Recensione il mucchio selvaggio regia di Sam Peckinpah USA 1969
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Recensione il mucchio selvaggio (1969)

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locandina del film IL MUCCHIO SELVAGGIO

Immagine tratta dal film IL MUCCHIO SELVAGGIO

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Come ogni racconto western, "Il Mucchio Selvaggio" è una storia che parla al di là di se stessa, che tramanda dei significati ulteriori alle circostanze che rappresenta, una storia che erompe dalla sua cornice formale per distendesi in uno spazio e in un tempo che perdurano dopo, oltre la visione.

Pike (W. Holden), Dutch (E. Borgnine), i fratelli Tector e Lyle (B. Johnson e W. Oates), e Angel (J. Sànchez) sono i componenti del gruppo, un manipolo di banditi che si aggira per le aride cittadine degli Stati Uniti al confine col Messico in cerca di "ultimi colpi".
Il Mucchio è braccato avidamente, per tutto lo svolgersi della storia, da un altro mucchio (meno selvaggio? Selvaggio allo stesso modo?) capitanato da Deke Thorton (R.Ryan), vecchio amico e nuovo nemico di Pike, assoldato dal magnate delle ferrovie per catturarli, vivi o morti. Lo sfondo storico in cui si inscrive questa vicenda è il primo ‘900 della rivoluzione messicana di Pancho Villa, che costringe gli Stati Uniti a difendere i confini del Texas e del New Mexico sfruttando per la prima volta i freschi prodigi della tecnica, come l'aeronautica o l'artiglieria pesante. È tutta una storia di mucchi, in fondo: attorno a quello centrale orbita non solo quello di Thorton, ma anche quello dell'esercito americano, quello degli indios, che rivendicano il possesso della loro terra, e quello del generale Mapache, condottiero delle forze armate del governo messicano e nemico dei rivoluzionari.

In questo traboccante quadro di carne, sangue e mucchi, il racconto prende pieghe inaspettate ma inesorabili, i destini s'incrociano e rinascono sotto segni di mucchi differenti. Si tratta dunque di un'opera polifonica, un immenso affresco che mostra come la Storia comporti dei cambiamenti epocali che coinvolgono tutta l'umanità. Se il western classico trovava il proprio statuto di mito fondativo degli Stati Uniti nella sua capacità di trarre dei modelli etici assoluti dalle situazioni particolari, il film di Peckinpah si inserisce nella stessa tradizione, ma recitando al tempo stesso l'epigrafe del medesimo mito, dichiarando, cioè, il tragico epilogo degli sforzi di quei padri che vissero la conquista del West, e marcando similmente il divario tra due generazioni di cineasti americani: registi come Ford e Sturges da una parte, gente come Peckinpah o Penn dall'altra.
Già a livello formale la novità è evidente: 3643 inquadrature, alcune anche di frazioni di secondo, come se il solo modo di rapportarsi a questo mondo irriducibilmente plurale fosse l'innesto della macchina da presa all'interno delle cose stesse, come se Peckinpah volesse immortalare ogni movimento e ogni luogo, restituendo una nuova percezione della realtà, che così tocca allo spettatore completare.

La prima scena del film mostra il Mucchio a cavallo che passa davanti al più violento dei giochi infantili: uno scorpione divorato da formiche, un mucchietto agonizzante che diventerà tutto un rogo, nella violenza più incontrollata, nello spasimo più indifeso. Ecco che dei bambini annunciano un'ombra: la violenza. Mai nel western, e mai nel cinema, si assiste a un tale dispiegamento di violenza, tanto più che qui si mostra come gratuita.
Ciò che incorpora questa onnipresenza della violenza e che mostra impietosamente la fragilità dell'uomo è il ralenti, il dilatarsi nel tempo delle "esplosioni totali": nell'azione violenta, in guerra, tutto dura un'eternità, i secondi scorrono lenti perché sono gli ultimi aggrappati alla vita. Il ralenti dice quest'ansia di vita e questo tempo di morte, e insieme esalta l'indicibile: la fascinazione estetica per la morte di un uomo: un metodo catartico in cui affiora la denuncia per chi gode della bellezza della morte nel momento visivo.
Andando all'altro polo, l'ultima sequenza del film, il massacro finale, è un'enorme, caleidoscopica catarsi, in cui il terrore supera la tensione particolare per giungere alla sua dimensione universale.
Il massacro finale nasce nell'impulsivo, nella sconsideratezza: in un mondo senza più regole né dignità, la rivalsa in difesa del valore dell'amicizia comporta uno scontro che non può non mettere in discussione l'abiezione di un'intera collettività come quella di Mapache, il quale, insieme al suo manipolo di soldati e malfattori, rappresenta la frattura tra autorità militare e legge giusta, e quindi il virus della violenza cha ha infettato la società sana della frontiera. Allora la scontro finale non poteva che essere un massacro totale, se è vero che la malattia andava debellata completamente, attraverso, tra l'altro, i medesimi strumenti: la violenza si combatte con altra violenza, in una sorta di autodistruzione finale, di gran falò sacrificale che elimina ogni tensione e può ristabilire l'equilibrio umano e sociale. E la grandiosa sequenza lascia attoniti non solo per la sua capacità di rendere efficace la rappresentazione di una mattanza generale ed estrema attraverso un nuovo ed inusitato linguaggio cinematografico, che ne accentui il grado di eccezionalità estetica, ma anche per il sentimento di disillusione e di fatalismo che, una volta accesa la miccia, rimane come sospeso per tutta la durata della carneficina; l'automatismo istintivo con cui Pike uccide Mapache, il sorriso isterico di Dutch con cui si strozza per un attimo l'azione, preludono alla fatale sconfitta del Mucchio, lo mettono, cioè, di fronte all'inevitabilità della morte di ciascuno.

