Recensione 8 1/2 regia di Federico Fellini Italia, Francia 1963
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Recensione 8 1/2 (1963)

Voto Visitatori:   8,80 / 10 (178 voti)8,80Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Miglior film stranieroMigliori costumi
VINCITORE DI 2 PREMI OSCAR:
Miglior film straniero, Migliori costumi
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locandina del film 8 1/2

Immagine tratta dal film 8 1/2

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Immagine tratta dal film 8 1/2

Immagine tratta dal film 8 1/2

Immagine tratta dal film 8 1/2
 

La libertà

Si usa dire che l'ottavo film e mezzo di Federico Fellini sia il geniale (auto)ritratto di un artista in crisi, e insieme di un uomo in crisi esistenziale. Se ne ravvisa quindi la grandezza nel ritratto delle angosce, e degli smarrimenti, dell'uomo contemporaneo. E' limitativo.
Le costrizioni imposte alla libertà, dagli altri o da noi stessi, con le nostre irrisolte paure; l'anelito all'evasione (dalle fantasie sessuali alle regressioni infantili); la necessità di una libertà che non sia una semplice fuga, per esprimersi sinceramente e provare ad essere felici. Infine il rapporto delicato tra libertà e amore. Son di questo spessore i temi che affronta "Otto e mezzo".

L'argomento della libertà frustrata è definito in modo più che esplicito sin dal "prologo" del film: quell'incubo di ingorgo stradale, quindi il volo appeso a un filo con gli altri, giù, sulla spiaggia, a sentenziare la nostra caduta. Che avviene, a causa loro.
Questo prologo in forma di sogno è tutt'altro che banale, e lancia già tante suggestioni. Il silenzio mortuale durante l'ingorgo. L'asfissia. L'impassibilità di tutti quanti sono a bordo delle altre auto, la percezione di una distanza angosciosa tra sé e gli altri. Di chi è la colpa di questa distanza: di noi o degli altri? Gli altri, ancora: quanti se ne stanno invidiosi e pronti a giudicare, pronti a farci inciampare, a farci cadere, riportarci a terra. L'insicurezza, la mancanza di coraggio nella propria fantasia: si può già intuire che il nostro individuo parte confuso, privo di felicità decisionale – predisposto, dunque, a cadere.
Si potrebbe riflettere sulle affinità e le differenze – tante – tra questo prologo di "Otto e mezzo" e quello di "Andrei Roublev" di Tarkovskji, che pure propone un volo che termina rovinosamente.

"Otto e mezzo" declina i rapporti tra l'io e la realtà: tra l'io e gli altri, tra l'io-uomo e le donne, tra l'io e la società in genere, tra l'io e la morale comune, tra l'io artista e tutti i gravami che lo circondano e ne delimitano la libertà, in quell'assillante e continua minaccia che la mediocrità muove alla fantasia.
Ed ecco allora che il film vuol essere anzitutto la risposta, dell'artista Fellini, alle costrizioni che minacciano l'individuo. La risposta prende le mosse dalla felice liberazione dagli schemi, a partire da quelli narrativi. L'assillo del protagonista si converte in inaudita felicità creativa, le pressioni di tutto e di tutti sullo spirito dell'artista fanno esplodere uno stupefacente vaso di pandora di invenzioni, che si librano una sull'altra, quasi impazzite in una rivincita dell'arte sulle angustie del vivere. Ma il film è anche un invito, lanciato allo spettatore, a riconquistare con ogni mezzo la libertà nella propria vita,suggerendo che il problema potrebbe non stare nelle limitazioni che ci impongono gli altri, ma nella nostra mancanza di coraggio; nel non affrontare le nostre private contraddizioni e paure, le prime a non renderci liberi.
"Otto e mezzo" è un circo, libero da schemi narrativi tradizionali, come lo saranno tutti i successivi film di Fellini: ma resta il solo tra essi ad essere un circo veramente felice, in quanto compiuto tutto sotto il segno di una libertà creativa che a sua volta libera.
E' questo che, sopra a tutto, lo rende così affascinante e bello a rivedersi.

