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Provate ad immaginare una distesa di ghiaccio, immensa, dove l'unico suono che giunge all'orecchio è quello incessante del vento; il naso, semi congelato, non percepisce odori diversi da un unico, costante, profumo di gelo; lo sguardo, oltre l'orizzonte, trova lo stesso uguale orizzonte; qui, in uno dei posti più inospitali del mondo, ad un passo dal circolo polare artico, il regista americano Robert J. Flaherty, ex esploratore e grande appassionato della macchina da presa, decide di sopportare i rigori della natura pur di documentare la resistenza dell'essere umano di fronte alla forza degli elementi.
Dotato di un animo inquieto, costantemente in cerca di avventura, l'occasione per dar sfogo alle sue pulsioni gli viene offerta da una ditta di pellicciai francesi, la Revillon Freres, che proprio in quel periodo desiderava realizzare un film pubblicitario in qualche zona remota delle regioni artiche. Il regista scelse la baia di Hudson, luogo da lui visitato pochi anni prima, il popolo che avrebbe contribuito alla riuscita del progetto quello degli Inuit, il protagonista un uomo: Nanuk.
Il cinema nacque con lo scopo di documentare. Agli iniziali esperimenti con la moltiplicazione di scatti fotografici a consentire l'analisi del movimento seguirono, per merito dei fratelli Lumière e di Thomas A. Edison, evoluzioni che portarono le fotografie ad una cadenza di successione tale da rendere la riproduzione del movimento incredibilmente verosimile agli spettatori.
Ma si era ancora lontani dal cinema di finzione, la realtà non era mediata, i registi per esprimere ciò che era nella loro immaginazione non sentivano ancora l'esigenza - e forse non era nelle loro possibilità - di manipolarla, i film documentavano le cose così come realmente si svolgevano.
Appare evidente però che ci sia un confine tra realtà e finzione e che nel cinema non possano esistere queste due condizioni come valori assoluti; anche nel documentario, come nel film di finzione, la realtà è una realtà mediata, costruita, per quanto vuol apparire reale ciò che viene inquadrato è inevitabilmente orientato, selezionato.
Flaherty, in seguito all'esperienza di "Nanuk", cambiò rotta, scelse di far rivestire i panni dei personaggi dei suoi documentari ad attori, anche se non professionisti; essere se stessi davanti ad una macchina da presa non è cosa facile, soprattutto se il tuo universo è racchiuso tutto tra un igloo ed una caccia al tricheco o circoscritto dalle scogliere di un'inospitale isola irlandese (da qui la scelta di dare all'uomo di Aran, al contrario di Nanuk, il volto di un attore).
Quello che è impossibile non riconoscere a registi come Flaherty è di aver dato con il suo cinema, allo spettatore di quel periodo, la possibilità di esplorare luoghi a lui preclusi. L'occhio della telecamera faceva vivere emozioni prima di allora ignote, in pochi secondi venivano abolite quelle distanze che i miseri mezzi a disposizione in quell'epoca rendevano incolmabili. Era in atto un'evoluzione che stava portando da una semplice descrizione del materiale naturale ad una rielaborazione di tale materiale: "Nanook of the north" fu il lungometraggio che meglio rappresentò questa evoluzione.
Flaherty, con questa pellicola, passò dalla semplice descrizione dei fatti, tipica dei numerosi documentari dell'epoca, alla narrazione di tali fatti. In qualche modo il film, pur descrivendo le gesta quotidiane di un uomo del popolo dei ghiacci, ebbe una sua struttura narrativa e le imprese del grande cacciatore Nanuk assunsero le forme del racconto.
Sembra quasi inutile sottolineare che dietro un simile lavoro c'è una passione smodata ai limiti dell'impossibilità di controllarla. Flaherty, ancor prima di essere un regista, era un esploratore: nel 1912, durante un viaggio al seguito di Sir W. Mackenzie, era rimasto incantato dal popolo degli Inuit, dalla loro capacità di sopportare rigori della natura che pochi altri sarebbero riusciti a fare, tanto da abbozzare una grossolana versione del film che però andò completamente distrutta in un incendio.
