Recensione alice in wonderland regia di Tim Burton USA 2010
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Recensione alice in wonderland (2010)

Voto Visitatori:   5,73 / 10 (419 voti)5,73Grafico
Voto Recensore:   4,00 / 10  4,00
Miglior scenografia (Robert Stromberg, Karen O'Hara)Migliori costumi (Colleen Atwood)
VINCITORE DI 2 PREMI OSCAR:
Miglior scenografia (Robert Stromberg, Karen O'Hara), Migliori costumi (Colleen Atwood)
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locandina del film ALICE IN WONDERLAND

Immagine tratta dal film ALICE IN WONDERLAND

Immagine tratta dal film ALICE IN WONDERLAND

Immagine tratta dal film ALICE IN WONDERLAND

Immagine tratta dal film ALICE IN WONDERLAND

Immagine tratta dal film ALICE IN WONDERLAND
 

A differenza di altri protagonisti burtoniani, big fishes che sguazzano nel mare grande della loro fantasia e non si lasciano prendere, l'Alice di Tim Burton è un pesce fuor d'acqua nel paese delle meraviglie.

Alice (interpretata da una Mia Wasikowska che recita strabuzzando gli occhi) è una ragazza di diciannove anni che capitombola in un mondo fantastico, sotterraneo, dove le viene affidata la missione di liberare quel mondo dalla tirannia di una malefica regina, sconfiggendo un drago: a questa missione l'ha destinata un inequivocabile oracolo scritto su di una pergamena. Alice in quel mondo ricorda confusamente di esserci già stata, in un sogno fatto quand'era bambina: però qualcuno dubita che sia la "stessa Alice", e lei per buona parte del film negherà di esserlo. Perché non vuole combattere il drago Ciciarampa. Ha paura. Anche se alla fine ce la farà.
Cosa fa Alice, ragazza indecisa, una volta tornata nel mondo reale? Trova il coraggio di dire "no" a un aspirante fidanzato, che non desidera: lo dirà di fronte a centinaia di persone, riunite proprio nell'occasione di tale fidanzamento.

L'Alice di Tim Burton è tutta qui: una ragazza che riesce a compiere una scelta di autenticità, evitando di abdicare alle leggi della società – che, come sempre in Tim Burton, è una società triste, che ha perso la capacità di sognare, ed è affogata nelle convenzioni.

Come ha recuperato fiducia in se stessa, Alice? Sconfiggendo appunto il drago Ciciarampa, dopo molti tentennamenti, nel mondo fantastico in cui era precipitata, vestita d'armatura come una specie di Giovanna d'Arco.

Più che non convincere, il rapporto tra la prima scelta compiuta (uccidere il drago) e la seconda scelta che ne consegue (non fidanzarsi), non c'è. Non si vede alcuna relazione, infatti, tra la scelta di uccidere quel drago, e il prestar fede alla propria indole.
L'avventura di Alice vorrebbe avere il senso di un recupero della propria indole più autentica, di sognatrice un po' eccentrica, fedele alla propria infanzia. Il film cerca di rappresentare il concetto per cui mantenere fede al "bambino che è in noi" è il modo migliore per non essere morti da vivi (splendidamente reso da Tim Burton in altri film). Ma si ha il sospetto che il modo in cui lo ripete "Alice in wonderland" sia incongruo: davvero poco convincente sostenere questo concetto facendo piombare una diciannovenne in un mondo fantastico, dove si trova completamente spaesata.

Senza alcuna suspence e senza empatia, si aspetta per una buona ora e mezza di film che avvenga il confronto con il drago. Senza assistere a una evoluzione del personaggio. L'unica svolta è rappresentata dal superamento della riluttanza (rappresentato in modo assai convenzionale) che precede il momento in cui Alice prende la sua decisione, e si appresta a combattere. Nella convinzione di non poter morire: "tanto è tutto un sogno" (e alla fine, compare un prevedibilissimo "fiore di Coleridge": Alice tornata nel mondo reale ha sul braccio le unghiate lasciatele dal mostruoso Grafobrancio).
Ricorre nel film la frase: "non mi può succedere niente: sto solamente sognando". Una sottolineatura che, oltre ad essere perfetta per azzerare la suspence, è deprimente sotto il profilo drammaturgico.

