Recensione la nostra vita regia di Daniele Luchetti Italia 2010
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Recensione la nostra vita (2010)

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Migliore regiaMiglior attore protagonista (Elio Germano)Miglior sonoro
VINCITORE DI 3 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Migliore regia, Miglior attore protagonista (Elio Germano), Miglior sonoro
Miglior attore (Elio Germano)
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Miglior attore (Elio Germano)
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locandina del film LA NOSTRA VITA

Immagine tratta dal film LA NOSTRA VITA

Immagine tratta dal film LA NOSTRA VITA

Immagine tratta dal film LA NOSTRA VITA

Immagine tratta dal film LA NOSTRA VITA

Immagine tratta dal film LA NOSTRA VITA
 

E così, finalmente, fatte le debite differenze, l'Italia ha il suo Ken Loach, il suo cantore del nuovo proletariato urbano: il regista Daniele Luchetti.
Fatte le debite differenze, perchè i proletari di Luchetti, diversamente di quelli di Ken Loach, hanno perso la loro identità e si ritrovano ad inseguire miti e mode di un mondo che non gli appartiene e che mai gli apparterrà; ma anche a condividere con quel mondo la fascinazione per tutto ciò che è ostentazione e mancanza di senso etico e morale. Un mondo di squali (o di caimani) con luci (poche) e ombre (molte).
Con "La nostra vita", Luchetti ha fatto il ritratto dolce-amaro di un'Italia che se ne frega delle regole, e del suo sottoproletariato urbano che vive di marginalità e sogna le contraddizioni del nostro tempo. Il ritratto di un'Italia delle scorciatoie e dei piccoli e grandi affari sporchi, che si consumano quotidianamente nell'indifferenza più assoluta; e di quegli italiani che vivono di ristrettezze e sognano il mondo che le tv (commerciali e non) dei reality show e delle soap opera gli propongono, fatto di tronisti e di veline facili, di pupe e di secchioni.
Un ritratto del paese dell'illegalità generalizzata e di noi italiani che la tolleriamo, la scusiamo e la condividiamo, di noi che identifichiamo la corsa alla ricchezza come l'unico modello esistenziale possibile, che viviamo la precarietà del lavoro e votiamo chi su quella precarietà fa la sua fortuna, promettendo miracoli e insegnando stili di vita in cui è meglio apparire che essere, che ci fa credere che gli unici obiettivi di vita sono il benessere, i soldi, le feste, le vacanze, le donne (meglio se a pagamento).
È l'Italia dei soldi che si pensano facili, dei quartieri dormitorio e dei palazzoni anonimi, dove tutto è lontano, dove restano solo gli oggetti a fare la differenza, lo status da sfoggiare: il televisore al plasma, la playstation, l'iPod, i vestiti di marca.
È l'Italia di chi non sa più indignarsi anche se non ce la fa ad arrivare a fine mese; l'Italia del grande illusionista che ha rubato trucchi, mestiere e scena ai vecchi maghi televisivi e, anche se non piega più i cucchiai, fa veri miracoli: ipnotizza milioni di persone, risolve le crisi con la forza del pensiero, appare giovane anche se è decrepito.

È l'Italia di Claudio, l'operaio trentenne che lavora nel campo dell'edilizia nella periferia romana.
Sui ponteggi di uno dei tanti palazzi in costruzione, Claudio coordina il lavoro di altri operai (in maggioranza extracomunitari che nel loro paese facevano i pediatri, e qui ci costruiscono le case), urla ordini e impartisce disposizioni. Nel privato è un uomo felice, anche se vive ai margini della vita sociale e della vita culturale. Sposato con Elena, è padre di due bambini piccoli e in attesa del terzo che deve nascere a breve. Non ha grosse risorse economiche, ma ha una moglie giovane e bella, che ama molto e da cui è riamato.
Lui ed Elena hanno una vita sessuale appagante, comprano i mobili da Ikea, amano Vasco Rossi e sognano la vacanza dei vip in Costa Smeralda. Una sopravvivenza serena che all'improvviso si spezza nella fatalità di una tragedia.
Prima muore un operaio irregolare, precipitando nella tromba dell'ascensore, il cui corpo verrà seppellito di nascosto; poi la tragedia più grossa: Elena se ne va dando alla luce il loro terzo figlio.
E per Claudio la vita diventa un inferno, una vita che gli sfugge di mano ogni giorno di più.

