Recensione deliver us from evil regia di Ole Bornedal Danimarca, Svezia 2009
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Recensione deliver us from evil (2009)

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locandina del film DELIVER US FROM EVIL

Immagine tratta dal film DELIVER US FROM EVIL

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Immagine tratta dal film DELIVER US FROM EVIL

Immagine tratta dal film DELIVER US FROM EVIL
 

Johannes e sua moglie Pernille lasciano la città per traslocare con i loro due bambini nel villaggio natale di lui. Lars, fratello di Johannes, investe col suo camion Anna, una donna piuttosto in vista nel paese e, per sfuggire alle conseguenze della sua azione coinvolge un immigrato bosniaco, amico di suo fratello. Le cose precipiteranno immediatamente dopo il ritrovamento del corpo. E Johannes si troverà in una situazione disperata.

Immaginate di camminare sul ghiaccio. A un primo passo sembrerà di essere su un suolo normale. Ma avanzando ci si potrebbe accorgere del fatto che il terreno non è poi così compatto. Che sotto di esso nuotano cose, e che queste potrebbero addirittura ingoiarci nel malaugurato caso di una rottura della superficie. Esattamente la stessa sensazione che si prova a guardare questo film.

Ole Bornedal, famoso per la trasposizione americana del suo lavoro "Nightwatch ("Nattevagten", 1994) ci porta faccia a faccia con l'ipocrisia di cui pare siano avvolti in realtà molti dei sentimenti ostentati dai più.

Johannes e Pernille sono una coppia normalissima che sceglie di tornare in provincia. I rapporti di lui col fratello Lars, uno squinternato che guida un tir, sono superficiali e poco amichevoli. Johannes ha un amico, Alain, un immigrato bosniaco che ha perso la famiglia in Serbia e cerca solo un po' di pace.
Ma a quanto pare ha scelto il luogo sbagliato.
La superficialità, l'ignoranza e la cattiveria, che nuotano silenziose sotto la patina neanche tanto lucente di educazione e cameratismo che pare la norma in situazioni sociali di disagio, verranno immediatamente alla ribalta alla morte di Anna, una donna molto amata dalla comunità.
Lars, che è stato la causa di tutto, non troverà niente di meglio da fare che coinvolgere Alain nella sua rete, e appioppargli il crimine. Ma questo sarà solo l'inizio. La banda degli amici di Lars, capeggiata dal vedovo inconsolabile e pure un pochino criminale, assedierà la casa di Johannes per pareggiare i conti alla vecchia maniera.

Difficile davvero non riconoscere il debito nei confronti di Cane di paglia che a suo tempo fece inarcare più di un sopracciglio col suo sottotesto politico e con la sua impietosa occhiata nel cuore umano.
Ma Bornedal non si ferma qui. Inzuppa letteralmente la scena di razzismo e di stupidità, accentuando un tratto già presente nel celebre lavoro di Peckinpah del 1971, e confeziona un thriller disturbante e senza speranza da cui si esce con l'acquisita conferma del fatto che in certe situazioni di strada da fare ce n'è ancora parecchia prima di definirsi umani.

Johannes paga caro il suo anticonformismo, come a suo tempo lo sfortunato David di Peckinpah, e si trova di fronte al dilemma se diventare anche lui un animale, o continuare a combattere contro il parere di sua moglie e del poliziotto che tenta di soccorrerlo. In realtà la scelta è obbligata, dal momento che non sempre si riesce a diventare delle bestie, pure volendo e anche sotto l'effetto dell'alcol.

La regia limpida e accurata è totalmente complice del regista, nella misura in cui non solo non nasconde nulla, ma induce in alcuni agghiaccianti momenti, la sensazione di non poter comunque girare lo sguardo di fronte al degenerare cui si sta assistendo e, cosa assai peggiore, l'idea che certe derive possano solo portare ad altre più pericolose cadute.
Bornedal approfitta di ogni sequenza per inorridire lo spettatore, presentandogli senza pietà il conto effettivo dell'ipocrisia di fronte al diverso. I terroristi sono un nemico recente, ma "l'altro" in contrapposizione al "noi" ha sempre fatto le spese della nostra paura della diversità. In questo senso l'intero film urla le intenzioni del regista di non nascondersi di fronte alla realtà e di raccontare senza mezzi termini cosa coltiviamo dietro l'apparenza di normalità di cui spesso ci vestiamo.
Bornedal, come Peckinpah e molti altri prima di lui, induce lo spettatore a fare direttamente i conti con le illusioni che animano i più idealisti e col brusco risveglio dato dal semplice confronto tra le dichiarazioni e le azioni di chi non ha contatto con la sua vera natura. Il razzismo, l'ignoranza e la cattiveria nuotano silenziose sotto tutti i prati ben rasati che ci piace ostentare. E niente di quello che nascondiamo potrà realmente restare nascosto a lungo.

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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 28/04/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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