A partire dalla scelta di fare di Alice una diciannovenne, e del remake una specie di sequel, "Alice in wonderland" è un pasticcio: anche a giudicarlo, non già per quello che non è (ossia un film appartenente all'autorialità di Tim Burton), ma per quello che a conti fatti realmente è: ossia una produzione Disney riconducibile a una tipologia di fantasy oggi di moda a Hollywood (quella che caratterizza anche i vari "Harry Potter", le "Cronache di Narnia" et similia).
Naturalmente si intuiscono alcuni – vaghi – interventi di Tim Burton, in linea con la sua poetica; e naturalmente Tim Burton, in quanto regista, resta il responsabile principale del fallimento dell'operazione. È evidente comunque come il margine di manovra, che Burton ha potuto mantenere come autore, sia stato molto limitato (e non lo dico a sua discolpa), in una produzione che sembra avere come target il pubblico adolescenziale delle saghe fantasy, di un'età compresa all'incirca tra i 10 e i 15 anni.

Ma il problema è che "Alice in the wonderland" resta un pasticcio anche come opera destinata a questa fascia di età. La riuscita di un'opera non si può valutare solo sulla base del successo (cioè se piace agli spettatori cui è destinata): ciò avrebbe senso unicamente per i produttori, che guardano al risultato commerciale. Ma se si riconosce che, qualsiasi possa essere il target d'età, sono altri i parametri in base ai quali giudicare se un'opera funziona, in termini artistici, allora, "Alice in the wonderland" non funziona. Neanche come opera per ragazzi. Vediamo perché.

Nel vedere il film, a un trentenne di oggi tornano alla mente le vicende narrate da alcuni film per l'infanzia degli anni '80 come "La storia infinita" o il più originale "Labyrinth – dove tutto è possibile", di Jim Henson, con Jennifer Connelly e David Bowie. Ma mentre in quei film c'era una forte motivazione che muoveva l'azione (come il recupero del fratellino rapito dal re di Gobelin in "Labyrinth"), qui questa forte motivazione manca.
Come fantasy stilisticamente aggiornato al 2010 (computer graphic, 3D), "Alice in wonderland" non è né epico (alla maniere de "Il Signore degli anelli", da cui è lontanissimo) né gotico, ma è ridondante e privo di pathos. A tratti, sconsolatamente, viene in mente addirittura la vecchia serie televisiva "Fantaghirò".

Tim Burton si è trovato a fare i conti con una sceneggiatura mediocre (di Linda Woolverton, che per la Disney era stata co-sceneggiatrice de "Il Re Leone"); non sappiamo se e quanto l'abbia "raddrizzata", ma di certo l'intervento, se ha avuto luogo, non è stato sufficiente.
Tra le versioni cinematografiche di Alice, Burton avrebbe detto di non averne mai vista nessuna che avesse un forte impatto: "Alice non fa che vagare da un incontro all'altro, risultando quasi solo come un osservatore". E avrebbe aggiunto: "Il mio obiettivo è quello di fare un film interessante e coinvolgente". Ma non vi è riuscito: la sua Alice resta più che mai un'osservatrice estranea agli eventi.

Il problema sta proprio alle fondamenta della sceneggiatura, ed era difficilmente rimediabile: l'idea di rappresentare una Alice diciannovenne.
Prendiamo, ad esempio, le "crisi d'identità" di Alice e i suoi cambi di statura, elementi che sono entrambi fondamentali nell'opera di Lewis Carroll. Nel libro "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie", Alice cambia costantemente di statura: come nel film, passa dall'essere minuscola all'essere gigante. Inoltre, è una bambina che si accorge di non essere adesso la stessa di un'ora fa: modo stupendo di rappresentare l'acquisizione della consapevolezza, da parte di una bambina, della propria trasformazione interiore, della crescita, e del costante divenire dell'esistenza.
Il cambiamento continuo di dimensioni ha un senso, in una bambina che cresce di statura, un senso che svanisce completamente in una diciannovenne. Lo stesso avviene per la delicata "crisi d'identità" della Alice del romanzo, bambina che riconosceva i propri repentini cambiamenti da un'ora all'altra: nel film scade a ottusa insistenza sul "non essere la stessa Alice che credete voi" (detto peraltro senza convinzione, ma solo per paura di affrontare la prova che l'attende).
La sostanza dell'universo di "Alice nel paese delle meraviglie" risiede nel continuo confronto fra l'illogicità infantile (fertile di fantasia) e la logica (spesso solo apparente, e invece paradossale) degli adulti. I romanzi di Carroll (e in parte il cartone Disney del 1951) trovano linfa e vigore nell'attrito fra la logica stringente di fantasie apparentemente irrazionali, tipica dell'immaginazione dei bambini, e le molte assurdità della piatta logica in cui rimane incastrato, agli occhi dei bambini, l'opaco e spesso incomprensibile mondo degli adulti.
Il "paese delle meraviglie" ideato da Carroll scaturisce dal confronto continuo tra cose della fantasia e prestiti del mondo reale, in un processo di maturazione verso l'età adulta, in cui fantasia e realtà si divertono a conoscersi e familiarizzare interagendo e sconfessandosi di continuo, reciprocamente. Ogni riuscita trasposizione dell'opera dovrebbe restituirne questo spirito, pena il suo svuotamento.

