Recensione orphan regia di Jaume Collet-Serra USA 2009
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Recensione orphan (2009)

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locandina del film ORPHAN

Immagine tratta dal film ORPHAN

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Immagine tratta dal film ORPHAN

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Immagine tratta dal film ORPHAN
 

Kate Coleman perde il terzo figlio durante il parto e, con il marito John, decide di adottare una bambina. Durante una visita all'orfanotrofio locale, i due s'innamorano della piccola Esther e decidono di portarla a casa con loro. Mentre la figlia minore, Max, sembra fare immediatamente amicizia con Esther, il fratello, Daniel, si mostra più diffidente. La nuova arrivata inizierà ben presto a comportarsi stranamente, mostrando disturbi comportamentali e destando i sospetti di Kate. Quando i Coleman riceveranno una visita a sorpresa di Suor Abigail, che gestisce l'orfanotrofio, le cose inizieranno a complicarsi.

L'ormai nutrita famiglia dei biliosi pargoletti demoniaci, vetusto sottogenere resuscitato a nuova vita, s'arricchisce d'una nuova nata con la Esther di "Orphan". Ostetrico e incaricato dei festeggiamenti è il regista Jaume Collet-Serra, già responsabile del remake de "La Maschera di cera", ricordato unicamente per una comparsata della Barbie da esportazione Paris Hilton. L'anno passato abbiamo assistito alle nefaste imprese del diabolico Joshua e del kinghiano David Sandborn de "Il respiro del diavolo", senza scordare l'irlandese Dorothy Mills e i bambini assassini di "The Children" dell'inglese Tom Shankland. Tutti virgulti malefici, sì, ma del tutto legittimi. La fin troppo perfetta Esther, invece, è una bambina presa in adozione, la quale proviene da un luogo alquanto minaccioso ed esoterico (almeno per lo sceneggiatore David Leslie Johnson) come l'Europa dell'Est.
Sarà per questo che la garrula fanciulletta, accanita lettrice della Bibbia, dal forbito eloquio e dalle indiscusse doti pittoriche, s'abbiglia come una bambola vittoriana partorita da un'allucinazione del reverendo Dodgson? Quando poi veniamo a conoscenza del fatto che la smorfiosetta vanta origini estoni, tutto si fa più chiaro.

L'Estonia è luogo indefinito e semimitologico, un po' come la Transilvania di Bram Stoker, e basta buttare un'occhiata al sito del Saarne Institute per capirlo, ammantato com'è di mestizia sovietica d'antan. Anche se l'URSS è collassata, chissà se ci si potrà fidare del nuovo corso, a base di oligarchie mafiose e soluzioni cecene, inaugurato da Vladimir Putin. Non sarà che, sotto sotto, questi ex bolscevichi vogliono infiltrarsi anche nell'innevato Canada e minare la stabilità familiare, come ai gloriosi tempi de "L'invasione degli ultracorpi"? Orrore e pulsioni inconfessabili, come quasi sempre e con buona pace di tutti, vengono dall'esterno.

Il resto, malauguratamente, non è silenzio ma manualetto di psicanalisi frettolosamente consultato: il malmostoso mostriciattolo, ora malefico ora grottescamente seduttivo, anela a sbarazzarsi dell'importuna genitrice e ad accoppiarsi col riluttante pater familias (uno scialbo Peter Sarsgaard). Per riuscirci, tra una sonata al pianoforte e l'altra, non esiterà a ricorrere ad arcinoti machiavellismi, architettando con ossessiva meticolosità un sanguinolento omicidio e simulando incidenti ai danni dei piccoli Coleman. Con gelido sadismo, brutalizzerà perfidamente piccini incolpevoli, conducendo sull'orlo dell'esaurimento nervoso la madre adottiva (anche ex alcolista), a cui verranno addossate tutte le colpe dall'inetto marito. Dopo novanta sonnacchiosi minuti, si resta annichiliti da un inopinato colpo di scena che fa rimpiangere la lucidità a suo tempo dimostrata da Tod Browning, sacrificata al becero effettaccio da baraccone. Sorvolando sulla palese assurdità, si constata che non di Lewis Carroll si trattava, bensì della versione horror-trash di una fotografia di Diane Arbus.

Brava e sofferta Vera Farmiga, ormai specializzata nell'accudire piccoli mostri (era la madre anche in "Joshua"), che dimostra un impegno degno di miglior causa, e assai convincente la Esther di Isabelle Fuhrman, leziosa e furente. Regia all'insegna del riciclaggio (di scene, situazioni, inquadrature), andatura lenta nella prima parte e virulenta nello showdown (ammorbato dai consueti finali multipli), ma senza il barlume d'una sequenza che resti nella memoria. Per questo thriller mediocre, involontariamente parodistico e routinario, alcune associazioni americane hanno protestato, sostenendo che getti un'ombra di discredito sul sistema delle adozioni. Francamente eccessivo, al massimo mette in cattiva luce un cinema, quello americano, sempre più asfittico e ripiegato su se stesso.

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Recensione a cura di Nicola Picchi - aggiornata al 19/10/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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