Recensione la parte degli angeli regia di Ken Loach Gran Bretagna, Francia 2012
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Recensione la parte degli angeli (2012)

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locandina del film LA PARTE DEGLI ANGELI

Immagine tratta dal film LA PARTE DEGLI ANGELI

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C'è una bevanda che racchiude in sé storia e leggenda, per la quale si sono fatte guerre e scritti trattati, il cui mistero inizia fin dal nome (whisky o whiskey?) e una parte è destinata ad inebriare gli angeli.
È quella frazione di distillato che evapora dalle botti durante la decantazione e l'invecchiamento (circa il 2% annuo) e che molto poeticamente viene definita "la parte degli angeli" (the angel's share). Gli scozzesi, fieri ammiratori di questa bevanda, vogliono credere che questa piccola, ma preziosa parte che svanisce nell'aria, arrivi fino in cielo e sia appannaggio delle creature celesti, che come ricompensa contribuiscono a creare un prodotto unico e inimitabile per qualità e prestigio. Solo che in questo caso gli angeli non hanno le ali ma una fedina penale piuttosto sporca e non si chiamano Gabriele o Raffaele, ma Robbie, Rhino, Albert e Mo.

Sono un quartetto (tre ragazzi e una ragazza) di giovani borderline del sottoproletariato di Glasgow, tutti con un passato di grandi e piccoli drammi e con precedenti penali sulle spalle. Incrociano le loro strade in un centro di recupero per crimini minori, dove li ha spediti la corte di giustizia come pena alternativa alla detenzione.
Robbie, in particolare, un ragazzo con un'infanzia traumatica alle spalle e una rabbia feroce difficile da gestire, ma tanto diverso dai soliti bulli di quartiere, vi è arrivato per aver pestato selvaggiamente, durante una rissa, un coetaneo che da tempo lo perseguitava. Quando si ritrova dinnanzi al giudice che lo deve giudicare, Robbie è convinto di essere in procinto di tornare in prigione, dalla quale è appena uscito. Ma la presenza della sua giovane compagna incinta di otto mesi e la speranza che l'imminente paternità lo convinca a cambiare strada, inducono il giudice ad essere clemente con il ragazzo e concedergli un'altra chance, evitandogli la prigione che gli impedirebbe di crescere suo figlio.

E così Robbie si ritrova ad espiare il suo crimine nella piccola comunità di recupero, mandato a svolgere 300 ore di "community service", ossia ore di lavori socialmente utili al servizio della comunità. Il problema per Robbie, però, non è rappresentato dal lavoro coatto, ma dalla famiglia della sua ragazza, che non lo sopporta perché convinta che sia un fallito.
E così quando si reca in ospedale per vedere suo figlio appena nato, i fratelli di lei, approfittando del fatto che non può reagire se non vuole finire in galera, lo allontano bruscamente e non gli permettono di vedere il bambino. Non può permettersi neppure di reagire alla banda di teppisti, amici del ragazzo che ha selvaggiamente picchiato, che continuano a cercarlo per vendicare l'onore del loro compagno oltraggiato.
Non gli resta che prendere in considerazione l'idea di andare via da Glasgow, come gli suggerisce il padre della sua ragazza, disposto persino a dargli dei soldi purché non si faccia più vedere. Ma basta che prenda in braccio per la prima volta il suo piccolo Luke (così si ostina a chiamarlo, nonostante la famiglia della ragazza, a sua insaputa, lo abbia chiamato Vincent) per convincersi che è veramente giunta l'ora di cambiare vita e di giurare che suo figlio avrà una vita migliore della sua.

E così decide di seguire il programma di recupero che lo Stato offre alle persone emarginati come lui. Nella comunità prescelta incontra Rhino (beccato mentre urinava sopra una statua che stava cavalcando), Albert (scoperto mentre ubriaco sfidava l'arrivo di un treno sui binari della stazione) e Mo (sorpresa a rubare un pappagallo), di cui diventa molto amico; e soprattutto Harry, un uomo bonario e generoso, che ha perso il lavoro e ora fa l'addetto alla sorveglianza dei ragazzi durante le ore di servizio civile: il miglior adulto che Robbie abbia mai avuto la fortuna di incontrare nella sua vita.
Un giorno Harry decide di portare la sua troupe di disadattati, in kilt e zaino in spalla, a lavorare in una distilleria nella brughiera delle Highlands, il "santuario" dove si produce il preziosissimo whisky per intenditori. Qui Robbie rimane folgorato dal mistero del "single malt" e scopre il mondo dei collezionisti e la realtà delle aste milionarie; ma soprattutto scopre di avere una naturale predisposizione per la degustazione del whisky.
Scoperta l'esistenza di una botte rarissima, e quindi preziosissima, i quattro escogitano un piano infallibile che farà loro guadagnare una fortuna e permetterà a Robbie di uscire dalla condizione di emarginazione, per iniziare una nuova vita insieme alla sua ragazza e al bimbo appena nato, lontano dalla banda di teppisti che lo perseguita e dalla famiglia di lei che non perde occasione per ricordargli che non è altro che la feccia della società.