"Otto e mezzo" rappresenta il vertice del cinema di Fellini, il momento in cui il suo cinema si destruttura, liberandosi dagli schemi narrativi di stampo tradizionale (ancora presenti nel precedente capolavoro, "La dolce vita").
Le parti di cui il film si compone scivolano l'una nell'altra con una fluidità straordinaria, e si amalgamano con una felicità che non sarà più ripetuta nei film successivi con la stessa eleganza, scioltezza e freschezza.
Ecco perché "Otto e mezzo" è il punto di svolta, e, insieme, il momento più alto di Fellini. Non solo per gli argomenti, ma per la forma, e non solo per la novità della forma, ma per la già compiuta maturità della nuova forma. Non è soltanto l'intuizione di una nuova forma, ma anche la sua perfezione. "Otto e mezzo" non stecca mai, né conosce lungaggine alcuna: tanto la partitura è complessa quanto il suo ritmo è perfetto. In questo, ha del miracoloso.

Sì, il cinema sarà pure "irrimediabilmente in ritardo di cinquant'anni su tutte le altre arti" (come dice in una scena del film il saccente scrittore di cui il protagonista Guido ha chiesto la collaborazione). Del resto "Otto e mezzo" sta alla storia del cinema all'incirca come l'"Ulisse" di Joyce o la "Ricerca" di Proust stanno alla letteratura: opere appunto di una cinquantina di anni prima. Ma Fellini ironizza su questo scarto temporale, ci ride sopra.
Il cinema, a cavallo del 1960, stava vivendo in tutto il mondo il suo momento di massima libertà creativa, in cui molti schemi venivano superati o ribaltati. E lo faceva ricalcando in parte la strada percorsa dalla letteratura del primo Novecento verso la letteratura dell'Ottocento (in particolare conquistando il terreno dell'interiorità, oltrepassando i limiti del realismo esteriore). Quello che il cinema stava compiendo andava pure di pari passo alle avanguardie del tempo: basti come esempio la collaborazione fra Resnais e Robbe-Grillet per "L'anno scorso a Marienbad".

Quello che ci preme sottolineare, è che gli anni a cavallo del 1960 erano imbevuti di un ottimismo che in "Otto e mezzo" si percepisce palpabile. Fellini, dopo la decadenza de "La dolce vita", aveva bisogno di ripartire, e il suo nuovo inizio è sotto il segno della speranza. Nei primi anni '60 si manteneva una certa consapevolezza del lento declino della civiltà occidentale (c'è chi sostiene che la storia delle arti, imboccata la via del decadentismo, non ne sia mai ancora uscita), ma si sapeva coniugare a un rinnovato senso di fiducia nel futuro, che non sarebbe durato che poche stagioni.
Come non riconoscere, del resto, nella dualità ossimorica tra decadenza e ottimismo, uno degli elementi di grandezza, oltre che di "Otto e mezzo", anche di "2001: Odissea nello spazio"?

Lo spartito del film

Il film procede come un'opera musicale, i cui blocchi narrativi si susseguono, arricchendosi progressivamente di temi e motivi, alcuni dei quali sottolineati proprio da motivi musicali ricorrenti, in una eccezionale colonna sonora.
Il ritmo del film alterna "allegri con brio", "allegretti", "andanti" e "adagio", in una vasta gamma che riproduce tanti stati d'animo, dallo sconforto all'entusiasmo.

Si inizia, dopo il prologo in chiave onirica, con il carosello alle terme. Ancora file, ancora code: cadenzate e ordinarie, ma pur sempre forme di costrizione. Alla "cavalcata delle valchirie" di Wagner (usata come contrappunto di straordinaria ironia su volti e gesti affaticati ma sospinti dal turbine delle cure), si sostituisce senza soluzione di continuità un estratto meno rutilante dalla sinfonia de "Il barbiere di Siviglia" di Rossini.
Occorre fuggire: è sufficiente un raccordo di campo centrato sul gesto di Guido (l'alter ego del regista Marcello Mastroianni in una delle sue migliori interpretazioni) che si muove gli occhiali da sole, per capire che si è di nuovo nel mondo dei sogni. Ecco nel bianco silenzio l'apparizione di un'angelica ragazza (impersonata dalla splendida Claudia Cardinale). La macchina da presa la accompagna con un movimento finalmente libero, poi è la ragazza che ripresa in primo piano sembra muoversi volando. Tanto riesce a renderla eterea Fellini.
Ma l'apparizione è evanescente; inesorabile riprende il carosello ed ecco allora lo scrittore, il solone, il critico esacerbante e bieco, perennemente disfattista.
Poi, fa la sua prima comparsa Mezzabotta (Mario Pisu), ricco uomo di "mezza età" che si accompagna a una avvenente giovane, Gloria (Barbara Steele), e, come ridicolo alibi per sé stesso, la introduce per le presunte doti intellettuali: sta preparando una tesi in filosofia (sulla "solitudine dell'uomo moderno nel teatro contemporaneo"! Suprema ironia con cui Fellini si beffa delle categorie con le quali l'accademia inscatola l'arte).

