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Alle ore 11.30 di una calda giornata estiva agli inizi degli anni '70, a Roma, quattro uomini mascherati scendono da una Alfa Romeo bianca e assaltano armati una 500 blu con dentro un portavalori, che ha in consegna gli stipendi dei dipendenti di una piccola azienda. Nella colluttazione vengono uccise due guardie giurate e il portavalori stesso. Durante la fuga uno dei malviventi, un abile autista, viene ucciso da un colpo di fucile sparato da lunga distanza dalla polizia, un secondo colpo provoca all'automobile dei rapinatori una perdita di carburante nella parte posteriore vicina al tubo di scarico.
I banditi proseguono in tre, il capo chiamato "Dottore" (Maurice Poli), il folle "Bisturi" (Don Backy) e l'insolente "Trentadue" (George Eastman). Dopo un lungo inseguimento con la polizia, la loro automobile rimane senza benzina e vengono quindi braccati dagli agenti nei pressi di un parcheggio sotterraneo, dove i tre, vistisi ormai perduti, prendono in ostaggio due donne.
Si crea quindi un violento confronto tra la polizia e i rapinatori. La posta in gioco è la libertà dei tre in cambio del rilascio degli ostaggi. "Bisturi" però, in preda al panico, uccide una donna presa prigioniera, poi i tre, che hanno lasciato stupiti per la ferocia dell'omicidio anche gli agenti, riescono a fuggire insieme a Maria, l'altra donna ostaggio, con una automobile rubata.
Inizia un nuovo inseguimento, quando i malviventi si accorgono che il cerchio territoriale dei loro spostamenti si restringe sempre più, perché le automobili della polizia cominciano a coordinarsi via radio, decidono di abbandonare l'auto e di fuggire a piedi con l'ostaggio.
Immediatamente dopo i tre banditi hanno la fulminea idea di salire su un'auto ferma ad un semaforo con a bordo un uomo di nome Riccardo (Riccardo Cucciolla) e un bambino che sta dormendo. Una volta a bordo Riccardo che è al volante conferma ai tre che il piccolo è suo figlio e che lo sta portando in ospedale perché bisognoso di cure, dopo di ché li supplica di lasciarlo andare all'ospedale.
I banditi insensibili ai problemi del figlio piccolo di Riccardo lo costringono a prendere l'autostrada, obbligandolo poi, per evitare nuovi posti di blocco, ad infrangere diverse norme di sicurezza.
"Cani arrabbiati", girato da Mario Bava nel 1974, non è mai uscito nelle sale italiane a causa del fallimento della casa produttrice, che non è poi riuscita a commercializzarlo per i costi di distribuzione troppo alti. Di questo film ne circola una versione in dvd, per diretto interessamento dell'attrice Lea Lander che nel film interpreta Maria, una degli ostaggi.
Si tratta di un film superlativo per suspense, tensione e per un'idea filosofica di fondo che, ben rappresentata attraverso codici visivi collaudati, di effetto immediatamente coinvolgente, solleva la questione dei contrasti ambigui tra il male e il bene che si riflettono dalla vita reale, presi così come si presentano nella casualità giornaliera, anche nelle situazioni più drammatiche di essa.
Il film si cala criticamente in una società come la nostra che sembra favorire sempre più ogni genere di travestimento, simbolico-psicologico, lasciando a volte nello sconcerto chi cerca relazioni più autentiche e chiare. Il bene e il male in questo film sono presi nelle loro apparenze più ovvie, in quelle forme maggiormente familiari di cui si fa esperienza spesso nell'esistenza umana più comune.
Il regista, dopo aver rafforzato per lungo tempo nello spettatore l'idea di essere di fronte a un contrasto autentico tra il bene e il male, ne svela a sorpresa le verità più profonde, contraddittorie, avviando il racconto filmico verso un finale di buon impatto emotivo.
E' questa di Mario Bava un'idea geniale.
Il film è stato molto rivalutato da Tarantino che ne è rimasto particolarmente colpito per la drammaticità, rappresentata in modo originale ed espressa in ogni dettaglio con cura estrema, tanto da dare nel suo insieme alla pellicola un effetto di verosimiglianza sopra le righe. Il film è talmente piaciuto a Tarantino da indurlo a prenderne per sua ispirazione da transfert, visiva e drammaturgica, diversi spunti nella costruzione del capolavoro "Le iene" (USA 1992).
Questo a testimonianza, per chi avesse ancora dei dubbi sulla grandezza di idee del cinema italiano, di una reciproca influenza tra cinema italiano e cinema americano che ha portato a fertili stimoli creativi ed espressivi, di innovazioni nei modi di rappresentazione delle idee filmiche e dei suoi contenuti, questo per lungo tempo, per lo più dagli anni '30 a fine anni '80.
Da un punto di vista un po' più psicanalitico, l'opera di Bava sembra voler porre la questione della morte su un versante particolare, molto astratto, tanto da farla divenire una sorta di ricordo-simbolo inaspettato, traumatico, per abitudine normalmente rimosso, un brusco richiamo alla sua esistenza più enigmatica capace all'improvviso di perforare la crosta del reale seminando terrore e sgomento, tutto ciò legandosi brutalmente a un evento fortuito giornaliero, negativo, come la rapina alla piccola azienda di Roma che coinvolge nel tragico numerose persone.
E' come dire che il fantasma della morte, inteso come minaccia di castrazione della sessualità presente nella vita quotidiana, sublimata in una forma segnata, a causa degli effetti della civiltà, dall'impossibilità del godimento pieno (quella sublimazione cioè che si vive più su un versante di soddisfazione che di piacere, nella vita anche ordinaria), si riattiva, aprendo in una sorta di verticalità profonda l'inconscio più ostico a mostrarsi.
L'effetto spettacolo e drammaturgico che ne deriva è legato alla riattivazione attraverso il visivo di istanze inconsce vicine alla sfera primaria. Si crea in sostanza una struttura psichica nuova, originale, ma provvisoria, in cui la minaccia di morte apre l'inconscio verso la sensibilizzazione del trauma iniziale della nascita costringendo la vittima ad entrare in un mondo onirico di sogni che accompagna il suo rapporto con il carnefice fino alla soluzione finale.
Una struttura onirico-sognante che fa entrare lo spettatore in un suo mondo più interiore costringendolo a regressioni di forte valenza artistica perché legate all'immaginario nostalgico-vivo più che al reale razionalizzato-mortificante la pulsione.
Il film può essere quindi visto come una magica chiave di apertura dell'inconscio dello spettatore che ha l'occasione di sperimentare sensazioni prima sconosciute, che in un primo momento appaiono stranianti perché frutto di un rimosso che apre delle brecce oniriche per poi assumere forme di conoscenza di sé sempre più in relazione con il piacere del sogno diurno, cioè di un sintomo nuovo che dura lo spazio e il tempo del film.
Mario Bava riapre con questo film la questione del godimento sadico nel cinema, un tema caro anche al geniale Tarantino e che tanto spaventa le istituzioni pedagogiche di ogni credo e cappella culturale, una questione che si apre in realtà, con la psicoanalisi, come un sapiente libro, mostrando dell'altro, svelando strutture psichiche complesse in diretta relazione con un vissuto che aspira ad essere rielaborato culturalmente se solo gli si dà l'occasione: ad esempio attraverso progetti mediatici intelligenti che possono scaturire dal cinema stesso quando è preso in un dibattito.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 27/04/2012 15.13.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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