo appaiono i titoli di testa, terminati, lo stesso kurogu sposta la tenda che apre letteralmente la scena, ovvero apre la prima pagina del libro. Ci troviamo immersi in una scenografia surreale ed evidentemente posticcia, fatta di fondali di cartapesta, estremamente formalizzata di un antico villaggio tribale, accompagnati dalle note sghembe dello shamisen 3 siamo introdotti alla storia da un personaggio intermedio, che non fa parte della storia, e che si identifica nel prosieguo con la voce che da vita allo jôruri 4.
Il film è tratto dal racconto "Le canzoni di Narayama di Fukazawa Shichiro con i dialoghi curati dallo stesso Keisuke Kinoshita, prolifico regista celebratissimo in Giappone (alla stregua di Kurosawa, Ozu e Mizoguchi), ma poco conosciuto in occidente. Ambientato in una qualsiasi epoca, in un remoto villaggio di montagna,dove la lotta per la sopravvivenza è quotidiana e dove la disperazione conduce alla crudeltà, in cui da mangiare non c'era per tutti, nelle famiglie la cosa più pericolosa erano le bocche da sfamare. Specialmente se, poi, queste bocche appartenevano a persone non ancora o non più in grado di lavorare. Orin (interpretata dalla straordinaria Kinuyo Tanaka già musa di Mizoguchi Kenji), anziana donna che, approssimandosi i settanta anni, chiede al figlio di essere portata in cima al monte di Narayama per esservi abbandonata. Secondo un'antica usanza infatti (così era successo a sua nonna e alla sua bisnonna) gli anziani di questo povero villaggio giapponese, devono fare spazio ai giovani, e al contempo evitare di pesare sulla famiglia. Si lascia così portare sulle spalle del figlio, contrario alla scelta della madre, in cima al Narayama,dove comincia a cadere la neve, con grande gioia di tutti (in questo modo Orin morirà prima del previsto e con meno dolore).

Kinoshita non lascia spazio a dubbi, già da principio non esista a rompere con gli schemi narrativi classici, identificabili come occidentali, palesando una forte commistione tra linguaggi moderni (cinema) e tradizionali (kabuki 5). Il tutto verrà confermato e rafforzato durante l'intero svolgersi del film, con un utilizzo estremo di luci artificiali colorate che in più di un'occasione assurgono a ruolo di protagoniste, enfatizzando i momenti topici del tessuto narrativo, una recitazione molto impostata di forte impronte teatrale, le movenze degli attori (basti vedere il primo ingresso di Kasekichi, nipote di Orin), sfondi che "cadono" come sipari all'interno dello stesso piano sequenza.
È indubbio che il pubblico occidentale si possa trovare totalmente spaesato da tutto ciò (nei primi film giapponesi degli anni '30 era invece abbastanza usuale questa teatrizzazione del cinema); è richiesto allo spettatore uno sforzo per aderire all'insolita forma narrativa e al contempo la distanza dai personaggi stessi, non solo fisica, ma anche emotiva. Di solito siamo abituati ad essere sommersi dalla storia, ma questo ci può deviare dal considerare il punto di vista dell'artista, cosa che lo stesso Bertolt Brecht aveva capito e sviluppato nelle sue teorie dopo aver preso visione del teatro giapponese. Questo effetto teatrale è reso sopratutto con riprese in campo lungo o totale, con i protagonisti che si perdono nelle scenografie accurate, proprio come nel kabuki, ma dichiaratamente finte. La durata continuativa è spesso interrotta, non tecnicamente, ma di fatto, dall'isolamento del personaggio attraverso l'oscuramento del paesaggio, con un effetto teatrale dell'occhio di bue, che dimostra una palese rinuncia del decoupage classico.
In tal senso è da citare la scena in cui Orin e il figlio Tatsuhei si recano dai saggi del villaggio che spiegano accuratamente il rituale che dovranno seguire nell'amara scelta presa. Quindi pure questo gesto, all'apparenza così feroce, deve svolgersi con serenità, ovvero seguendo i dettami della tradizione. La ripresa è in campo totale, con geometrico rigore, vediamo sulla sinistra Orin e il figlio, inginocchiati in una posizione perpendicolare rispetto ai sei saggi. I sei anziani si passano una pentola con del brodo da cui bevono a turno ed enunciano solennemente le regole inderogabili del pellegrinaggio.