Alla stazione. Arriva – a suon di "sgulp!", e "stai buonino!" – la donna-sesso, l'amante Carla (Sandra Milo), vestita in modo sguaiato, pacchiano. Mentre lei parla del marito, lui, il giornale tra le mani, canticchia la sinfonia del "Barbiere di Siviglia": a mo' di evasione, si fa quel che si può. E quindi, distratto, risponde, a lei che domanda "Ma mi vuoi anche bene?!", "...ma sì, ma sì...".

Dalla vanità lieve, al peso struggente della nostalgia e dei rimorsi. La madre: prima nella stanza, quindi in un cimitero, di fronte a un muro. E il padre. "Papà... quante domande ancora avevo da farti...". Ora i movimenti di macchina sono sfuggenti, stranianti: perdono il soggetto, sono decentrati. Sottolineano in modo insuperabile uno smarrimento. "Ma non posso ancora risponderti" – dice il padre – "Vedi quanto è basso qui il soffitto" (Rabbrividiamo: si riferisce alla sua sepoltura, ma anche a un'angustia dei rapporti col figlio) "l'avrei voluto più alto... è brutto figliolo, è brutto".

Quando parla il padre, in primo piano, la macchina da presa oscilla ansiosamente avanti e indietro. I raccordi di campo non disegnano uno spazio con i personaggi fissi in posti definiti, ma una volta li rintracciamo in un punto, e subito dopo altrove.
Il padre torna man mano nella terra; Guido bacia in bocca la madre! Edipo ha il tempo di affacciarsi per un minuto, poi, in una clamorosa sostituzione alla madre nel ruolo della donna responsabilizzante per l'io più intimo, appare la moglie, che si autopresenta (si impone, come appare di carattere per tutto il resto del film, con le sue frustrazioni): "Sono Luisa, tua moglie, non mi riconosci?".

L'assimilazione della donna-madre alla donna-moglie nella figura "responsabilizzante" di un'unica donna alla quale rendere conto, più di ogni altra persona, della propria esistenza, e del senso del nostro stare al mondo, rappresenta una delle intuizioni-chiave del film: lo capiremo nel finale.

In ascensore. Guido è  circondato da facce cupe. La morale comune da cui si sente tacitamente rimproverato. Un prelato, significativamente, con lo sguardo chino, lo ignora.
Poi nella hall dell'albergo, tutti lo cercano: lui cerca di fuggire, ma è intercettato da tutti (sono attori e tecnici addetti al film che sta preparando).

Serata danzante. Ancora circondato come in gabbia da ogni risma di gente che lo interroga e lo richiama. Un americano gli chiede dei rapporti tra cattolicesimo e marxismo (è il primo richiamo esplicito al cattolicesimo: l'opprimente retaggio di un'educazione cattolica diverrà un motivo dominante). Vediamo Carla, l'amante, ghettizzata a un tavolo tutta sola. Ma nei giochi di sguardi che si instaurano tra lui e lei intuiamo che Guido è attratto a lei pur di fuggire alla boria e al tedio costituito da insopportabili discorsi intellettuali (o pseudo tali) che ascoltiamo per frammenti nauseanti nella loro complessiva insignificanza.
Riecco Mezzabotta che lascia per un po' Gloria e chiede a Guido di fare due passi. "Ho trent'anni più di lei, e con ciò?": vuole penosamente rettificare l'immagine che dà di sé. "Sono un fesso?", vuol farsi dire di no, ma è quel che sente di essere.
Gloria, la cui sensibilità è recettiva ed esasperata, quasi catalizzando la nausea di Guido esplode in un "Please! Leave me alone!".

Compare dal nulla un mago, che ha il ruolo del buffone di corte che ha le chiavi della verità. Infatti il suo numero è leggere nel pensiero. E il pensiero di Guido, fatto trascrivere da una signora su una lavagna, mentre Guido sorride ammirato, è "Asa Nisi Masa" – esorcismo infantile: cos'è l'A-Ni-Ma? Enigma affascinante la vita costituisce per l'infanzia!
Di qui prende il via l'elegiaco, nostalgico flashback sull'infanzia. Ninne nanne, bagni in tinozze giganti, il familiare, rassicurante dialetto romagnolo...

