Recensione nobi regia di Shinya Tsukamoto Giappone 2014
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locandina del film NOBI

Immagine tratta dal film NOBI

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Immagine tratta dal film NOBI
 

Approdato all'ultima Mostra del cinema di Venezia, il film di Shinya Tsukamoto ha suscitato una certa curiosità fra addetti ai lavori e non, in primo luogo per il genere affrontato, inusuale per il regista nipponico, per l'ambientazione della vicenda e per il fatto di aver adattato il libro omonimo di Shoei Ooka del 1951, tradotto in Italia come La guerra del soldato Tamura, già trasposto su grande schermo nel 1959 da Kon Ichikawa (autore dell'"Arpa Birmana") con il titolo "Fuochi nella pianura".
Senza aver visto il film e dalle poche indiscrezioni trapelate, nonché fuorvianti, la questione poteva essere liquidata come una operazione di remake, ma trattandosi di un regista come Tsukamoto il beneficio dell'inventario era un dato d'obbligo come puntualmente avvenuto.

1945. Verso la fine della Seconda guerra mondiale il soldato Tamura e una truppa di commilitoni giapponesi, a causa di una pesante offensiva delle armate americane, sono costretti a rifugiarsi all'interno della giungla e cercare in mezzo agli stenti di raggiungere la località di Palompon, dove verrà effettuata l'evacuazione definitiva dell'esercito giapponese ormai in completa rotta.

Visto dall'alto il paesaggio della giungla delle Filippine sembra essere rassicurante come osservare una cartolina. E' lussureggiante e rigoglioso, persino invitante, ma alsuo interno si sta consumando l'orrore più assoluto determinato dalla follia della guerra.
Le dinamiche della giungla naturale non sono diverse dalla giungla urbana, paesaggio "naturale" caratteristico delle pellicole di Tsukamoto. Al suo interno è alienante, l'uomo perde ogni coordinata prestabilita, sia dal punto di vista dello spazio che dal punto di vista morale e psicologico.
L'inizio è rappresentativo di questo straniamento che diventerà sempre più un elemento distintivo di "Nobi". Il soldato Tamura è costretto ad un andirivieni fra il proprio battaglione e l'ospedale da campo in un contesto dalle tonalità grottesche.
E' affetto da una tubercolosi e non è idoneo a combattere per il comandante di battaglione e quello che ne è rimasto del battaglione, ormai con l'esercito giapponese in rotta completa. Viene costretto a recarsi presso l'ospedale da campo per curarsi, ma una volta giunto il suo caso non è prioritario rispetto a casi più gravi ed urgenti e costretto a tornare indietro.

E' un'azione che si ripete più di una volta che costringe Tamura ad accamparsi in una terra di nessuno fra battaglione e ospedale insieme ad altri commilitoni nelle medesime condizioni. Non sono utili a combattere ma non così gravi da essere curati in maniera prioritaria rispetto ad altri casi. Tamura e gli altri compagni sono espulsi da qualsiasi contesto e stazionano in un limbo immobile ed in attesa degli eventi.
Attesa che durerà fino a quando un bombardamento alleato distruggerà l'ospedale e li costringerà a tornare verso il battaglione che ormai non c'è più. A questo punto l'unica cosa certa è andare a Palompon, località dove si riuniranno i resti dell'esercito giapponese per eseguire l'evacuazione e la ritirata dall'arcipelago filippino.

