Recensione metropolis (1927) regia di Fritz Lang Germania 1927
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Recensione metropolis (1927)

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locandina del film METROPOLIS (1927)

Immagine tratta dal film METROPOLIS (1927)

Immagine tratta dal film METROPOLIS (1927)

Immagine tratta dal film METROPOLIS (1927)

Immagine tratta dal film METROPOLIS (1927)

Immagine tratta dal film METROPOLIS (1927)
 

Ruote di ingranaggi, stantuffi, pistoni. Rumore, sudore, sofferenza.
Alienazione.
La disumanità dell'industrializzazione ed i suoi effetti, il conflitto storico tra padroni ed operai, il divario abissale tra i ricchi e i poveri.
L'idea di girare "Metropolis" il grande regista austriaco inizia a coltivarla di ritorno da un viaggio a New York, quale città meglio della grande mela poteva dare lo spunto per descrivere una città del futuro, fantastica, paurosamente efficace, disumana.
Non ci possono essere enormi ricchezze, gigantesche opere, sfarzo, splendore, se prima non c'è stato il lavoro di milioni di braccia, braccia che non hanno mai goduto di tali ricchezze.

Johann Fredersen è il padrone assoluto della città, dal suo quartier generale domina e controlla tutte le attività produttive svolte nei sotterranei della metropoli, un underground creato apposta per i lavoratori, sottoposti ad un regime di schiavitù che li riduce a pura forza lavoro, ad automi incapaci di reagire, tutto procede rigorosamente secondo i ritmi imposti dal comando.
A causare una frattura a questo ordine costituito è l'occasionale visita in superficie dai sotterranei di Maria una bella ragazza che vive con gli operai e si prende cura dei loro bambini; il figlio del ricco padrone, Freder, la nota e ne rimane folgorato, se ne innamora all'istante e sfidando le rigide regole imposte dal padre si introduce a cercarla nel sottosuolo. Lì scopre l'inumana condizione nella quale si trovano gli operai, sostituendosi ad uno di loro vive sulla propria pelle l'abiezione dei massacranti ritmi di lavoro che le macchine impongono agli uomini.
La permanenza nei sotterranei porta Freder presto a scoprire un livello ancora inferiore a quello dove lavorano gli operai, le catacombe; qui Maria riunisce clandestinamente i lavoratori per infondergli una moralità cristiana necessaria a sopportare la loro condizione.
Nel frattempo Fredersen è in contatto con il geniale scienziato Rotwang, inventore di un robot che nel progetto dovrà sostituire l'uomo nel lavoro. Ritenendo l'operato di Maria molto pericoloso, Fredersen ordina allo scienziato di rapirla così da trasferire le sue sembianze al robot per mandarla poi tra gli operai a controllarne gli eventuali propositi di ribellione; ma Rotwang ha un conto da saldare con Fredersen e programma il robot per incitare gli operai alla distruzione delle macchine della città sotterranea. Lo sdoppiamento viene presto scoperto da Freder che riunitosi con la vera Maria salva la città dalla catastrofe costringendo il padre-padrone ad una conciliazione con gli operai.

"Metropolis" è stato il film che per primo ha analizzato lo sfruttamento capitalistico dell'uomo attraverso l'evoluzione industriale e tecnologica; il mondo delle macchine che, come un enorme maglio, si appresta a stritolare le fragili ossa dell'uomo, Lang descrive tutto questo mettendo in campo una grande messa in scena cinematografica con scenari spettacolari per l'epoca che accompagnano l'evolversi degli eventi.
Come in altri film del regista austriaco anche qui si patisce l'ossessione dello scorrere del tempo, i ritmi della vita degli operai sono regolati da enormi orologi che stabiliscono i tempi di lavoro, la telecamera indugia minuti interminabili sulle schiene sudate degli operai mentre ripetono meccanicamente gli stessi gesti, è così trasmessa la disumanità dei carichi di lavoro a cui sono sottoposti questi uomini per il beneficio di un solo uomo. Perché tutto questo?
"Metropolis", oltre ad essere il risultato delle impressioni avute da Lang alla vista dei grattacieli di New York e della vita frenetica nelle strade, è anche il frutto di uno scritto della seconda moglie del regista, Thea Von Harbou, ispiratrice di molti lavori di inizio carriera del regista austriaco, scritto che affascinò particolarmente Lang pur nei suoi, se vogliamo, modesti contenuti; la rocambolesca storia d'amore dei due protagonisti ed il finale conciliatorio con la stretta di mano tra il padrone ed il capo operaio, sembrerebbero trasformare un film con un tema sociale di base così importante, quasi in una fiaba romantica a lieto fine. Ma non è proprio così.

Dall'uscita della pellicola ad oggi è quasi passato un secolo e il 2027 (anno in cui è ambientato il film) è alle porte, la tecnologia a fatto passi da gigante in nome del progresso e sono passati ormai diversi lustri da quando l'uomo ha abbandonato le terre da coltivare ed ha cominciato ad entrare nelle fabbriche, l'industrializzazione in tutto il mondo consacrava il potere del capitalismo regalando al mondo una figura nuova con una tuta blu che lo avrebbe per sempre contraddistinto: l'operaio delle fabbriche.
"Metropolis" ne descrive la condizione cento anni dopo, disumana, alienante, monotona, non molto distante da come era realmente prima della realizzazione del film, a cavallo tra la fine dell''800 e gli inizi del '900; l'assunto ideologico apparentemente approssimativo e superficiale è la straordinarietà della pellicola.