Telefona Luisa, la moglie, da Roma: lui la invita a venire. Lei chiede, dubbiosa: "ma, a te, fa piacere?". Verrà.
Sono ormai le due di notte, eppure la sala di produzione del film è in fermento, e l'assistente Conocchia – in angoscia perché continua a non ricevere alcuna indicazione sul film – è opprimente.

In camera. Finalmente. Ricompare Claudia, la ragazza angelica della fonte. "Ammettiamo che sei la purezza... che vuoi?", le dice. Lei ride. Gli bacia una mano. Lo carezza. Lo bacia in fronte.

Carla lo fa chiamare dall'albergo in cui si trova vicino alla ferrovia. Ha la febbre altissima. "Perché tu stai con me?" gli chiede. Lui, anziché risponderle, si domanda: "cosa posso dire domani al Cardinale?".

Fellini colloca adesso il secondo flashback sull'infanzia, significativo perché tutto iscritto nella dicotomia fra libertà dell'istinto ed educazione cattolica repressiva. E' l'episodio della Saraghina (prostituta pagata con le saraghe), donnone emarginato che per i ragazzi incarna il fascino del mistero, contemplato in forme mostruose e grottesche. E' una sequenza assai lirica, in cui lei balla, un ballo esotico, compiaciuta dell'attenzione non turpe che le riserva una combriccola di adolescenti e si libera, evade per pochi minuti dalla prigione mostruosa del proprio ruolo e del proprio corpo, proprio attraverso la danza e cioè una festa per il corpo (un altro inno alla magia misteriosa della vita). Immediatamente sopraggiungono dei preti che inseguono il ragazzino Guido: dapprima Fellini adopera un tocco ironico,slapstick, con la corsa accelerata del ragazzino che scappa, poi sfuma la musica e il tono diviene greve. Un campanello e una nenia ossessiva composta di sussurri: "vergognati! È peccato mortale!" su cui si innesta anche la madre ("che vergogna! Che dolore!"). Scena grottesca e patetica, molto potente nella sua iperbolica ironia. In un confessionale che sembra arredato da De Chirico, un prete rivela: "ma non lo sai che la Saraghina è il diavolo?". E l'allusione a secoli di caccia alle streghe risuona appena, pesantissima.

Per la scena col Cardinale c'è ancora tempo. Prima, abbiamo un altro siparietto con il bieco scrittore, che critica Guido "...perché è solo un ricordo di infanzia! Se lei vuol fare qualcosa di polemico sulla coscienza cattolica in Italia, occorre coscienza critica! Lei parte da ambizioni di denuncia, e arriva al favoreggiamento di un complice! Ma lei vede che confusione, che ambiguità!". Con irresistibile ironia, Fellini sottolinea che quanto più gli preme sono proprio i ricordi e le emozioni.

Siamo all'incontro con l'alto prelato. Alle docce dei fanghi. Una voce femminile risuona come in un aeroporto: "attention, please" e il Cardinale viene annunciato da Gloria: "Guido, sua eminenza ti aspetta".
Fellini allestisce un irresistibile carosello circolare, un piano sequenza in cui tutti, ma proprio tutti si raccomandano a Guido perché li raccomandi al Cardinale.
Di fronte all'impassibile prelato, Guido si confessa: "Eminenza, io non sono felice...". Quel che ottiene per tutta risposta: "Extra ecclesiam, nulla salus...".
Altra invenzione straordinaria: il Cardinale è visto attraverso un pertugio, che si apre come su una dimensione altra, aliena – e poi si richiude, come a escludere Guido... Dal Paradiso? Dalla felicità, secondo un giudizio inappellabile?

Arriva quindi la moglie Luisa (Anouk Aimée) da Roma, in compagnia di Rossella (Rossella Falk). Tutti sul set a vedere l'astronave preparata per il film: e tutti spettegolano e sparlano di lui e degli 80 milioni buttati in quell'astronave, fantasmagoria inquietante. E lui, sottovoce e consapevole della sproporzione fra intenti e risultati: "Mi sembrava di avere qualcosa di così semplice da dire... un film che potesse essere utile un po' a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro..."

