Recensione kill me please regia di Olias Barco Belgio, Francia 2010
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Recensione kill me please (2010)

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locandina del film KILL ME PLEASE

Immagine tratta dal film KILL ME PLEASE

Immagine tratta dal film KILL ME PLEASE

Immagine tratta dal film KILL ME PLEASE

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Immagine tratta dal film KILL ME PLEASE
 

Aprire con la freddezza di un calcolo matematico è doveroso: un suicidio costa alla società 850 mila dollari in termini di APP (anni produttivi persi, considerando la perdita dei contributi e di produttività di ogni suicida) che, moltiplicato per il numero di suicidi medi annui - 1 milione - dà un buco di 850 miliardi di dollari. E' un dato reale calcolato dall'OMS, nel film attribuito a una ricerca canadese: "fanno sempre ricerche interessanti, questi canadesi".

In un improbabile maniero isolato tra le montagne del Belgio o della Francia, opera il dottor Kruger, con l'intento di "accompagnare" le persone che ne facciano richiesta verso un suicidio dignitoso. La clinica diventa prevedibilmente covo dei personaggi più disparati, tenuti a bada da una squadra di infermieri per i quali unica regola è 'non affezionarsi' e dal serafico dottor Kruger, che sembra essere in grado di controllare una situazione all'apparenza insostenibile. In mezzo ad essi si muove l'ispettrice della finanza, al fine (pare) di valutare la liceità delle operazioni, ancora eticamente inaccettabili.

Olias Barco propone un tema scottante sottilmente lontano dalla realtà, in un film in cui il low cost diventa funzionale alla veicolazione del messaggio e facilita azzardati paragoni storici, disseminato qua e là di umore nero della peggior specie - quello che al limite fa piangere - e di sequenze grottesche che sfondano la barriera del reale e lo inseriscono nell'assurdo, dove del resto giace - o dovrebbe - l'idea di base.
La discussione filosofica, la legittimità etica e la questione religiosa, tipici dell'eutanasia, svaniscono; c'è solo un grosso punto interrogativo: la fattibilità finanziaria.
Lo scopo della clinica di Kruger, sorretta da sovvenzioni statali e/o dai lasciti dei morti - la questione è poco chiara, per non dire proprio volutamente ambigua, come tutto il resto del film e dei personaggi - è in fondo quello di recuperare i soldi cristallizzati in ciascun individuo, che ha un valore solo in rapporto alla società nella quale si è trovato a vivere. Un valore, questo sì fa venire i brividi, calcolabile.
Non c'è alcun secondo fine affettivo o legato al recupero umano nel pur lodevole intento di distogliere le persone dal suicidio; l'affetto e l'amicizia, dice Kruger all'infermiera in lacrime: "no".

Da qui nasce una delle tante e gigantesche contraddizioni su cui si fonda, ironicamente, il film: la clinica è studiata per rendere più dignitoso l'atto del suicidio, per controllarlo e sottoporlo alla supervisione di un medico, per offrire insomma, se non altro, una fine "piacevole" e non violenta al cliente, evitare splatterosi epiloghi (i clienti pagano per questo servizio), ma dall'altra parte i dipendenti cercano fino alla fine di distoglierli dall'atto, di recuperarli. E' come offrire un servizio vendibile, avvertendo i compratori che è meglio non procedere all'acquisto, come per le sigarette.

Abbiamo detto 'evitare splatterosi epiloghi'. Naturalmente una clinica così studiata è molto più propensa ad attirarli. Già il primo suicida, inventatosi di sana pianta un cancro terminale, si taglia le vene in bagno come un bimbo che fa il dispetto alla mamma, finendo i suoi giorni nel più becero dei modi, a dispetto delle buone intenzioni che l'avevano condotto lì.
Il discorso di Kruger agli infermieri schierati a rapporto sembra insistere sulla dimensione di 'incidente isolato' dell'evento, come a rassicurarli che è improbabile, in una clinica della morte, assistere nuovamente a scene simili.
Il secondo, l'unico paziente cui viene effettivamente somministrato il veleno tanto ambito, si spegne in un amplesso forse neanche troppo soddisfacente - sarebbe il caso di chiamarlo sveltina - in un trionfo di Eros e Tanathos: il ritmo della vita e il ritmo della morte che si sincronizzano, come un'unica melodia.
E' una scena delicata, ma, a pensarci, anche molto molto squallida, con lei bellissima e perfetta che accetta di farlo con un morto.

