Recensione repulsion regia di Roman Polanski Gran Bretagna 1965
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Recensione repulsion (1965)

Voto Visitatori:   8,06 / 10 (86 voti)8,06Grafico
Voto Recensore:   9,00 / 10  9,00
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locandina del film REPULSION

Immagine tratta dal film REPULSION

Immagine tratta dal film REPULSION

Immagine tratta dal film REPULSION

Immagine tratta dal film REPULSION

Immagine tratta dal film REPULSION
 

L'occhio assorto della Deneuve - spento, indolente, che non guarda - fa da introduzione all'inquietante secondo lungometraggio di Polanski: l'iride e la pupilla si muovono nella sclera senza attenzione, mentre il tamburo in sottofondo preavvisa il ribollire dell'orrore sotterraneo, della mente, dei nervi.

Quindi due mani che si toccano candidamente, ma l'affettuosità dell'immagine è finta e ironica: l'inquadratura si apre in un centro estetico, dove Carol - l'assoluta protagonista - tiene la mano ad una cliente, una signora sdraiata sul lettino con una maschera di bellezza sul volto, prima tra quelle figure ridicole, tra quei personaggi caricaturali di gente comune, di vecchie chiacchierone e assillanti ficcanaso, che rivedremo in questa e ancora più spesso in successive pellicole del regista polacco.

Paranoia, nevrosi, "Repulsion", il viaggio che ci viene proposto segue un percorso lento, affannoso, in coda ad una ragazza debole e disturbata, un itinerario che non trascura nulla e attento soprattutto ai particolari apparentemente meno rilevanti, i quali, tornando a ripetersi morbosamente nel corso della narrazione, rovesceranno la dimensione reale nell'incubo, e in una trasfigurazione delle cose che trova, assieme a quel senso di persecuzione di cui saranno permeate molte delle opere del regista, la sua fonte nelle metamorfosi e nelle situazioni kafkiane.

Polanski racconta la malattia mentale e dissociativa di Carol con una precisione e una cognizione impressionanti.
La sorprende di frequente nei momenti in cui s'assenta, in cui s'assorge nella fissità di alcuni oggetti in uno stato di semi-catalessi, e in cui scruta il mondo esterno dalla finestra; la segue nelle brevi sequenze all'aperto che ella trascorre quasi come in apnea, ci porta sin dentro le coperte delle notti turbate che passa sola nel suo letto.
Ne illustra la devozione e la totale dipendenza che subisce nei confronti della sorella, il cui rapporto con l'amante avverte come una minaccia.

La tensione della pellicola è retta proprio dallo svilupparsi autogeno di tale malattia, sottolineato dalla degradazione di alcuni elementi e di alcuni alimenti, dalla progressiva trascuratezza del vivere e dall'evolversi del disordine mentale e casalingo.
E' una voragine di turbe ossessive che s'addensa e si restringe man mano che la vicenda procede.

La repulsione di Carol è di origine sessuofobica. L'idea d'un rapporto con un individuo del sesso opposto la terrorizza. Prova una profonda avversione persino nei confronti di alcuni oggetti (uno spazzolino, un rasoio, una canottiera) lasciati dall'amante della sorella nel loro bagno.
Proprio la partenza della sorella per un viaggio col suo uomo, e la conoscenza d'un giovane e discreto corteggiatore, gettano nel panico la ragazza. Aggravano la sua già precaria stabilità mentale.
S'intensificano le angosce, le allucinazioni, l'asocialità e i tic nervosi. Una volta lasciata da sola dalla sorella, trova luogo l'irreparabile.

Un incontro tra Carol e il suo spasimante respinto avviene davanti ad una crepa a lungo fissata. Simili spaccature s'aprono molteplici nelle mura di casa. Fuori o dentro l'abitazione, non c'è sollievo: il male della ragazza si propaga ovunque, progredisce e trova il suo sviluppo nelle ramificazioni delle radici delle patate in cucina o nel putrefarsi del coniglio lasciato sopra ad un tavolino.
La percezione dei piccoli rumori ripetitivi - il ticchettio dell'orologio, il suono delle campane - s'acutizza: gli incubi mantenuti muti e resi sempre più convulsi dai movimenti della cinepresa, vengono ora visitati da un violentatore misterioso, che ogni notte abusa del corpo indifeso di Carol.

Ma ancora non è tutto. Ancora manca il sangue. E il sangue viene introdotto mediante la ferita ad un dito che la giovane estetista provoca per distrazione ad una cliente.
Da quel piccolo incidente, il sangue dilaga, disastrando del tutto la psiche di Carol e macchiando di tinte visibili il suo terrore. La vicenda si rinchiude definitivamente tra le mura di casa.
L'appartamento, luogo che diverrà simbolo delle ossessioni polanskiane, oppresso dalla curiosità del vicinato e dal claustrofobico disagio che provocano le sue stesse pareti, contenitore di oggetti stregati e prigione degli ospiti inquilini, angustiati e privati della loro privacy e svuotati della propria identità, subisce deliranti mutazioni.

Un primo omicidio, a danno del corteggiatore venuto a chiedere spiegazioni a Carol della sua insolita riluttanza. Poi un secondo: tocca al padrone di casa che, venuto a riscuotere la rata d'affitto, prova ad approfittare della ragazza.
Quegli stessi oggetti che furono motivo di repulsione, vengono inconsciamente usati, secondo una sorta di scongiuro che fa capo alla follia, infine per purificare le cause del male.

Se lo spazzolino da denti in precedenza era servito a lavarsi del bacio del corteggiatore, il rasoio diviene l'arma per punire l'atto del secondo uomo, mentre la canottiera viene raccolta e stirata (la spina del ferro è staccata) come se dovesse trovarsi pronta per un terzo ipotetico intervento.
Le prospettive s'allungano, le crepe s'allargano, le mura si squarciano, mani carezzevoli di maschi affollano il corridoio: il soffitto cala e al letto di Carol si avvicina.

Pellicola altamente disturbante, degente e degenerata, dominata da un crescendo d'angoscia in cui tutti gli elementi concorrono; prima della cosiddetta "trilogia dell'appartamento", rimane una delle migliori opere del regista, e tra le più profonde indagini sui disturbi mentali mai intraprese in ambito cinematografico.
Nella Deneuve, Polanski trova l'interprete perfetta (un ruolo, quello della svampita paranoica, che l'attrice francese ricoprirà nuovamente, sempre molto bene, in film quali "Bella di giorno" di Bunuel), con il suo aspetto angelico e la sua recitazione monotona e stralunata.

Dopo la tempesta sanguinosa, torna una quiete piovosa, notturna, terrificante. Nel finale, quando di sera la sorella fa ritorno a casa col suo amante, scopre allora il disastro compiuto: il disordine spaventoso ovunque, il cadavere nella vasca da bagno, Carol rannicchiata come una bambina che ha paura del buio sotto al suo letto.

E i vicini, quei mostri della normalità che si celavano in silenzio dietro le pareti, mormoranti entrano in scena, con le vestaglie e le loro pantofole.
La cinepresa compie un'ultima carrellata sugli oggetti di casa - consci di tutto quel male, unici spettatori della solitudine della ragazza e assorbenti l'intera infermità sordida della sua mente - sino a terminare nella foto di famiglia che già distrattamente ci era stata proposta nel corso della narrazione.
Zooma infine nello sguardo della bambina - l'occhio di Carol, che similmente era servito da introduzione alla pellicola - l'occhio obliquo della piccola che, colto dall'obiettivo, osserva con odio un uomo che è, con ogni probabilità, suo padre.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 01/12/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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