Piegato ma non vinto dal dolore, lui "Anima fragile" (come la canzone di Vasco Rossi che cantava con Elena, la sera, prima di fare l'amore, e che canta a squarciagola al suo funerale), elabora il lutto alla sua maniera, concentrandosi sui soldi e sul modo come arricchirsi facilmente: lo deve alla memoria di sua moglie, lo deve ai suoi bambini, che devono avere tutto quello che lui non ha avuto dalla vita.
E allora va fuori di testa.
Comincia a vedere nel denaro l'unico modo per riparare il vuoto che ha dentro di sè, e sceglierà la via sbagliata, per risarcire i suoi figli e se stesso della perdita rispettivamente della madre e della moglie. Si rivolge agli strozzini, truffa (perchè, tanto, così fanno tutti), ricatta il costruttore per cui lavora, a causa di quel cadavere occultato illegalmente, e lo costringe a dargli in subappalto la costruzione di un edificio. "C'è poco tempo e poco guadagno" lo avverte quest'ultimo. Ma Claudio vuole provarci e si indebita fino al collo. "Una soluzione si trova", è solito ripetere a chi cerca di metterlo in guardia dell'abisso in cui si è cacciato: l'abisso dell'edilizia italiana, fatto di mancato rispetto delle norme di sicurezza, di morti bianche, di sfruttamento della mano d'opera, di lavoro in nero.
Poi però le cose precipitano: i lavori non finiscono mai, gli operai vogliono essere pagati, gli strozzini rivogliono indietro i soldi che gli hanno prestato. Quando capisce che non ce la può fare, si trova costretto a rivolgersi alla famiglia: al fratello Piero, vigile urbano fragile e imbranato con le donne, alla sorella Loredana, troppo materna e condiscendente, al pusher vicino di casa, handicappato dal cuore d'oro, tutte persone che fanno salti mortali e grossi sacrifici economici pur di tirarlo fuori dai guai e permettergli di completare i lavori iniziati.
A sostituire i rumeni che l'hanno abbandonato arrivano i cottimisti su auto di grossa cilindrata. Sono tutti italiani e lavorano come matti; naturalmente in nero.
Alla fine pare che tutto vada nella direzione in cui deve andare, ma ormai la moralità è persa per sempre. Sarà proprio il figlio dell'operaio morto a ricordargli che "non tutto s'aggiusta con il denaro".

Un film crudo autentico e doloroso, anche violento in alcune verità.
Perché il lutto di Claudio è il lutto per la nostra identità perduta; perchè Claudio non è altro che un pretesto per rappresentare la nostra ossessione per il guadagno, lo specchio del nostro paese e della sua cultura contemporanea.
La cultura di chi prende scorciatoie, la cultura dell'illegalità fatta principio, del gioco sporco e della strumentalizzazione. Tutte cose che mai ci saremmo sognati di fare: occultare un cadavere per scongiurare il fermo del cantiere, chiudere un occhio (o tutti e due) se i lavori non sono eseguiti a regola d'arte, sfruttare i clandestini perchè più vulnerabili, pretendere che le tasse le paghino solo gli altri, arricchirsi attraverso l'illecito e la corruzione.

Nulla eccezionale nella sua semplicità, solo una storia che respira l'aria del nostro tempo, Una storia di dolori e tenerezze, di errori e di riscatti; la storia di un'intera classe che un tempo si chiamava proletariato e che adesso ha non si sa più neanche come chiamare.

"La nostra vita" è dunque uno spaccato del nostro Paese e della sua società. Ritrae lo spazio scivoloso che separa il bene dal male, l'illegalità dalla legalità, l'onestà dalla disonestà; ma lo fa senza giudicare e senza giudicare la vita dei suoi personaggi. Perchè sono così come sono, e tutti hanno un alibi, e tutto è intrecciato con la solidarietà, gli affetti, i sentimenti; morti bianche e amori inattesi, tenerezza e sfrontato cinismo.

Daniele Luchetti parla di noi, della nostra vita e della nostra incapacità di gettare le basi per un futuro migliore, perchè ormai modi di pensare e di agire fanno parte del nostro modo di essere e perchè l'esempio che ci viene dalla nostra classe dirigente è ancora peggiore della realtà che viviamo.

Una nota di merito va all'intero cast, tutti bravi, come Isabella Ragonese, nel breve ruolo di Elena, e alcuni veramente sorprendenti, come Raul Bova (finalmente in ruolo serio) genialmente relegato dalla regia nel ruolo speculare del fratello timido e problematico con le donne, e Luca Zingaretti, bravo e irriconoscibile in un ruolo (quello del pusher) diametralmente opposto a quello del Commissario Montalbano con cui lo conosciamo.
Ma su tutti spicca l'eccezionale performance di Elio Germano, che si conferma il miglior talento della nostra cinematografia attuale. Straordinariamente, il giovane attore regge sulle sua spalle l'intera struttura del film, e lo fa con il piglio e la sicurezza del grande attore, riconosciuti anche dalla giuria del Festival di Cannes, che gli ha assegnato la Palma d'Oro come miglior attore 2010.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 29/05/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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