"Vi siamo grati per il vostro sacrificio."
"Ci aspettiamo che rispettiate senza errori... Le regole del pellegrinaggio della montagna."
"Una è: Quando sarete sulla montagna, non pronunciare una sola parola."
"Ci aspettiamo che rispettiate senza errori... Le regole del pellegrinaggio della montagna."
"Una è: Quando lascerete la vostra casa, uscire facendo in modo di non essere visti da nessuno."
"Ci aspettiamo che rispettiate senza errori... Le regole del pellegrinaggio della montagna."
"Una è: Quando lascerete la montagna, in nessun caso, tornare indietro."

I gesti, la postura, e persino l'uscita di scena (che coincide con l'uscita dal Campo) sono carichi di una grazia sublime, che fanno entrare questa scena a pieno diritto nella storia del cinema.

"La Leggenda di Narayama" può essere analizzato da differenti punti di vista, da quello ideologico: un affresco evocativo e profondamente toccante del amore e l'umanità in lotta contro le rigide tradizioni, la disciplina e il senso del dovere. Attraverso immagini stridenti e anacronistiche e inusuali illuminazioni artificiali, Kinoshita ci presenta un esame accurato della pervasiva ideologia nazionale del Giappone della seconda guerra mondiale, sottolineando la dicotomia o più spesso il conflitto autodistruttivo tra l'autocoscienza e il conformismo sociale, la perversione di norme culturali e morali all'interno di una società primordiale (non rispetto degli anziani, disfacimento della vita, regressione della logica razionale in primitivi istinti di sopravvivenza). Inevitabilmente, "La Leggenda di Narayama" diventa un'allegoria sulle conseguenze di un cieca lealtà, sul martirio e la repressione, una riflessione sull'erosione culturale e l'ambivalenza ideologica del Giappone del dopoguerra.

Da una prospettiva più esistenziale non c'è dubbio che il tema principale del film sia la vecchiaia, il rifiuto/accettazione da parte dell'animo umano della vacuità della propria vita. E qui fanno da contrapposizione i due personaggi del film, Matayan, il vecchio che pur di rifiutare il proprio destino accetta di venire umiliato e vessato da figli e compaesani e Orin che decide di affrontare la morte con quieto e altruistico stoicismo. Pur cercando con ogni mezzo di illudersi ed illudere chi le sta attorno parlando con entusiasmo e poesia del pellegrinaggio senza ritorno che va ad affrontare. Può anche essere letta come una metafora della religione, l'uomo che tenta in tutti i modi di crearsi un paradiso, cercando di sfuggire con ogni forza alla realtà delle cose. Ma Orin per quanto impegno ci metta sa bene a cosa va incontro, cosi come suo figlio che l'accompagnerà nell'ultimo viaggio, ma fino all'ultimo rimane coerente con se stessa, accentando con abnegazione e obbedienza il regolamento della comunità apparentemente ingiusto e inumano. Infatti lei malgrado l'età, ironia vuole che sia ancora l'elemento più produttivo della casa, partecipa ai raccolti con maggior lena degli altri, si occupa della casa, possiede un'abilità nella pesca che nessun'altro ha, possiede inoltre una dentatura intatta, grossa onta per un anziana come lei, segno di un suo perpetrato e malvoluto (da parte della comunità) consumo di cibo e allora, al fine di essere qualificata per andare a Narayama, non esita a rompere contro una pietra, in una delle scene più crude e toccanti del film. Qui si arriva all'analisi sociologica del film, una critica aspra e dura ad una comunità di persone costretta a fronteggiare una carenza di risorse, in cui poter mangiare una tazza di riso puro è un lusso da permettersi una volta solo all'anno, durante il festival di Narayama, in cui il villaggio confinante è ansioso di spedire una vedova a casa di Orin il prima possibile, per farla sposare con il figlio, perchè lei possa iniziare a mangiare li, in cui il cinico nipote di Orin non pensa ad altro che a disfarsi della nonna che con tanto amore l'aveva accudito, al fine di preparare la stanza per la propria moglie. La società degli uomini, in modo poco dissimile da un branco di animali, mette più deboli e meno produttivi da parte e ogni comportamento è figlio della ricerca di cibo, il bene più prezioso, che viene consumato con religioso zelo!