Fare di Alice una diciannovenne, che deve essere parso elemento di originalità, è dunque la prima di una serie di incongruenze che seguono a catena (così come cadono uno appresso all'altro i guerrieri- carte da gioco nella battaglia finale). Il paese delle meraviglie, da lei abbandonato mentre diventava una giovane donna, si è nel frattempo trasformato in un mondo tetro e in rovina, ed è passato da "Wonderland" a semplice "Underland". Malgrado il titolo sia "Alice in wonderland", il mondo fantastico è infatti definito "Underland" (Sottomondo). Da quando Alice c'è stata da bambina, quel mondo è stato devastato dalla tirannia della Regina rossa, che ha ridotto in cocci e macerie un mondo incantato che sullo schermo appare in rovina. La decadenza di Wonderland dovrebbe essere la cartina al tornasole dei vizi intrinseci nella maturazione adulta (adulterazione?) della bambina Alice (il rischio di perdere la magia dell'infanzia).
Questo mondo in rovina sembrerebbe contenere una promessa di tinte dark, gotiche (à la Tim Burton). Invece da esso discende purtroppo solo una costante penalizzazione della magia dell'immaginario, del gusto del meraviglioso. Rimangono solamente colori sgargianti e patinati, e i personaggi bizzarri e grotteschi (tale ci sembra il Cappellaio Matto di Johnny Depp: nulla da dire sulla sua caratterizzazione, ma purtroppo nel suo personaggio, troppo saggio e di buon senso, non c'è gioia anarchica ma un delirio soltanto bizzarro, che si completa nella posticcia "deliranza" finale).
Rimangono fuori dalla decadenza, che ha colpito il resto del mondo sotterraneo, anche i due castelli molto (troppo) disneyani delle due Regine. Sembrano davvero sfacciatamente uguali ai castelli delle varie Disneyland (oltre che del logo della Disney…), e oltretutto sono troppo simili tra loro negli elementi architettonici.

La Regina rossa e la Regina bianca, presenti entrambe nel romanzo "Attraverso lo specchio" di Lewis Carroll, lì erano le due regine della partita a scacchi di cui il romanzo era la rappresentazione figurata, qui sono banalizzate alla polarizzazione di male e bene, malvagità e purezza. Qualcuno ha sostenuto – in modo intrigante – che la Regina rossa sarebbe "mestruale", e la Regina bianca "virginale".
Per fortuna, Tim Burton almeno ha maliziosamente reso scialba la Regina bianca (interpretata da Anne Hathaway), e ben più interessante la Regina rossa (interpretata da una convincente Helena Bonham Carter). Quest'ultima in fondo non è nemmeno tanto malvagia, quanto incompresa e sola (come è sempre il potere fine a se stesso). Adulata da tutti i suoi asserviti sudditi, nessuno la ama. Ecco: lei è "burtoniana". Ci ricorda l'impresario del circo interpretato da Danny De Vito in "Big Fish" (lupo mannaro che viene irresistibilmente "addomesticato" da Edward Bloom, e si rivela docile). Nella sua triste solitudine, ricorda anche Willy Wonka, anche se non ne ha minimamente il fascino ambiguo e ammaliante. Alla lontana, insomma, la Regina rossa rimanda alla figura burtoniana tipica, presente in quasi ogni suo film, e rappresentata al meglio dai tre Edward: Edward mani di forbice, Ed Wood e l'Edward Bloom di "Big Fish" (il personaggio che vive in un mondo di sogni tutto suo, che non riesce a trasmettere, comunicare, condividere i suoi sogni con coloro da cui vorrebbe essere amato, e che vorrebbe rendere felici: personaggio rappresentato al meglio da Jack Skeletron, il malinconico protagonista di "Nightmare before Christmas").
In ogni caso, nella Regina rossa, di questo personaggio-tipo resta davvero solo un lontano retrogusto (anche perché lei non vuole far felice nessuno, e non ha sogni da condividere: è solo malinconica e incattivita dalla solitudine del potere). Semmai, di quel personaggio- tipo si ritrova uno sciapito sapore diffuso in tutto Sottomondo (anche nel Cappellaio Matto, naturalmente): un intero mondo che non riesce più a farsi comprendere, e la cui magica bellezza si è di conseguenza mutata in deprimente malinconia.