Litiga con la moglie. Di notte, a letto. Poi, in pieno giorno, Luisa è inviperita nel vedere Carla: lui aveva giurato che con l'amante era finita da tre anni; ma non sembra preoccupato. E poi, sogna, nuovamente: senza cambio di scena, vediamo Luisa e Carla conversare amabilmente come due vecchie amiche. Come se gli altri potessero risolvere da loro i problemi di lui, distogliendolo dai conflitti creati, come una madre fa verso un bambino, con le sue amorevoli cure. In fondo Guido non è mai cresciuto. Ed è analoga a quella di un bambino la logica dell'harem: tante donne al tuo servizio. E allora, la fantasia successiva non può che essere proprio quella dell'harem. Lui arriva come babbo natale, colmo di regali per tutte. Ci sono tutte le donne del film, comprese la Saraghina, Gloria e Rossella. Stupende ancora una volta le soluzioni di regia, libere per inventiva, in cui le figure e la macchina da presa danzano tra loro, in armonia su di una musica esotica (è lo stesso motivo di Rota che percorre il film, e che assume di volta in volta accenti diversi). Lui è disteso nella stessa tinozza dell'infanzia, e si picchietta sulle spalle, beato.
L'harem è l'ennesima, anzi la massima fuga, in cui tutto va benissimo e non ci sono conflitti.
Non ci sono conflitti? Jacqueline ha superato i "limiti di età" e dev'essere pensionata andando al piano di sopra. Non vuole. Il suo caso scatena, improvvisa, la rivolta. La musica torna a essere la "cavalcata delle Valchirie", l'imponente Saraghina (la prima tra le vittime del sessimo) è in prima linea. Poi la rivolta sembra domata da lui con la frusta, in uno sberleffo di Fellini a certo femminismo (il punto più ambiguo e meno risolto della poetica felliniana e del suo sguardo fondamentalmente maschilista). La sequenza ha termine con in scena rimasta solo Luisa, nelle vesti di brava massaia, che dice: "Sono stata un po' zuccona, ci ho messo venti anni a capire...".
La sequenza sembra una premonizione e già una sintesi di tutto "La città delle donne".

Ora siamo in una sala di proiezione, a visionare i provini del film. Sono frammenti incoerenti, con Guido che per la vergogna si copre la faccia. Le persone reali della vita di Guido restano scandalizzate di fronte allo sfacciato autobiografismo dell'artista. La sola che si rende conto che è un'ennesima finzione, quindi un occultamento del reale, è la moglie, colei che lo conosce meglio: "lo so meglio di tutti che è un film, una finzione, un'altra bugia! Ma che vuoi insegnare agli altri tu! Che non hai saputo dire niente di vero a chi ti sta accanto! A chi è invecchiata, con te!".

Giunge a soccorrerlo l'angelica Claudia, che lo fa fuggire via con sé. I due fuggono in auto, lei alla guida. E' qui che lui elabora, di fronte all'immagine idealizzata della purezza assoluta, la sua crisi e la sua confusione: "Tu saresti capace di essere fedele a una cosa e a farla diventare infinita proprio perché tu con la tua fedeltà la fai diventare infinita?" Lui ammette di non esserne in grado, per troppa smania di "raccogliere tutto, arraffare tutto". Il suo film, dice, avrà inizio con la ragazza della fonte (Claudia, appunto): "una di quelle ragazze che danno l'acqua per guarire. Vestita di bianco, bambina, è già donna. Non c'è dubbio che è lei la sua salvezza. Si avverte il retaggio cattolico, questa volta non opprimente ma filosofico, della ricerca di un assoluto – reso infinito con la fede – che doni la salvezza. E il punto di giuntura addirittura con la donna angelicata dello Stilnovismo è più di una semplice suggestione, ma una eredità culturale che Fellini esplicita.
Ancora più importante e rivelatore è il dialogo seguente, che si svolge fra i due intorno a un tavolo in un cortile deserto e buio. L'atmosfera è intima, ma la solitudine, la vastità del cortile e il vento che soffia sono il segno di una forte inquietudine. Claudia sorride, come colei che ha capito tutto; Guido invece è all'apice del disincanto. Lei gli dice, a proposito della crisi del suo personaggio: "in fondo è un po' colpa sua. Che cosa pretende dagli altri? Un tipo così non fa mica tanta pena. Io non capisco: incontra una ragazza che lo può far rinascere... e lui la rifiuta?" Lui: "Perché non ci crede più". E via di seguito con altre giustificazioni. Alibi. Lei ogni volta lo corregge, lo smaschera, ripetendo sicura: "perché non sa voler bene!".

