Recensione la vita di adele regia di Abdellatif Kechiche Francia 2013
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Recensione la vita di adele (2013)

Voto Visitatori:   7,69 / 10 (80 voti)7,69Grafico
Voto Recensore:   9,00 / 10  9,00
Miglior promessa femminile (Adèle Exarchopoulos)
VINCITORE DI 1 PREMIO CÉSAR:
Miglior promessa femminile (Adèle Exarchopoulos)
Palma d'oro
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Palma d'oro
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locandina del film LA VITA DI ADELE

Immagine tratta dal film LA VITA DI ADELE

Immagine tratta dal film LA VITA DI ADELE

Immagine tratta dal film LA VITA DI ADELE

Immagine tratta dal film LA VITA DI ADELE

Immagine tratta dal film LA VITA DI ADELE
 

Uno sguardo innamorato

"La vie et rien d'autre", s'intitolava un film di Bertrand Tavernier; la vita (di Adele), e nient'altro, saremmo tentati di dire. Ma anche: la realtà, e nient'altro.

La coincidenza stessa del nome del personaggio col nome dell'attrice è indicativa (Adele Exarchopulos: Kechiche è uno scopritore di talenti, e questa ragazza è destinata a ritagliarsi un posto nella storia del cinema).

Dentro questo struggente racconto di un'educazione sentimentale, dentro questa straordinaria prova d'attrice, pulsa un atto di fede. La dedizione del suo regista alla tradizione di un realismo cinematografico (francese, è chiaro: è almeno da quei vitatissimi quattrocento colpi di Truffaut che i francesi hanno "rubato" a noi italiani il realismo nato al cinema negli anni '40, nell'Italia disastrata dalla guerra) fatto di presa diretta, sospiri e sguardi, long takes e primi piani: cui oggi si aggiunge la vibrante tattilità della camera a mano: quelle palpitazioni tenui su volti, dettagli, campi medi e lunghi, primissimi piani, ancora volti. E quei movimenti di macchina senza stacchi, a scrutare un contesto, esplorare una superficie, un corpo; a passare da un volto a un altro come uno sguardo ansioso.

Una tradizione ormai ben radicata nella modernità del cinema mainstream, d'autore e non, francofona per inevitabile ascendenza diretta (dai Dardenne a Cantet, da Audiard a Zonca - chi ricorda ad esempio il bellissimo "La vita sognata degli angeli" del 1998?). Una centralità francese che ha nella nouvelle vague il suo big bang (e siamo sempre a "I 400 colpi"...), e nel festival di Cannes la sua maggiore cassa di risonanza. Festival che ha consacrato nel 2013 questo film, insieme al suo regista franco-tunisino, qui probabilmente al suo capolavoro.

E' uno stile - questo che abbiamo provato a descrivere - cui Kechiche aggiunge il suo personale tocco di durata. I film di Kechiche vanno generalmente per le tre ore; le sue sequenze sono, sempre, deliberatamente più lunghe dell'usuale: come se volesse catturare secondi in più, di realtà; come se percepisse come inautentica quella che sarebbe la durata più convenzionale di una sequenza. Quasi a rinnegare almeno in parte Hitchcock, quando diceva che il cinema è la vita senza i momenti noiosi. Non perché in un film come "La vita di Adele" vi siano momenti noiosi, né davvero mai momenti inutili: ma perché è come se un realismo davvero autentico dovesse trascendere la durata convenzionale di un film, dovesse strabordare dai limiti. Dovesse ritagliarsi più spazio, calarsi nella vita: farsi più vita.

Quasi sembra non farcela, Kechiche, a staccare dall'oggetto della sua visione (che in questo caso è l'emozionante personaggio di Adele). Con amore, con dedizione.

Nessuna rivoluzione: è dal "neorealismo" italiano che al cinema si è iniziato a smettere di staccare categoricamente nel momento canonico, si è lasciata scorrere la pellicola spesso un po' più a lungo dell'usuale. La rivoluzione l'hanno fatta Rossellini e De Sica, non Kechiche.
Ma al di là di questo, al di là del fatto che Kechiche rappresenta probabilmente lo stadio estremo dell'estensione della durata, nella tradizione del cinema del reale, quello di Kechiche è primariamente uno sguardo che appare dipendente dall'oggetto della visione. Dal quale non si riesce a staccare. Del quale si è rapiti, innamorati.
Per questo è uno sguardo affascinante.

Ed è questo che rende straordinario "La vita di Adele". Un film che racconta, con sguardo innamorato, una storia di una ragazza che s'innamora perdutamente. E poi diventa donna, scontando tutte le conseguenze dell'amore (ah, sì, amore per un'altra ragazza. Ma quanto importa?). Cresce.
Vive.
Il film è sottotitolato "Capitoli 1 & 2". S'immaginano ulteriori capitoli.
Adele come Antoine Doinel?

"I 400 colpi", ancora.

L'elitarismo messo a nudo.

Da questo momento la recensione contiene elementi di spoiler; se ne sconsiglia pertanto la lettura a chi non abbia ancora visto il film.

