Recensione sleuth - gli insospettabili regia di Kenneth Branagh Gran Bretagna, USA 2007
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Recensione sleuth - gli insospettabili (2007)

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locandina del film SLEUTH - GLI INSOSPETTABILI

Immagine tratta dal film SLEUTH - GLI INSOSPETTABILI

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1972: Micheal Caine, affermato attore inglese di cinema, teatro e televisione, si trova a lavorare al fianco di Sir Laurence Olivier, un nome che non ha bisogno di presentazioni. In seguìto a quell'esperienza, Caine dichiarò che si trattò della più grande occasione professionale della sua vita, e non stentiamo a crederci.
Il film era "Gli insospettabili", ultima regia di Joseph L. Mankiewicz, adattamento di un racconto di Anthony Shaffer, già sceneggiatore del sottovalutato "Frenzy" di Hitchcock; praticamente un cocktail in cui i cliché del thriller, del noir, del giallo classico o anche delle spy-stories si amalgamavano in una raffinata black comedy: un film che colpiva gli spettatori proprio all'insegna della sua ingegnosa abilità narrativa.

Qualcosa di quell'esperienza dev'essere rimasta allo stesso Caine, da cui si può facilmente estrarre dalla sua sterminata filmografia di attore un'altro film ("Deathrap - trappola mortale", 1982, con Christopher Reeve, di Sidney Lumet) che in qualche maniera presenta uno script affine a quell'opera ambigua, amorale e incisiva.
Trascorsi 35 anni da quel film, Kenneth Branagh propone un fedele remake affidandosi alla sceneggiatura di un redivivo ma ancora zelante Harold Pinter.
Probabilmente un Joseph Losey, se fosse ancora vivo, avrebbe catturato con meno rigorosità il climax dello script di Shaffer (Pinter e Losey, come molti sanno, hanno lavorato spesso insieme).

Branagh Ci riporta nel vecchio set, ricollocando Michael Caine nello script di allora, ma per ovvie ragioni anagrafiche nel ruolo subalterno che allora fu di Laurence Olivier. Sorprendentemente, a Jude Law è affidato il difficile compìto di interpretare la parte che fu di Caine trent'anni or sono: questioni anagrafiche più o meno compatibili, visto che Caine nel 1972 aveva già 40 anni...

"E' NATO COME UN GIOCO, POI LE E' SFUGGITO DI MANO..."

"Sleuth" è la storia di un celebre scrittore di romanzi gialli, Andrew, che vuole vendicarsi del giovane e aitante amante della moglie, un parrucchiere attore a tempo perso, arrivando a spaventarlo e ricattarlo fino a mettere alla berlina la sua inferiorità intellettuale; lo fa invitandolo nella sua superaccessoriata dimora (una villa ipertecnologica) e coercitivizzandolo/coinvolgendolo in un gioco perverso degno degli intrighi raccontati nei suoi libri.
Di conseguenza Andrew pretende di ottenere la sua superiorità intellettuale rispetto alla bellezza e alla giovinezza del suo rivale, senza riuscire a subodurare le potenzialità della sua "vittima". Il gioco finisce col rovesciarsi contro di lui.

E' una storia di prevedibile adulterio (la moglie giovane che preferisce al marito maturo un giovane amante) che si appresta a diventare una parabola sul fallimento dell'orgoglio umano, e non solo.
Rispetto al vecchio film sembra quasi che Branagh ami concentrarsi su due generazioni di attori, usando i personaggi del film proprio per consolidare fama di Caine e Law presso gli spettatori.
E lo fa soprattutto nei riguardi di Law, a cui spetta la battuta più ingrata (o emblematica, a seconda dei gusti) del film: "Nessuno mi ama realmente per il mio cervello".
Law è un attore interessante e multiforme (lo ricordiamo, inquietante e mefistofelico in "Gattaca"), ma qui onestamente non appare all'altezza del suo ruolo.
Branagh stesso non gli rende un buon servizio, affidandosi unicamente alla sua bellezza, alla (presunta) vena maledetta che suggerisce il suo volto, al moderno Dorian Gray che ambisce a una dimensione teatrale, e che in questa dimensione enfatica rischia più volte la caricatura.
E tutto questo nonostante i brillanti dialoghi di Harold Pinter, con l'attore che eccede proprio nel tentativo di dimostrare a se stesso, a Andrew/Caine o agli spettatori del film la sua proverbiale "intelligenza".

Se però il film di Branagh ambisce a svelare quanto "ogni uomo sia corruttibile, dipende in che modo" giocando sulle lusinghe, economiche e anche sessuali, di un giovane attore facile preda di compromessi per la Fama, tutto resta molto in superficie: come invettiva contro lo star-system contemporaneo non funziona completamente. "Sleuth" in effetti è un film tanto impeccabile quanto algido.

Azzardando il paragone col classico di Mankiewicz, potrebbe dirsi che Branagh abbia consolidato la propria abilità tecnica (che è fuori discussione) senza però i piaceri di quel gioco amorale e crudele che andava ben oltre la rappresentazione di un dualismo corrivo tra due uomini di due generazioni diverse.

Di grande effetto visivo, invece, tutto l'apparato scenografico del film: la mdp che visualizza le sagome dei due protagonisti filmati dall'altro (dai tetti?) della villa nelle prime immagini, o l'auto guidata dalla moglie di Andrew di ritorno a casa nel programmatico finale, dove si intravvede esclusivamente una sua vaga fisionomia fisica.
Lo stesso climax claustofobico, monolitico della villa, farebbe pensare all'ultimo Kubrick: la sensazione è quella di un esercizio stilistico di alto livello ma monocorde, incapace di recare un ricordo indelebile nella memoria degli spettatori di oggi o di domani.

Gli ammiratori del bellissimo film del 1972, inoltre, avranno modo di biasimare un apparato scenografico eccessivamente rigoroso e tecnologico, tutto art design et similia, che farebbe pensare più alla dimora estiva di un James Bond in pensione che alla mirabolante villa di Andrew vs. Olivier (con tanto di supporto di bambole meccaniche che attraverso un congegno elettronico si animavano ed esibivano nel loro diningroom show: i fan di Mankiewicz lo ricorderanno).

Questa di Branagh invece è una tecnologia essenziale e rigorosa, che nel tentativo di cogliere la prossemica (cioè l'insieme delle relazioni umane nel proprio ambiente) tra i due protagonisti, rivela un distacco formale proprio verso gli spettatori.
Anche una battuta irriverente e purtroppo veritiera sugli italiani per cui "la cultura non è il loro forte" passa in secondo piano.
Invero Caine è assolutamente straordinario, riuscendo paradossalmente proprio a umiliare l'"avversario" Law, i cui capelli tinti e il birignao da Espressiva Maschera ambivalente mostrano l'insostenibile pesantezza di un'univoca Mise in Scene.

Un film, in definitiva, troppo arido e cerebrale per diventare un cult, ed un remake che certamente non sfigura, ma non è all'altezza delle grandi potenzialità espresse nell'originale del 1972, che va recuperato senza indugi e che resta un vero gioiello da cineteca.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 30/10/2007

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