La giungla offre un naturale riparo da nemici alleati partigiani filippini, ma il percorso del soldato Tamura all'interno di essa è lastricato letteralmente di morti, un tunnel dell'orrore di corpi accatastati e dilaniati da essere quasi una rappresentazione visiva dell'orrore conradiano del Kurtz di Cuore di tenebra prima e di "Apocalypse now" di Coppola poi. Un orrore visivo su cui Tsukamoto indugia molto ma non in maniera gratuita. In fondo l'orrore rappresentato è solo una manifestazione fisica aberrante della guerra e rappresenta solo un anticipo delle difficoltà che incontrerà Tamura durante il suo cammino. Difficoltà che comporterà una trasformazione spirituale del Tamura stesso.
Del soldato sappiamo ben poco, soltanto che è uno scrittore e giornalista nella vita civile, ma del suo trascorso di guerra è una tabula rasa. Non sappiamo se è coraggioso o meno e se ha già ucciso dei nemici, ma è un dato poco significativo, perché la sua situazione in divenire, dal momento che dovrà raggiungere in qualche modo Palompon, lo metterà in condizioni che indubbiamente lo segneranno in maniera profonda ed indelebile.
"Nobi" non tradisce la cifra stilistica del regista giapponese che lo pone al di fuori da una pura logica di remake, al contrario utilizza il romanzo di Ooka come fonte da adattare per il suo stile così personale e riconoscibile. Il film di Tsukamoto subisce improvvise accelerazioni della camera per restituire allo spettatore l'esperienza fisica ed emotiva di Tamura. La spossatezza causata dalla fame e dall'impossibilità di reperire cibo commestibile malgrado il paesaggio lussureggiante che lo circonda oppure le corse affannose per nascondersi dai bombardamenti alleati e gli agguati dei partigiani.

I corpi immobili dei cadaveri accatastati e lasciati marcire e i corpi dei commilitoni dilaniati dalle pallottole degli alleati, mentre tentano di superare uno sbarramento nemico durante le ore notturne. Quest'ultima sequenza in particolare è una delle migliori del film, con un nemico invisibile coperto dai enormi fari che illuminano il terreno dove i giapponesi tentano di andare oltre l'ostacolo e la pioggia di proiettili che li investe costringendoli ad una brusca ritirata.
Pur trovando soldati giapponesi durante il suo cammino, il percorso di Tamura in fondo è solitario. Ben presto si rende conto che placare la fame, prima ancora dei nemici, è il bisogno primario per raggiungere l'obiettivo.
La necessità di sopravvivere ad ogni costo implica delle scelte morali estreme che sono affidate principalmente a sé stessi, soprattutto quando l'esercito è completamente in rotta e privo di ogni direttiva gerarchica che faccia da guida e tenga serrate le fila. Avviene quindi un processo di disumanizzazione dei soldati, in cui si creano situazioni a volte assurde (barattare tabacco contro cibo) e comunque in un contesto dove la solidarietà reciproca viene meno. La logica dell'Homo homini lupus ha così il sopravvento su tutto, smembrando allo stesso tempo la struttura sociale che ne è alla base.

Tamura stesso, più per paura che spinto da una volontà distruttrice, uccide una coppia di filippini a colpi di mitra dopo che aveva scoperto un nascondiglio di cibo all'interno di una chiesa. Ma volente o meno è solo l'inizio di un vero percorso infernale verso una apparente destinazione (Palompon) di cui tuttavia si sono perse completamente le coordinate. I soldati di "Nobi" sono come dei morti viventi che arrancano in mezzo ai cadaveri, in un contesto di degrado fisico e morale che non ha limiti, e se li ha, verranno ampiamente superati quando i morsi della fame presenteranno il loro conto e il conseguente cannibalismo diventa una opzione non più aberrante, ma necessaria alla sopravvivenza del singolo.
"Nobi" non è un film che offre speranza o redenzione. E' un andare sempre più verso il basso e malgrado l'apparente flashforward di un Tamura rientrato in patria salvo fisicamente da quella ecatombe, è un uomo profondamente ed in maniera indelebile segnato dall'esperienza che ha provocato ferite che non verranno rimarginate.

Tsukamoto conferma ancora una volta la sua piena coerenza con il suo cinema così viscerale ed emotivamente intenso. Un film da lui diretto, prodotto, fotografato, montato e scenografato conferma di una spiccata indipendenza del cineasta giapponese. Non aggiunge molto di significativo rispetto alla sua filmografia, ma è un film cui traspare in ogni sua immagine il suo talento cristallino.

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 19/06/2015 15.50.00

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