Coerentemente all'afflato pluralistico di tutto il film, Peckinpah mostra la violenza non più nei duelli, non più nelle azioni condivise (presenti ancora in "Sfida Infernale" di Ford o in "Sfida all'O.K. Corral" di Sturges), ma nella strage della massa indistinta, quella massa che prefigura la popolazione-tipo del XX secolo. La violenza non può che manifestarsi sotto forma di massacro: massa e massacro. Questo perché il mondo in cui si muove il Mucchio è un mondo che ha perso definitivamente quella speranza nelle sorti progressive e quella fede nella giustizia trasformata in legge di territorio tipiche degli sceriffi di Ford e Hawks. Se lì ogni misero villaggio si trasformava in un imbattibile avamposto di legalità, in cui il singolo è disposto a sacrificarsi per la collettività (si veda anche "Mezzogiorno di Fuoco" di Zinnemann), in Peckinpah invece l'unica legge è quella della sopravvivenza e l'unica speranza è quella riposta nell'avanzamento tecnologico del Paese. Di qui, la vicinanza con Leone, che, in "C'era una volta il West", canta il declino dell'epopea western, causato dall'inarrestabile progresso della tecnica rappresentata dalla ferrovia, che, seminando bounty killer, elimina la concorrenza, instaura il monopolio e viola infine il principio base del mito americano: l'uguaglianza.
Ma se, da una parte, Peckinpah mostra il tramonto di una dimensione aurorale, abitata da onore, giustizia e virtù, dall'altra, l'immolazione del gruppo per Angel, l'omosessualità latente di Dutch nei confronti di Pike, il perdono che Pike dona a Thorton per il suo instancabile tallonamento, considerandolo quindi come un membro mancato del Mucchio, per non parlare dei momenti di giubilo collettivo, sono tutti segni della celebrazione del valore dell'amicizia come di quel sentimento naturale in grado di legare gli uomini l'uno all'altro, anche in un mondo di estrema meschinità, in grado di dar loro un motivo per cui vivere. Anche se il Mucchio è un mucchio di misfit, di perdenti, loro rimangono fratelli, amici inseparabili: il valore redime dalle colpe sociali e restituisce dignità all'uomo.

Il Mucchio è allora un "Pequod" melvilleiano, imbarcazione multietnica e fraterna che in un tentativo disperato ed impossibile dà la caccia alla balena bianca. Se è vero che questa è l'incarnazione di ogni violenza da superare con altra violenza, se è lo spasimo virale e spontaneo dello sfogo animale, è anche vero che il suo abbattimento la trasfigura in un'enorme lavagna bianca sulla quale scrivere le nuove sorti della nazione futura, abitata da soli fratelli, seguendo il modello del Mucchio e ripetendolo su larga scala. Ma la balena ha inesorabilmente affondato il "Pequod", e con lui ogni orizzonte di rinnovamento. Peckinpah attribuisce la colpa del mancato sogno americano non al Mucchio, ma a chi lo guarda, allo spettatore, che, attraverso le sovrimpressioni finali di questi killer-fratelli ridenti dopo la morte, può riconoscersi in essi e guardare disinteressato l'esodo dei superstiti del massacro finale di Agua Verde, vittime di una violenza che non li riguardava. È sempre il presente che trasfigura il mito, ed è sempre il passato che giustifica il presente.
Vi è una condanna totale della società, ma non del western: questo è sempre eroico, sono i suoi eroi ad essere cambiati.

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Recensione a cura di Gilles - aggiornata al 10/03/2009

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