A differenza dei capolavori di Tim Burton, in questo caso manca la catarsi, manca un processo attraverso il quale la malinconia torna a sorridere, riuscendo finalmente a ritrovare armonia con il mondo. La Regina rossa (relegata al ruolo di malvagia) naturalmente non ce la può fare; mentre il riscatto di Sottomondo, grazie alla programmatica sconfitta del drago Ciciarampa, è descritto in modo troppo scontato e prevedibile.
Il motivo per cui questo riscatto (che altrove avveniva grazie all'incontro tra un protagonista "freak", inizialmente incompreso, e il mondo che lo emarginava) qui non "funziona", è sempre lo stesso: Alice è troppo avulsa da Sottomondo per essere credibile come protagonista di questo processo. Sì, il riscatto del mondo fantastico dovrebbe rappresentare la "rinascita" della sua immaginazione. Peccato che la sua indole sognatrice non l'abbiamo mai vista all'opera. Ci è sempre apparsa un pesce fuor d'acqua, a Sottomondo, anziché essere il suo demiurgo.

A proposito di "Planet of the apes", la sua opera sinora meno riuscita, Tim Burton aveva dichiarato: "forse si è trattato del primo progetto in cui mi sono lasciato coinvolgere che è stato, non voglio dire un errore, ma quantomeno un progetto pieno di pericoli, anche perché era basato su un film che mi era piaciuto molto da bambino. E poi è un classico. E sai qual è la prima regola generale? Non fare mai il remake di un classico". Quindi Tim Burton ammetteva: "se avessi avuto la possibilità di lavorarci da zero, credo che sarebbe stato un film completamente diverso, con personaggi completamente diversi".
Vale anche per "Alice in wonderland", quanto detto per "Planet of the apes", che soffriva della "tradizione immaginifica ingombrante" del film famoso di cui era un remake (proprio come di un film famoso è inevitabilmente un remake, questo "Alice in wonderland").

Con "Alice in wonderland", Burton sembra infatti aver ripetuto gli stessi errori: compromessi con la produzione, progetto che non ha mai avuto la possibilità di controllare. Quanto ne doveva essere consapevole però questa volta? Quanto più lo fosse, tanto più si è dimostrato debole, e tanto più grave allora è la sua responsabilità come artista.
La progressione degli eventi, nella parte centrale del film, è meccanica e priva di svolte o colpi di scena che non siano segnalati con largo anticipo. La stessa meccanicità la si riscontra rivedendo il film che Wolfgang Petersen trasse dal romanzo "La storia infinita" di Michael Ende. Un plot, quello de "La storia infinita", che "Alice in wonderland" riecheggia: in entrambi esiste un mondo parallelo fantastico dove il protagonista si viene a ritrovare, e in cui la fantasia è minacciata dall'incombere del vuoto. Le differenze però sono due, grandi. Anzitutto, il protagonista di "La storia infinita" era un bambino: il suo farsi carico della missione di sconfiggere il Nulla era giustificato dal fatto che la scomparsa di Fantàsia rappresentava la minaccia dell'estinzione della fantasia dal mondo reale. Inoltre, quel film era diretto esplicitamente a un pubblico infantile: perciò non solo aveva un protagonista giustamente bambino, ma il target di riferimento giustificava in parte la progressione troppo meccanica degli eventi (la più lineare e chiara possibile, per soddisfare le aspettative dei bambini). Le creature messe in scena da Petersen, che pure banalizzavano tanto quelle del romanzo (a Michael Ende il film assolutamente non piacque), erano comunque allegre e divertenti: soddisfacevano il "meraviglioso" di cui ha sete la fantasia di un bambino.
Verrebbe da chiedersi invece con quale personaggio di questo "Alice in wonderland" possa provare empatia un bambino. Con nessuno, forse, a parte lo Stregatto: che è l'unico personaggio divertente e non sinistro.

La stessa domanda insorge con riferimento a "Nel paese delle creature selvagge", l'ultimo film di Spike Jonze, dove un protagonista bambino visita un paese di creature fantastiche tutte terribilmente malinconiche. Un film assai eccentrico, che non può divertire un bambino, e che sembra destinato piuttosto ad un pubblico adulto.
Senonché accanto a diversi riusciti momenti poetici, il film di Jonze componeva lunghissime sequenze adatte solo ai più piccoli. Un analogo interrogativo si pone riguardo ai due film, da cui potrebbero scaturire confronti interessanti.
Anche se l'ibrido non riuscito fra elementi "adulti" ed elementi "infantili" apparenta le ultime pellicole di Jonze e Burton, tuttavia per "Alice in wonderland" una fetta di pubblico forse l'abbiamo individuata. Non sono i più piccoli, non sono gli adulti (i fan e gli estimatori di Tim Burton si devono ancora riprendere dal trauma); restano però gli adolescenti sotto i 15 anni, cui si accennava all'inizio (a differenza del film di Jonze, per i quali era noioso). Purtroppo destinatari di un cinema omologato e confezionato in serie, ma fallato: vorrebbe conservare lo spirito della magia dell'infanzia, e invece l'ha smarrito.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 12/03/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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