Fritz Lang quindi, in un'immaginaria metropoli del futuro, ricompone simbolicamente il conflitto tra i padroni e gli operai, tra i ricchi e i poveri; tra quelli che non sanno cosa fare con l'eccesso delle loro ricchezze a volte gettando senza criterio il frutto delle fatiche degli altri e quelli che distruggono le proprie vite in una fatica troppo grande per le loro forze perché un piccolo numero di persone possa godere d'un superfluo del tutto inutile a chi lo produce.

Una delle scene iniziali del film ci offre un'immagine emblematica: un gruppo di lavoratori a testa bassa disposti in riga in marcia verso gli ascensori che li porterà giù nelle varie postazioni di lavoro; l'analogia con i deportati costretti a marciare verso le camere a gas all'interno dei campi di sterminio appare evidente. Un presagio? O più semplicemente Lang ha voluto associare quell'incedere geometricamente perfetto e ritmato ai plotoni degli eserciti? Gli operai al pari dei soldati hanno subìto lo stesso elaborato processo di istupidimento dopo il quale non possono più fare a meno di obbedire ciecamente ad ogni loro superiore qualsiasi cosa egli comandi, non soltanto incondizionatamente ma addirittura per riflesso meccanico, è lo svuotamento totale della personalità, l'uomo trasformato in macchina priva di ogni volontà.

Queste masse, questo insieme di individui, uomini forti dei loro muscoli, abituati alla fatica ed al sacrificio, vivono gran parte della loro esistenza sottomessi ad un padrone che da solo dispone delle loro vite. Come è possibile?
Nella scena in cui Freder si precipita all'inseguimento di Maria nei sotterranei della metropoli assistiamo alle drammatiche conseguenze di un'esplosione causata dal malore di uno degli operai al lavoro che crolla incapace di sostenere il ritmo della macchina, l'onda d'urto uccide diversi operai e fa perdere i sensi a Freder, il quale, riavutosi, è vittima di allucinazioni, l'enorme macchinario sul quale stavano lavorando decine di operai si trasforma, nella mente dell'uomo, in una enorme statua che rappresenta il moloch l'antica divinità venerata dai fenici, nella quale bocca di fuoco dapprima vengono sacrificati gli schiavi egizi e poi, in massa, gli stessi operai dei sotterranei. Anche qui è impossibile non pensare al silenzioso incedere, ordinato, inesorabile, dei prigionieri dei campi di sterminio nel loro ultimo viaggio verso le camere a gas e di lì verso i forni crematori; il sistema, con le dovute proporzioni, è lo stesso per tutti coloro che vengono in qualche modo resi schiavi, imperniato sulla minaccia, sulla brutalità, sul terrore, viene di fatto cancellata la personalità e l'autostima di ogni individuo creando un abbrutimento ed un annichilimento della persona tale da impedire qualsiasi proposito di ribellione.

È a questo punto che a smuovere le masse deve pensarci qualcuno che questo annientamento della propria dignità non lo subisce, un leader carismatico in grado di scuotere queste coscienze sopite, un rivoluzionario; Fritz lang affida questo compito a Maria la quale cerca di convincere gli operai che l'unico modo per venir fuori dalla loro condizione è l'avvento di un mediatore in grado di mettere d'accordo tutti, ricchi e poveri, padroni e operai. Noi non sapremo mai se i sermoni di Maria avrebbero ottenuto lo scopo, la ragazza viene rapita dallo scienziato e a fomentare la rivolta sarà il robot con le sembianze della donna, ma l'impresa fallisce.

Il finale quindi restituisce in parte dignità agli operai-schiavi, non più anonimo gregge svuotato delle proprie coscienze ma un insieme di lavoratori finalmente mossi da uno dei sentimenti più nobili dell'uomo, quello della libertà; restituisce solo in parte dignità perché una rivolta gestita senza ordine ed organizzazione finisce sempre nel caos con il risultato di annullarsi da sola; senza l'intervento di Freder e Maria gli operai avrebbero finito con l'autodistruggersi, incuranti anche del destino dei loro figli.
La stretta di mano che chiude il sipario probabilmente vuole essere soltanto un buon auspicio, una speranza di giustizia tra le classi sociali, forse non c'è presunzione nel desiderare veramente che da mediatore tra il cervello e le mani debba esserci il cuore.

Gigantesco, imponente lo sforzo produttivo, effetti speciali quasi impensabili per l'epoca, modellini e scenografie a grandezza naturale, un anno e mezzo di lavorazione, più di trentamila comparse, ineccepibile dal punto di vista stilistico e soprattutto scenografico con richiami all'architettura dell'espressionismo e del futurismo, un monumento del cinema mondiale, criticato da grandi nomi come da sempre vengono criticate le opere d'arte.

Un operaio è stremato dalla fatica, crolla, un'esplosione. L'uomo giace a terra immobile, negli occhi di Freder l'orrore, quegli occhi stanno dicendo: "non si può morire per il lavoro". Era il 1927, oggi contiamo milioni di morti bianche.

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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 12/02/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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