Questa incontrollabile passione porta di nuovo il regista tra quelle terre nel 1920 dove inizia le riprese del suo primo lungometraggio in cui gli intenti documentaristici vengono sopravanzati da elementi di narrazione vera e propria. Il cacciatore Nanuk e la sua famiglia si trovano improvvisamente ad essere protagonisti di un film pur mantenendo, o meglio cercando di mantenere, una parvenza di naturalezza nello svolgimento delle azioni quotidiane. Il "racconto", dicevamo, descrive lo spirito di un popolo osservandolo nella vita di tutti i giorni.
Le prime immagini ci mostrano Nanuk con la sua famiglia raggiungere in canoa una stazione commerciale nella regione artica di Northern Ungava dove, per guadagnarsi qualcosa per vivere, vende pelli di volpe e di orso polare. Durante il viaggio di ritorno, a causa di un distacco dei ghiacci, Nanuk si dimostra molto abile nel pescare un salmone per sfamare la famiglia. L'esigenza di nutrirsi per sopravvivere a quelle temperature porta il nostro cacciatore a rischiare la propria vita cercando di arpionare un enorme tricheco, che dopo una terribile lotta diventerà carne da mangiare per diverse famiglie.
Arriva l'inverno e con esso il buio e la violenza degli elementi. Nanuk e la sua famiglia sono costretti a spostarsi per poter cacciare le foche, cosa resa indispensabile dalla necessità di nutrirsi e di riscaldarsi con la loro pelliccia. Flaherty ci fa assistere poi alla costruzione di un igloo con tanto di lastra di ghiaccio trasparente a fare da finestra (la sequenza è straordinaria), per far entrare la poca luce del giorno.
Catturata una foca Nanuk riposa le sue stanche membra in un giaciglio all'interno dell'igloo insieme ai suoi cari, nudi sotto le pelli degli animali salutano il faticoso giorno appena trascorso; uno nuovo, con tutto il suo carico di difficoltà, li sta già aspettando.
Va detto che alcune scene sono state adattate alla fiction. Diversamente dalla caccia al tricheco, resa ancora più drammatica in virtù della sua autenticità, la cattura della foca è chiaramente preparata: quando l'animale viene tirato fuori dal foro ricavato nel ghiaccio è già morto, ma sono peccati veniali se teniamo conto che per le riprese Flaherty è dovuto rimanere immobile a filmare ad una temperatura di 40 gradi sotto zero.
Oggi, in questo mondo di sepolcri imbiancati, di nonne la cui pelle è liscia come quella dei propri nipotini, di creme costose più di un Rolex ma che garantiscono eterna giovinezza, si fa un po' fatica ad osservare immagini di un mondo che forse anche là non c'è più: si entra nell'igloo, ci si tolgono i pesanti indumenti - scarponi, guanti, pellicce - e si va a dormire, con un piccolo fuoco a riscaldare l'ambiente, tutti insieme stretti stretti, genitori e figli, non ci si lava, e così al mattino ci si riveste appena svegliati e si va incontro ad un nuovo giorno.
A documentare la durezza di certe condizioni non ci sono solo i primi piani dei personaggi, volti scolpiti nella pietra, ma ci sono anche scene come quella della moglie di Nanuk che pulisce il viso del bambino con la propria saliva.
"Ho sentito un desiderio irrefrenabile di documentare le gesta quotidiane di questo popolo. Osservandoli è cresciuta in me un'ammirazione tale da togliermi ogni dubbio, dovevo raccontare agli altri quello che sapevo di loro".
Le riprese impegnarono non poco Flaherty e gli uomini della troupe, fu necessario un anno intero per concludere il lavoro più un altro inverno per il montaggio alla fine del quale il film venne finalmente presentato in America raggiungendo un notevole successo.
Nonostante le avversità e le difficoltà di un'esistenza dura, fatta di sacrifici e di stenti lottando quotidianamente per la sopravvivenza, ci piace immaginare la vita di Nanuk come una bella favola dove l'eroe protagonista è giovane e forte.
Ma le leggi della natura ignorano i sentimenti. Dopo l'uscita del film, durante una spedizione di caccia al cervo, Nanuk trovò la morte per denutrizione, il suo ghiaccio non gli aveva regalato cibo.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 02/12/2010 10.59.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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