Il funzionamento della clinica comincia però a diventare ingestibile, allorché Kruger si accorge che non per tutti il concetto di 'morte piacevole' coincide. Anche l'ultimo desiderio dei morituri diventa un problema: fin quando è una scopata la soluzione è semplice, ma quando bisogna cominciare ad imbastire spettacoli lirici per pompieri e a ricreare scene belliche con vernice, se ne va la fattibilità in termini organizzativi ma soprattutto economici. Oltre che la dignità degli operatori.
Emergono in questo momento la cantante che ha perso la voce, il lussemburghese che ha perso la moglie e il depresso cronico. Si ritrova in questi tre una connessione per il fatto che, non riuscendo ad appagare adeguatamente ciascuno il proprio desiderio di morte, lo esternano verso gli altri, in un eccesso di - non si sa che - violenza o altruismo, perché soddisfano quel che per loro rappresenta il massimo bene in altri.
Si trovano così ad uccidersi l'un l'altro: uno chiude viva in una bara una povera donna fuori dal circolo malato e viene soffocato a sua volta dall'altra, l'altro fa una carneficina a colpi di vernice, muovendosi e correndo per il campo a mo' di giocatore di soft air come fosse una finta guerra - e in realtà lo è, ma si muore davvero - cercando in tutti i modi una gloriosa morte che rievochi le sue fantasie oniriche; la troverà invece per mano di Kruger, finalmente stanco di questa follia, poco prima che egli stesso si condanni alla stessa sorte. C'è anche chi tenta la violenza sessuale dell'ultimo secondo, spacciandola per una cosa logica, perché "tanto tra qualche giorno sei morta".

Dal maniero in fumo, teatro di quella morte violenta che si era tentato invece di esorcizzare, esce infine Madame Rachel, la cantante, l'unica superstite: il film si spegne sulle sue note baritonali della marsigliese, a trionfo di vita e liberazione e sull'improvviso colpo di tosse, preannuncio di morte.

Una serie di contraddizioni rendono lugubramente umoristica e paradossale la vicenda: quando scoppia un incendio nella clinica i pazienti scappano via, ma la reazione per un aspirante suicida sarebbe, per logica, rimanere. Come questa, tante altre situazioni sono divertenti per il fatto che i personaggi continuano istintivamente a comportarsi per il loro bene, quando in realtà dovrebbero volere il male. Si svela così la vigliaccheria di fondo del suicida e la sua assurda ricerca del 'male comodo'.

L'ispettrice Evrard rappresenta un po' l'inquisitrice, una che si suppone possa ristabilire una morale all'interno della clinica; in realtà, inviata dalla finanza, vuole solo indagare sulle modalità di pagamento dei clienti per scoprire se Kruger intaschi o convinca a sborsare più del dovuto. Ancora una volta, priorità ai soldi. E' esilarante scoprire che Kruger, forte forse delle ingenti eredità lasciate dai ricchi il cui unico desiderio rimasto è morire, si permette addirittura di fare credito ai suoi clienti, che poi dovrebbero saldare il debito dall'altro mondo. E pensare invece a tutte le garanzie che chiedono le banche!
Si aggiungano a questi aspetti comici, omissioni e trascuratezze nella trama, che aumentano l'ambiguità diffusa della pellicola, nonché la sua dimensione grottesca e provocatoria: il lussemburghese, ad esempio, dice di aver perso la moglie e logicamente la si dà per morta, ma quando si mette a fuoco la questione si scopre in realtà che la moglie è stata letteralmente persa... in una partita a poker. Una futilità che spinge al suicidio, ma sull'origine della stessa neanche si indaga, come fosse ovvio giocarsi la propria moglie sul tavolo verde.
Nell'incendio già accennato un personaggio prende fuoco e muore, nell'eccitamento generale, per poi scoprire che non è uno dei pazienti: non si sa chi è, da dove è uscito e neanche importa saperlo. Sembra solo strumento a servizio della fantasia sadica del depresso cronico, che scopre improvvisamente quanti modi originali ci sono per andarsene.
Si glissa poi sulla vita e le ragioni di Kruger, personaggio tragico cui il mondo ha voltato le spalle, che riesce a mantenere il controllo fino al limite della decenza e, quando questo viene superato, sempre dignitosamente se ne va, cercando una confessione ultima nei confronti del cecchino prigioniero di guerra. Il cecchino è uno dei misteriosi giustizieri che assaltano la clinica, sui quali ovviamente non si fa luce, ma che rappresentano la ribellione della popolazione, assurda perché vuole contrastare l'istituzione della morte indotta con altra morte, anche più violenta.

Nel corso del film l'aria malsana e le architetture degli interni ricordano, in certi momenti, la potenza bergmaniana di "Sussurri e grida", che in più si fregiava di colori forti per enfatizzare i toni drammatici.
Per certi versi "Kill me please" può considerarsi anche un omaggio, più o meno volontario, all'espressionismo, altra corrente artistica che tendeva all'estremizzazione dei gesti, e al noir degli anni '40-'50, parallelo favorito dalla figura di Madame Rachel, cantante sul viale del tramonto.

Di produzione belga, "Kill me please" presenta una schiera di attori poco conosciuti al grande pubblico ma che svolgono egregiamente il loro mestiere; si ricordano, in particolare, le performance di Zazie De Paris (Madame Rachel) e del folle Virgile Bramly (nel film l'omonimo insoddisfatto perenne della vita), senza tralasciare Saul Rubinek e Aurélien Recoing (Kruger).
Vincitore a Roma del premio della giuria per il miglior film nel 2010.
La fotografia in bianco e nero, la notizia è confermata, è stata adottata per risparmiare. Ancora una volta, prima di tutto, l'economia.

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Recensione a cura di julian - aggiornata al 24/10/2012 17.00.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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