Recensione good bye, lenin! regia di Wolfgang Becker Germania 2002
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Recensione good bye, lenin! (2002)

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Miglior film dell’Unione Europea
VINCITORE DI 1 PREMIO CÉSAR:
Miglior film dell’Unione Europea
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locandina del film GOOD BYE, LENIN!

Immagine tratta dal film GOOD BYE, LENIN!

Immagine tratta dal film GOOD BYE, LENIN!

Immagine tratta dal film GOOD BYE, LENIN!

Immagine tratta dal film GOOD BYE, LENIN!

Immagine tratta dal film GOOD BYE, LENIN!
 

Berlino, 9 novembre 1989. Sotto la spinta di concomitanti eventi politici e sociali, il Muro di Berlino (Berliner Mauer), simbolo della "politica dei blocchi contrapposti", che da 28 anni separava Berlino Ovest da Berlino Est e dal resto della Repubblica Democratica Tedesca viene smantellato aprendo la strada alla riunificazione tedesca che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.
Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera di influenza americana e una sovietica, fu il simbolo più crudele della Guerra Fredda.
Raccontare questo evento, drammatico per coloro che avevano creduto all'utopia del socialismo reale, con il sorriso sulle labbra non è impresa semplice nè tantomeno consolatoria.
Raccontarlo con leggerezza e sorprendente freschezza, ma anche con un pizzico di amarezza, riuscendo, allo stesso tempo a parlare di accadimenti che hanno cambiato il corso della storia, senza scadere nella retorica facile, lo è forse ancora di più.

Wolfgang Becker con questo "Good Bye, Lenin!" ci riesce benissimo, mettendo in scena una parabola dal retrogusto amarognolo che arriva a centrare l'obiettivo di sdrammatizzare un evento traumatico, qual è stato per molti la caduta del muro di Berlino e la conseguente dissoluzione della DDR.
Questa pellicola del 2003 riesce molto bene nell'impresa di dar voce, con leggerezza e ironia, a ideali politici irrealizzati, convergendo verso quella forma di "ostalgia" (neologismo tedesco che si riferisce alla nostalgia per la vita nella vecchia DDR; acronimo delle parole osten, "est" in tedesco, e nostalgie, cioè "nostalgia per l'est") per un mondo sconfitto a cui tributare una sorta di omaggio e garantirgli una fine gloriosa.
In effetti in "Good Bye, Lenin!", più che in altri film, il fascino dell'apertura ad Ovest non irretisce proprio tutti (non per niente oltre la metà dei tedeschi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, esprime forte insoddisfazione per come stanno andando le cose nella propria patria riunificata.
Secondo un sondaggio svolto dall’istituto Forsa per conto del quotidiano "Berliner Zeitung", il 51 per cento dei cittadini tedesco- orientali sostiene di essere stato meglio quando il Muro era ancora in piedi e la Germania socialista era ancora uno stato sovrano diviso dal fratello occidentale e capitalista di Bonn. Sentimenti analoghi valgono però anche per i tedeschi occidentali, che sposano al 60 per cento questa tesi: emerge un orgoglio latente per un passato pur sempre totalitario ma che restituiva ai cittadini quella dignità e quelle speranze egalitarie che una troppo frettolosa fine ha portato a cancellare.

Un film comico e triste allo stesso tempo, una miscela di realismo e fantasia per rielaborare il lutto a sinistra e affrontare il problema che non sempre il nero è nero e il bianco è bianco, per farci toccare con mano quanto la caduta del muro abbia stravolto la vita delle persone protagoniste e spettatrici del grande evento storico.

Protagonista del film è Alex Kerner (Daniel Brühl), un ragazzo di circa ventanni, dalla faccia pulita, che vive con la madre Christiane, la sorella Arianne e una nipote, nel socialismo reale di un classico palazzone sovietico.
Alex lavora come tecnico in una Cooperativa di riparazioni elettriche ed ammira Siegmund Jähn, il primo astronauta tedesco ad aver viaggiato nello spazio.
La sua è una famiglia normalissima, una tipica famiglia dell'Est: sua madre, ordinata e organizzatrice, fervente attivista politica, è la tipica socialista tutta casa e partito; suo marito (il padre di Alex e Arianne) un giorno non fa più ritorno a casa dopo un viaggio all'ovest nel 1978, dove si è rifatto una vita con una "nemica del popolo".
Quando un giorno Christiane, che si sta recando ad una festa per ritirare un premio ufficiale conferitole dallo Stato socialista, scorge da lontano il suo adorato figlio che viene arrestato dalla "sua" StaSi per aver preso parte alle manifestazioni pacifiche dell'Ottobre, per lo shock cade a terra, colpita da infarto, ed entra in coma.