Proprio mentre lui è  al massimo della negatività ("Non c'è più nulla di nulla, non c'è più il film") fanno improvvisamente irruzione gli uomini della troupe, i quali, con un improvviso decisionismo, si dichiarano risoluti a riprendere e terminare la lavorazione del film.
E' pomeriggio. Tutti sono sul set, sotto i tralicci giganteschi. Il caos della situazione è orchestrato magistralmente: ci sono i giornalisti che assediano Guido, il produttore che lo difende dai giornalisti (ma è furioso con lui), e lui che pensa ai suoi fantasmi, e la cui ultima preoccupazione è il film.
Guido, meschino, finisce per nascondersi sotto i tavoli, in una totale regressione all'infanzia.
Tutti scompaiono. Il film non si fa più.
I fantasmi hanno avuto la meglio.

Il finale. Un'autoassoluzione?

E' rimasto solo lui: a fargli compagnia adesso c'è solo lo scrittore, occhialuto uccellaccio del malaugurio, che con sarcasmo livido si complimenta (continua a pontificare, parlando a se stesso e gonfiandosi di citazioni colte): "se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione". "Noi siamo qui per spazzare via gli aborti che ogni giorno oscenamente tentano di venire al mondo". "A lei cosa importa cucire insieme i brandelli, i volti di persone che non ha saputo amare mai?".

E' proprio per non dare soddisfazione all'acredine del critico (quindi è proprio grazie a quest'ultimo, paradossalmente), che stavolta le immagini nascono, spontanee, nell'artista. Questa volta non c'è nessuna violenza a spingerlo: nessuna irruzione, come quella di prima, che non è servita a convincerlo a fare il film. Ora è l'ispirazione che torna, fluida come le immagini delle donne, tutte vestite di bianco, che iniziano ad apparire mentre ancora lo scrittore-corvo sta parlando. Sul set, intanto, il mago di qualche sequenza prima si occupa di far riaccendere le luci.
Il film, a questo punto, si farà.

"Luisa, mi sento come liberato. Tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero! Ah come vorrei sapermi spiegare... Ma non so dire... Ecco, tutto ritorna come prima: tutto è di nuovo confuso... Ma questa confusione sono io. Io come sono, non come vorrei essere: e non mi fa più paura... dire la verità. Quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. Non so dirti altro, Luisa: né a te, né agli altri. Accettami così come sono, se puoi. E' l'unico modo per tentare di trovarci".

Alla fine dunque il cuore della crisi, come la sua soluzione, risiede in ambito coniugale, in quella relazione in cui l'antitesi libertà - costrizione maggiormente necessita di una sintesi indispensabile affinché abbia spazio una autentica libertà, che non sia fuga, che non sia evasione: che non sia, cioè, un surrogato di libertà.

Il monologo conclusivo è appena un po' retorico; la chiusa del film contiene una punta di autoassoluzione. Le parole che vengono fatte pronunciare a Luisa lasciano alla donna il potere di grazia: "Non so se quello che hai detto è giusto, ma posso provare, se mi aiuti".
Un'altra parte di verità è Carla a dirla, mentre si avvia il carosello finale: "Io ho capito, sai, cosa vuoi dire: vuoi dire che non puoi fare a meno di noi". Sì: lui ha bisogno di affetto. Di essere amato e non per questo già ama (del resto glielo ha ben detto Claudia, che "non sa voler bene": ed è questo, e nient'altro, il motivo più intimo della sua infelicità).
Ciononostante il finale è festoso, è speranzoso, di buon auspicio.
In tutta l'orchestrazione del finale, soprattutto nei dialoghi, traspare, diversamente dal resto del film, la fatica che deve aver accompagnato Fellini in fase di sceneggiatura per armonizzare le parti del finale e far risultare coerente la svolta vitalistica, il film che l'artista, liberato, farà (anzi ha già fatto!): la vita che riprende sotto una nuova luce, perché ha capito che le costrizioni da cui ci si deve liberare sono anzitutto le proprie afflizioni, e l'arroganza di pretendere di esser liberi da soli: quando la libertà – Fellini ci suggerisce – non può prescindere dagli affetti e dall'amore. Anzi forse nasce lì: nel riconoscere chi ci ama e ci ha amato veramente.

Tutto questo Fellini lo riesce a comunicare, e in modo molto convincente: ciò che sembra sottacere, tuttavia – e in questo auto-assolve per primo se stesso – è il dubbio di non saper amare veramente: dubbio che rimane, a lui come a Guido. Ma forse non interessa così tanto, finché ci sono le donne, che li amano e li perdonano: e, forse, li salvano da loro stessi.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 20/09/2010 11.27.00

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