Con questo film Ken Loach abbandona (momentaneamente?) il percorso di denuncia e di rabbia che ha contraddistinto gran parte delle sue pellicole, per raccontarci una storia di riscatto umano e sociale, inserita in una pellicola che sta tra il fantastico e il favolistico, in cui commedia e ottimismo si mescolano felicemente con situazioni drammatiche e di disagio giovanile.
E così Ken "il rosso" torna a riflettere (e far riflettere) sulle problematiche giovanili, oggi ancora di più incentrate sull'emarginazione e sulla mancanza di prospettive, conseguenti alla precarietà dovuta alla cronica mancanza di lavoro. In Inghilterra, infatti, come in Italia, la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli, forse, mai toccati prima e intere generazioni di ragazzi devono convivere con la sensazione che un lavoro sicuro, forse, non l'avranno mai.
La genialità del regista di "Riff Raff - Meglio perderli che trovarli" e "Piovono pietre" risiede nel fatto che riescono a trattare questi argomenti, piuttosto drammatici, con il sorriso sulle labbra e la leggerezza tipica della british comedy.

Come sfondo a questa commedia umana Loach sceglie la location della Glasgow che ama e che conosce molto bene. Città profondamente scottish, ricca di sfaccettature sociali che si evidenziano nei suoi sobborghi disagiati, nei muri scrostati delle sue case di periferia tutte uguali, dove si parla uno slang incomprensibile persino agli inglesi (in Inghilterra il film è uscito sottotitolato) e la sera si cammina zigzagando.
Ritroviamo così l'ambientazione proletaria di tanto cinema britannico, da "Full Monty" a "Sweet Sixteen", passando per "Grazie signora Tatcher" e "Bill Elliot". Un genere consolidato che di volta in volta sa offrire spunti di riflessione sul corso della vita, in cui si susseguono situazioni divertenti ad altri che divertenti non lo sono affatto. Ritroviamo l'idea che, nonostante la classe lavoratrice non sia più quella di una volta, ciò che continua a chiedere è la casa, il lavoro, la sanità, la scuola, la sicurezza sociale.

Con il trascorre del tempo Ken Loach, coadiuvato dal fidato sceneggiatore Paul Laverty, proprio come il divino nettare di cui tratta, sembra aver acquisito una fragranza completamente nuova, diversa dal consueto sapore dei suoi film di degrado sociale a cui ci aveva abituato da oltre 40 anni. E invece, puntuale come un giovanotto alle prime armi, ecco che con questo film, cambia la carte in tavola, tiene il dramma a distanza e si avvicina ad un genere inusuale come la commedia, a cui, in questo caso, aggiunge un tocco di heist movie sui generis.
Si sorride alle battute degli sprovveduti quattro ragazzotti, alla goffaggine delle loro azioni, alla scurrilità del loro linguaggio, al grottesco delle situazioni in cui si cacciano, al contrasto tra la loro rozza semplicità e la sacralità del rituale a cui attingono i turisti del whisky in visita alle cantine scozzesi. Chi si aspetta il classico racconto della working class "alla Loach", probabilmente rimarrà deluso, anche se la violenza e la tragedia di una Glasgow senza speranza sono sempre ben presenti.
E allora perché se alcuni personaggi appaiono annacquati e l'ottimismo è un tantino forzato "The Angel Share" è probabilmente la miglior commedia dell'anno? Semplicemente perché si tratta di una storia che al tempo stesso è una delicata, contemporanea favola morale e perché con poco o niente il regista riesce a raccontare la vicenda di personaggi che resistono e non si arrendono, pur nella complessità della loro vita, senza cadere nell'errore di assolverli. Perché il socialismo di Ken Loach è di stampo umanitario e quindi crede che la redenzione passi anche attraverso la voglia e la capacità di rivalsa a cui molti giovani tendono con energia, ma anche attraverso la libertà di avere un'occasione per sfuggire lo svantaggio della situazione di partenza e dare a se stessi la chance di una vita migliore.

Ancora una volta il regista sceglie di prendere come protagonisti un cast di attori tutti, o quasi, non professionisti, a cominciare dal sorprendente Gary Maitland, un Albert incontenibile nella sua rozza sprovvedutezza in almeno due scene, subito divenute di culto; per finire con il convincente scozzese Paul Brannigan, esordiente dalla storia difficile come il suo Robbie; e come linguaggio lo slang incomprensibile parlato dai giovani di Glasgow. Giovani che portano sul viso i segni di una vita vissuta a fatica e negli occhi la voglia di farcela.
Ciò che emerge nel finale è la sensazione che anche quando il film sembra farsi commedia non permette mai di dimenticare chi ne è autore e in quale contesto esso si svolge. Dramma o sorriso che sia, il film va gustato tutto fino in fondo, senza moderazione, come appena un goccio di ottimo whisky scozzese.
E agli angeli, come recita il titolo, la loro parte

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 18/12/2012 15.19.00

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