Nei mesi successivi succede quello che per Christiane non sarebbe mai potuto e dovuto succedere.
Alex viene rilasciato ma il socialismo della "sua" Germania, che lei credeva potesse rendere migliore il mondo, crolla sotto l'avanzata del capitalismo e con esso crolla il muro che aveva fatto da diga al consumismo selvaggio dell'Occidente e che, tuttavia, aveva assicurato agli Ossis (così venivano chiamati i cittadini dell'Est, per distinguerli dai Wessis, i cittadini dell'Ovest), sicurezza e un senso di concretezza della vita.
Quando Christiane si risveglia, otto mesi dopo, il mondo attorno alla famiglia Becker è cambiato: Berlino non è più la stessa, i segni del capitalismo sono un po' dappertutto, davanti alla loro finestra un enorme cartellone della Coca Cola fa bella mostra di sé, i prodotti alimentari della DDR non esistono più, gli autarchici cetriolini sott'aceto della sua marca preferita sono diventati introvabili.

Alex non potrebbe essere più felice per il ritorno alla vita della madre, anche se, nel frattempo, il mondo attorno a loro sta correndo velocemente verso una profonda conversione capitalistica e consumistica, che a lui ha regalato la perdita del posto di lavoro alla cooperativa (ma anche all'astronauta, costretto ora a fare il tassista), e che ha smorzato il suo iniziale entusiasmo per l'occidentalizzazione, ma anche quello di molti suoi conoscenti.
Entusiasmo che pian piano sta cedendo il passo alla disillusione seguita alla fatica di non riconoscersi in un mondo non suo e che non gli appartiene ("Ah, guarda qui cosa ci siamo ridotti a fare", esclama un vicino di casa che, da un giorno all'altro, si ritrova costretto a rovistare nei cassonetti della spazzatura).
Ma c'è un problema, anzi due: il primo è che i medici raccomandano ad Alex di risparmire alla madre qualsiasi emozione che potrebbe risultare fatale per il suo debole cuore; il secondo è che la DDR non esiste più e per lei questo cambiamento così drastico potrebe significare uno shock insopportabile.
Comincia a questo punto la commovente messa in scena di Alex per cercare, con ogni mezzo, di nascondere alla madre ciò che sta avvenendo al Paese in cui lei aveva tanto creduto.

Con l'aiuto di Lara, la fidanzata venuta dall'Unione Sovietica, di Denis, un amico che sogna di fare il regista ma che intanto si arrabatta a montare antenne paraboliche, e della perplessa sorella, trasforma il suo appartamento in una sorta di mausoleo della DDR (79 mq di bugie per ricostruirle attorno quell'isola felice che in realtà è esistita solo nelle speranze di coloro che credettero all'utopia custodita dalla madre) ed inizia a plasmare la realtà ad immagine e somiglianza di un sogno che non sapeva di avere.
Ma l'impresa, che all'inzio sembrava molto facile, si rivela più ardua del previsto: bisogna pagare i bambini perchè si esibiscano in canzoni e spettacoli comunisti, bisogna recuperare vecchi barattoli in cui travasare i famosi cetriolini che ora arrivano dall'Olanda, bisogna rimettere i vestiti di un tempo che la sorella, nell'entusiasmo del capitalismo, non vuole più indossare, ma soprattutto, quando la donna comincia a star meglio e chiede di guardare la televisione, bisogna revisionare la storia, montando, con l'aiuto di Denis, finti telegiornali della Aktuelle Kamera che parlano della DDR e dei successi del compagno Honeker (particolarmente esilarante l'edizione in cui l'ex astronauta, ora tassista, diventa segretario di stato e annuncia l'apertura all'altra Germania proclamando la riconcialiazione con i Wessis, i "fratelli nemici dell'Ovest").