La storia di Adele è quella di un'adolescente che scopre la propria identità attraverso il proprio desiderio, l'istinto, il colpo di fulmine, la confusione, infine la passione e quella divina sensazione di pienezza che solo l'innamoramento sa regalare (capitolo 1). Poi (ellissi improvvisa) è diventata adulta, fa i conti con i disequilibri tra sé e l'altra, misura la distanza fra i propri sentimenti e le proprie ambizioni, e i sentimenti e le ambizioni dell'altra. Scopre la disperazione, il dolore; il vuoto laddove c'era la pienezza (capitolo 2). Adele si allontana di schiena, da sola per la sua strada, la vita ancora davanti (capitolo 3?).

E' un'educazione sentimentale; un percorso di formazione. Nel segno dell'amore.

Ma c'è dell'altro. Qualcosa che ha a che fare con l'impossibilità del desiderio, e quindi dell'amore, di prescindere dall'appartenenza sociale. Un tema messo completamente a nudo da Kechiche già nel suo secondo film, "La schivata" del 2003 (flirtando, come non ha smesso di fare, con fonti letterarie - in particolare Marivaux), in cui un ragazzo di origine nordafricana (come il regista Kechiche stesso) s'invaghiva di una bionda francese coetanea. La quale non lo rifiutava affatto d'istinto (non era poi tanto distante il "ceto" sociale dei due); tuttavia pur sempre, un po' per caso, un po' - forse soprattutto - per il peso determinante della differenza etnica (in un contesto conflittuale come quello delle banlieue parigine), a interporsi fra i due c'era uno spazio troppo grande.

Tutti sappiamo bene che i limiti imposti dall'appartenenza etnica o di ceto sociale sono difficilmente valicabili dall'amore; che il finale di Romeo e Giulietta, se da un lato, romanticamente, trascende questo principio, dall'altro tragicamente lo conferma.
Tuttavia, le cose non sono lineari e manichee, come saremmo tentati di credere. Verrebbe spontaneo ipotizzare che, laddove sia di casa una mentalità aperta, la quale - ad esempio - accogliesse l'omosessualità come normale, là possa esservi una maggiore disponibilità e apertura all'altro, al diverso-da-noi. Invece, questo film lascia intendere come le cose non stiano affatto così; che, anzi, può più facilmente essere vero l'inverso. Che cioè a esser settaria, in nuce, sia proprio la classe sociale più aperta: quella cui appartiene l'artista Emma, di cui la maestrina Adele è innamorata. Emma abbandona Adele - e non avremo, a posteriori, la certezza che Adele sia mai stata veramente ricambiata.
I genitori di Emma conoscono l'omosessualità della figlia; alla loro tavola si cena con le ostriche e si fanno discorsi colti. Alle feste di Emma sfila la quintessenza della bobosité, un termine con cui ci si riferisce, in Francia, a un concetto non distante dall'ossimoro radical chic (con il termine "bobo" si indica la "bourgeoisie bohemienne", fatta di borghesi benestanti e benpensanti, intellettuali, artisti, o comunque limitrofi ad ambienti artistici).

Ebbene quello che Kechiche ci dice è che, nelle società occidentali contemporanee, persiste una forma di elitarismo, settario, esclusivo e implicitamente escludente, che discende neanche troppo alla lontana dall'odioso razzismo accademico denunciato sempre da Kechiche (il suo percorso è coerente) nel precedente "Venere nera" (2010), apparentemente distante anni luce da "La vita di Adele".
Quello di Kechiche è un punto di vista molto acuto, lucidamente critico verso il mondo della borghesia intellettuale occidentale. Un mondo cui lui stesso appartiene: ma a rilevare è la circostanza che, a offrirci questo punto di vista, sia un autore le cui origini restano in ogni caso nell'Africa settentrionale.

Ciò che "La vita di Adele" non è nella sostanza, è un film sui rapporti omosessuali che vince la palma d'oro a Cannes nell'anno (anzi nello stesso mese) in cui in Francia si approva la legge sui matrimoni omosessuali.
Davvero ciò che "La vita di Adele" non è, è un film provocatorio o scandaloso per via di quelle due insistite scene di sesso lesbico, che sono invece perfettamente funzionali a descrivere una passione folle, intrisa di amore (almeno da parte di Adele), e di femminilità, e che sono perfettamente innestate sullo stile e sullo sguardo tipici del regista. Al limite, quelle scene potrebbero essere considerate, da un occhio di donna, non del tutto scevre da voyerismo maschile. Forse: ma in parte è un limite inevitabile, e comunque sarebbe circostanza del tutto secondaria, e qualcosa di ben diverso dalla non ravvisabile intenzione di provocare o fare scandalo.

"La vita di Adele" è un film in cui la passione (fisica e interiore, groviglio inestricabile) ha un ruolo centrale. Ma è, anche, un film sui rapporti sociali: Emma, personaggio appartenente a una classe sociale elevata (e mentalmente più aperta) viene descritta nel suo naturale individualismo, immersa in un contesto in ultima analisi elitario, e, dunque, in qualche modo settario.

E' il paradosso messo a nudo delle ideologie liberali, o di sinistra che dir si voglia. Lo stesso denunciato da Mike Leigh nel suo "Another Year" del 2010.
Adele per amore, sulla sua pelle, ha messo in gioco tutta se stessa, partendo in qualche modo dal basso. Ma è stata respinta. Cos'ha rischiato Emma?

E' vita, certamente: un'ordinaria storia d'amore straordinariamente descritta. Ma è anche la società, con le sue leggi.
Vita, amore, società che sia, quello di Kechiche è uno sguardo inestricabilmente allacciato alla realtà.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 11/11/2013 17.45.00

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