Kinoshita ha concepito tutto il film come un'opera in divenire in cui l'inizio leggero e quasi scanzonato, lentamente ed inesorabilmente lascia il campo al dramma con intensità sempre crescente fino a culminare all'apogeo finale dell'opera nello struggente finale.
La macro-sequenza finale inizia in un buio pesto, Tatsuhei porta sulle spalle la madre, seduta su una gerla a tracolla, la quale non proferisce parola, man mano che ci si avvicina alla fine (del film e della protagonista), la scena si rischiara, ottenendo un effetto sorprendente e destabilizzante. Giunti a destinazione, Orin, senza degnare il figlio di uno sguardo e di una parola, pone una stuoia a terra, vi si siede e mangia un po' di riso, il suo ultimo pasto. Tatsuhei, affranto, oltre che provato dal cammino, fugge, e ripercorre così i sentieri appena passati in senso inverso, che Kinoshita identifica nelle medesime inquadrature, che ci appaiono questa volta in piena luce. Dopo un incontro scontro finito tragicamente con il figlio di Matuyen che porta di peso il padre anche lui verso il Narayama, corre di nuovo in cima per guardare un ultima volta la madre che giace silenziosa sulla gerla. Ha iniziato a nevicare, come auspicava Orin (la morte sarà così più rapida), una nuova generazione (un nipotino sta per nascere) si avvia a sopravvivere ad una vita di stenti e miseria, cui fa fronte il coraggio di Orin di accettare fatalmente la vecchiaia e la sua (in)utilità.


1 Il kurogo è la persona che aiuta gli attori nel teatro kabuki. Li assiste per cambiare il kimono in palcoscenico, porta i materiali necessari, e così via. Si vestono tutti in nero, da cui il nome di kurogo, ossia "vestito nero". Comunque sia, il kurogo viene considerato come se non esistesse. Questa è una regola non scritta in teatro di kabuki, secondo la quale il nero è considerato un colore invisibile.
2 Gli hyôshigi [lett. "legni da ritmo"] sono una coppia di stecche di sezione quadrata lunghe circa 24 cm (solitamente in legno di quercia) che vengono fatte suonare battendole insieme. Sono chiamati anche semplicemente ki [legni]. Vengono utilizzati in molti tipi di spettacolo teatrale (inclusi il kabuki, il bunraku ed il ).
Gli hyôshigi sono uno strumento apparentemente semplice, ma in realtà il timbro del loro suono è piuttosto diverso a seconda del modo di suonarli. Nella musica da teatro queste sfumature sono specificate dettagliatamente a seconda della situazione: padroneggiare le tecniche di emissione del suono richieste di volta in volta richiede una notevole esperienza.

3 Lo shamisen è uno strumento musicale giapponese a tre corde, utilizzato per l'accompagnamento durante le rappresentazioni del teatro kabuki e bunraku.
4Il jôruri è una narrazione eseguita con uno stile di declamazione a metà strada tra la recitazione il canto; è accompagnata dal suono dello shamisen e nasce come musica di scena del bunraku, ovvero dello spettacolo di burattini, successivamente è diventato parte integrante delle rappresentazioni del teatro kabuki.
5 Il kabuki uno dei generi classici di teatro musicale giapponese, sorto ad Edo all'inizio del XVII secolo e che ebbe grande popolarità (soprattutto tra la borghesia cittadina) per tutto il periodo Edo. A differenza del NM, teatro tradizionale basato su codici gestuali e vocali assai difficili da comprendere, tanto da essere generalmente fruito dalle classi più abbienti, il kabuki aveva una natura profondamente popolare, benché basato su codici non meno rigidi del NM, e allargò più tardi il ventaglio dei possibili soggetti anche alle storie reali.

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Recensione a cura di bungle77 - aggiornata al 09/03/2009

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