Più passano i giorni e più il giovane Alex deve fare i conti con la nuova realtà: con le banche che non accettano più i vecchi marchi della DDR ormai svalutati, con la perdita dei primi posti di lavoro che comincia a scarseggiare, con il sarcasmo di superiorità dei Wessis, con i modelli imposti dal consumismo, con i primi effetti della globalizzazione, con le trasformazioni antropologiche che si fanno ogni giorno più evidenti e invadenti.
Alex però entra talmente nella parte che sviluppa tale finzione come un percorso interiore e onirico che lo porterà a considerare veritiera quella DDR mai esistita, o comunque esistita solo nelle potenzialità, e che la realtà ha ormai smentito, ma che a lui serve per identificarsi in un mondo in cui fatica a riconoscersi.
Fino a quando la donna, ormai in via di guarigione, un giorno non si alza dal letto e intraprende con la nipotina una passeggiata tra le strade di quella Berlino che le sono diventate estranee, seguendo la statua, come benedicente, di Lenin appesa ad un elicottero che la sta trasportando via, dal piedistallo dell'Alexanderplatz, che la porterà a credere all'ultima mistificazione che chiude la sua vita: che i Wessis stiano fuggendo verso l'Est.

Commedia degli equivoci, "Good Bye, Lenin!", è più che altro il pretesto, paradossalmente di un regista dell'Ovest, per raccontare il disagio, la frustrazione, le difficoltà, persino lo smarrimento dei cittadini della Germania Est, costretti a vivere i grandi sconvolgiementi pre e post unificazione, che sfumano in una libertà solo formale.
In tutto questo, però, l'attenzione maggiore del regista si rivolge, quasi subito, verso il personaggio di Alex, disegnando con simpatia il ritratto di un ragazzo alle prese con un evento che lo pone al centro dell'universo materno e al centro di una situazione illogica che lo porterà a farci toccare con mano la realtà che quel socialismo, che ha acceso tanti sogni, tanti ideali e tante speranze collettive, non può essere rinchiuso e protetto da alcun muro.
Sullo sfondo di una Berlino solare e dinamica in cui si respira ancora quell'atmosfera un po' retrò che impedisce l'oblio delle radici e diffonde sfumature di ostalgia malinconica verso la vecchia DDR, e che ha consentito che tornassero di moda i riti e i costumi delle stagioni in cui imperava il socialismo reale, con tutte le sue liturgie e le sue icone, che ha portato molti collezionisti di cose del passato alla ricerca di pezzi un po' kitsch di quel mondo che non c'è più e di quel tempo in cui non c'era niente (modellini delle Trabant, le bottiglie della Vita Cola della Turingia, i colbacchi con la stella rossa, le magliette con il logo della DDR, i jeans slavati made in Romania, le vecchie divise blu elettrico della gioventù comunista della DDR, le sigarette marca Caro e Cabinet, i gadget della compagnia aerea Interflug o dell'omino dell'Ampelmännchen, le borse della spesa in nylon della Polonia, gli scoppiettanti motorini modello Schwalbe).

Si ride con un po' di amarezza e si ha la sensazione che si sia voluto dire qualcosa di molto più realistico e di molto più veritiero; di aver voluto raccontare, attraverso una esperienza di vita, un pezzo di storia affinchè la memoria non l'oblii e restituisca dignità ad una realtà che una troppo veloce rivoluzione ha cercato (riuscendoci) di annullare.
Una buona parte del merito del successo del film va alla sceneggiatura che ha saputo mixare con sapiente professionalità dramma e commedia per lanciare, con il sorriso e la malinconia, un messaggio sul senso e lo spirito della storia.
Una nota di merito va riconosciuta anche ai due protagonisti principali (ma anche a quelli di contorno): il giovane Daniel Brühl e Katrin Sass, le cui interpretazioni si distinguono per la naturalezza sorprendente con cui riescono a dar vita ai rispettivi personaggi del giovane Alex e di sua madre Christiane.
Significativa, infine, la scelta del titolo, "Good Bye, Lenin!", "arrivederci, Lenin!", non "addio, Lenin!"; quasi a significare che il rimpianto per il disgregamento di una realtà politica è tanto forte da non indurre ad un saluto definitivo, quanto, piuttosto, ad una prospettiva di speranza per quegli ideali che, nonostante tutto, continuano a far sognare.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 06/02/2009

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