Recensione radio america regia di Robert Altman USA 2006
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Recensione radio america (2006)

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locandina del film RADIO AMERICA

Immagine tratta dal film RADIO AMERICA

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Immagine tratta dal film RADIO AMERICA

Immagine tratta dal film RADIO AMERICA
 

L'ultimo film di Altman è un vero e proprio testamento spirituale e artistico a un mondo ormai lontano, a un'America che vive sostanzialmente il difficile (a dire il vero mai del tutto concretizzato) passaggio tra l'estabilishment culturale e il radicale modernismo "aperto" della società contemporanea.
Non a caso la storia di "Radio America" si svolge nel 1974, anno basilare della carriera di Altman grazie a "Nashwille", poderoso affresco di "parole e musica" dove al linguaggio della musica country aderiva la comunicazione verbale di una massiccia campagna elettorale.
"Radio America" può ingannare lo spettatore e forse non riesce a svelare immediatamente le sue qualità, rivelandosi solo col tempo e dopo una seconda visione un piccolo, grande capolavoro.

La morte di Altman costituisce una perdita enorme per il cinema americano con buona pace di tutti coloro che ritengono la sua produzione recente troppo laccata, accademica o compiaciuta. In realtà anche il precedente "The company" - viatico di un immaginario che si concretizzava nel mondo della danza - aveva indubbi pregi che pochi critici hanno saputo mettere in rilievo.
Altman ha sempre amato svelare non solo i meccanismi del monolitismo professionale/sociale ma anche la sua utopica tensione soggettiva. Anche un film apparentemente frivolo come "Pret-a-porter"- con la sua mise in scene bucolica e grottesca di un mondo artificiale - rivela in realtà tutta la spaesata incognita di una prigionia blandamente dorata.
Altman non è mai stato un regista facile da giudicare: ha ingannato gli spettatori troppe volte, anche a causa della sua stakanovista prolificità, e troppe volte, appunto, i suoi ammiratori si sono sentiti a loro volta traditi e ingannati. L'immagine di Altman è l'ossessione dell'Epilogo, il Preambolo di Morte. In un certo senso costituisce il percorso del suo cinema: la Morte appare ovunque, o in chiave metaforica o concreta, con la licenza lesionista del classico the show must go on immortalato soprattutto dalla mirabile sequenza finale di "Nashwille" (l'esordio di una nuova singer in un contesto inconsapevolmente opportunista): poteva essere un anno cruciale di Altamont e non è sicuramente un'ispirazione casuale.

Altman ha costruito un cinema che è elegia di un potere universale, quello delle certezze e di un incantesimo che si estingue ogni anno sempre più.
La morte, attraversata nell'inequivocabile vitalità di coscienza ("Images"), nel sogno impossibile di Icaro come incosciente fuga post-fetale (il bellissimo, freak, geniale "Anche gli uccelli uccidono"), strumento di follia da cataclisma naturale ("Short cuts-America, oggi"), o sovversione brutale dei meccanismi di sopravvivenza ("Streamers"), vive in "Radio America" oltre i preamboli e al di là della nostalgia, il "corpo" dello spettacolo popolato di fantasmi, i pochi minuti prima della chiusura definitiva, il lutto improvviso e quasi celato da sentimenti come la paura e l'emozione.

Praire Home Companion è la radio che crediamo di conoscere da sempre e il film non è altro che la celebrazione dell'ultimo giorno dell'emittente radiofonica chiusa nel 1974, rappresentato al Fitzgerald Theatre, nel Minnesota.
La rievocazione ripropone la capacità del regista di scomporre e ricomporre gli stilemi dello spettacolo in ogni sua forma: quella radiofonica, quella teatrale, quella televisiva e, ovviamente, nella forma più vasta e conciliatoria, il cinema. Terreno implosivo di questa ricerca altro non è che la morfologica traiettoria di un teatro che passa dalla sua esistenza uditiva alla dimensione "visiva" di un mondo prima di allora puramente invisibile e indivisibile.
Nella concretizzazione d'immagine le sorelle Rhonda e Yolanda (Meryn Streep/ Lily Tomlin), o la figlia di Rhonda che debutta in radio cantando una struggente 'Frankie & Johnny', o ancora l'investigatore privato Guy Noir (?) impersonato da Kevin Klein, i cowboy presunti gay - gustosa decontestualizzazione del premiato "Brokeback Mountain" di Ang Lee - parlano, cantano, recitano come se il (loro?) pubblico li stesse davvero ascoltando (vedendo?). Lo spettatore tradizionale del film si chiede attonito se anche questo mondo volutamente "stucchevole e preconfezionato" sia davvero rivolto a lui.
In realtà bisognerebbe tornare a ricordare l'Europeizzazione del regista apparentemente più americano di sempre: l'epilogo finale sembra uscito giustappunto più da Shakespeare che da Sinclair Lewis (autore del bellissimo "Bethel arriva a Sladesbury", un romanzo e un'autore troppo spesso dimenticati).

L'Ordine prestabilito della vicenda è garantito da un Kevin Klein che è di fatto l'attore che meglio si presta all'epilogo di un intero universo della Rappresentazione nella sua corsa fatale a una presunta modernità. Tiene testa egregiamente una Meryl Streep che anticipa le velleità canore del suo incontro con gli Abba ("Mammamia"), testo musicale del tutto diverso.
Magnifico l'omaggio a Johnny Cash, scomparso pochi mesi prima della realizzazione del film. Forse un po' compiaciuto quello sul ritratto a Francis Scott Fitzgerald, illustre cittadino natìo dimenticato dal tempo.
Su tutti, l'immagine simbolica "dell'Angelo della Morte" che stringe tutta la compagnia in un abbraccio ora letale ora benefico, come suggello esemplare di una dolorosa entità separata ma che vive ancora a lungo nei "luoghi" della propria esistenza o fine (una sensibile e inquietante Virginia Madsen).

Se un mondo si chiude per sempre, umiliato dalla sua deriva modernista, Radio America è ben diversa dalla realtà che beffeggiava e sosteneva la funzione "domestica" del prodotto (qui ironicamente citata nella pubblicità radiofonica di copertoni e bibite). E' un mondo che forse oggi non susciterebbe alcun clamore davanti alle vicende dei marziani narrati con tanta veridicità da Orson Welles in un'emittente radiofonica nel lontano 1938 (Wells -"La guerra dei mondi").

Un film sulla definitiva separazione d'immagine e sull'elaborazione della sua originaria astrazione visiva. Un testamento dove esiste una separazione tangibile tra professione e umanità universale: un'entità prigioniera della sua libertà.
Ciò che appare evidente nel film di Altman è la dimensione "privata" di un mondo visto sotto i riflettori, davanti allo schermo (o console) da cui poter vedere l'annullamento virtuale di un'atipica umanità.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 07/09/2009

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