Recensione nel tempio degli uomini talpa regia di Virgil Vogel USA 1956
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Recensione nel tempio degli uomini talpa (1956)

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locandina del film NEL TEMPIO DEGLI UOMINI TALPA

Immagine tratta dal film NEL TEMPIO DEGLI UOMINI TALPA

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Negli anni '50 un gruppo di studiosi, composto da quattro archeologi, coordinati dal dottor Roger Bentley (John Agar), durante alcuni scavi in Asia, nella zona sottostante il monte Cui Tara, scopre un'antica lastra di pietra e una vecchia lampada ad olio con incisi sopra frasi scritte in caratteri cuneiformi sumerici, risalenti a più di 4.500 anni fa.
Dalla decifrazione dell'antica scrittura si viene a scoprire che la dinastia Sharon, devota alla dea Ishtar all'epoca di Gilgamesh, dispersasi improvvisamente proprio nel periodo in cui era più in auge, è riuscita a sopravvivere al diluvio della versione sumerica, approdando con Sharon e il suo parentato, tramite un'imbarcazione, sulla cime del monte Cui Tara.

Incuriositi dalla grande scoperta e desiderosi di trovare i segni-prova del passaggio della dinastia Sharon sul monte, il gruppo di archeologi si organizza per la scalata della montagna.
Sulla vetta il gruppo trova i sobborghi abbandonati di una antica città sumerica e nel sotterraneo, aperto da un cedimento improvviso del terreno, il centro più importante di essa, stranamente rischiarato da grosse pietre luminose. Attraverso un'incisione su un monumento eretto a favore della dea Ishtar, scritto dallo stesso Sharon, i quattro scoprono che la famosa dinastia è effettivamente sopravvissuta al diluvio, scomparendo forse solo in seguito, per motivi ignoti.

Quando nei suoi aspetti più importanti la missione sembra essere giunta al termine, anche se al costo di immani fatiche e luttuosi dolori, si apre automaticamente da una roccia una strana porta da cui fuoriescono dei soldati con vestiti d'epoca, armati di una lancia. Con fare minaccioso i militi obbligano gli archeologi a seguirli.
I quattro vengono portati al cospetto del re e del sacerdote, capi supremi di una società evoluta ma un po' povera di risorse. Per ragioni di limitata produzione di derrate alimentari, la collettività non può superare le 150 unità, pena il sacrificio umano dei sovra più a favore di Ishtar.
Gli archeologi scoprono che gli eredi della dinastia di Sharon sono organizzati in modo schiavistico: un gruppo di albini, detentori del potere e sensibili alla luce, obbliga numerosi tenebriani, esseri dalle sembianze mostruose in parte umani in parte animali, a lavorare per loro, costringendoli ad estrarre dal terreno funghi commestibili, unico prodotto vegetale in grado di crescere in un luogo sotterraneo privo di sole.

Durante la permanenza nel regno il capo della spedizione, dottor Roger, si innamora della bella Adad (Cyntia Patrick) di origine europea, considerata dal sacerdote e dal re bastarda, non degna di fare lavori che non siano servili.
Il re la offre al dottor Roger in segno di ammirazione e stima; i quattro archeologi sono infatti venerati dai due governatori del regno perché considerati di origine divina, immortali, messaggeri di Ishtar, in virtù di una pila elettrica in loro possesso portata appresso per il viaggio. La luce del piccolo flash è in grado di ustionare gli albini e spaventare i Tenebriani.
Quando gli albini scopriranno negli archeologi comuni paure, ansie, la possibilità se aggrediti di morire, cercheranno di rubare la pila elettrica e sopprimerli ritenendoli normali mortali.

Riusciranno gli archeologi a favorire la ribellione degli schiavi contro il re e il sacerdote e a fuggire dal sotterraneo verso la luce? Avrà successo il tentativo dell'eroe del film, il dottor Roger, di salvare e portare con sé anche la bella e bionda Adad?

Il film prende ispirazione da alcune fantasiose teorie ottocentesche sulla composizione fisica meno conosciuta del pianeta e da numerosi miti, leggende, credenze religiose succedutesi in tempi diversi, che sostenevano l'esistenza in Mesopotamia di un mondo sotterraneo dove trovavano rifugio antiche popolazioni religiose e dinastie in pericolo di esistenza.
Il film, considerato ingiustamente di serie B, forse perché alcuni importanti critici sono stati poco attenti allo sviluppo narrativo più fotografico delle scene, è in realtà un'opera ben costruita, ricca di situazioni sceniche tese, curiose e coinvolgenti sia sul piano delle sorprese del significato simbolico in esse contenuto che su quello più estetico. Ne sono la prova le sequenze dei terremoti spesso dal senso ambiguo, che a volte si presentano come castigo degli dei, o il precipitare travolgente delle valanghe, reali e ben montate, in una cornice di montagne vere, oppure la scomparsa dei corpi umani rapiti dai tenebrani e trascinati vivi dentro il terreno sabbioso, la bruciatura dei corpi dei sacrificati alla dea esposti vivi alla luce che penetra dall'alto nel regno e, per finire, la grande profondità delle grotte che si chiudono all'improvviso per frane creando claustrofobia.

Il film, in bianco e nero, girato nel 1956 da Virgil Vogel, un regista non molto noto di cui si sa effettivamente poco, richiama per certe caratteristiche espresse dai quattro archeologi durante il loro itinerario, la questione del narcisismo patologico legato alla presunta superiorità della razza bianca nel mondo.
La scienza rappresentata dalla razza bianca, precisamente in questo caso dai componenti la spedizione, non ha come mira solo la ricostruzione storica di dinastie famose formatesi alcuni millenni prima, andate perdute non si sa come o perché, ma si arroga il diritto, alla prima occasione reale, di intervenire, con una morale autoritaria e un senso di giustizia rigido, nel sociale e nella cultura religiosa dell'epoca, nei pregiudizi e nei metodi economici di un vivere collettivo, quello dei discendenti di Sharon nel sotterraneo, che nel film appare ancora in buona parte ignoto nei suoi meccanismi più profondi.
Il gruppo bianco degli archeologi vuol cambiare le sorti di quella vita a propria immagine e consumo, finendo per cercare di punire, favorendone la scomparsa definitiva, tutto un mondo ritenuto arretrato, incivile.

Film reazionario e tradizionalista, conservatore e oscurantista, nonostante la difesa espressa da Vogel nella narrazione nei confronti del valore della verità storica e dell'importanza della liberazione dalla schiavitù, quest'ultima in questo caso incarnata dagli uomini-talpa, i tenebriani, prigionieri-lavoratori del re e del sacerdote governatori indiscussi del regno.
Vogel rigetta in toto le culture di un regno come quello di Sharon che ha fatto storia insieme a numerose altre dinastie del tutto simili, egli trascura il fatto che in esse erano e sono racchiuse anche le nostre origini più profonde, notoriamente radicate fino alla Mesopotamia.
Vogel vuol chiudere in fretta la partita con il sacro, ritenuto incompatibile con il pensiero scientifico, che allora era in fortissima evoluzione. Egli pensa che la scienza sia un degno sostituto o dissolutore indolore di millenni di storia dominati dal sacrificio del vero a favore della consacrazione della natura e del divino, ma finisce col fare i conti con le proprie contraddizioni più costitutive, fondamentali, non facilmente ricomponibili, generate dal suo inconscio arcaico, situato in una temporalità primaria, ancora troppo legato al fascino della tragedia antica, al sacrificio come espiazione della propria colpa per aver desiderato le donne del padre, e ai valori del sacro come grandiosità estetica e poetica della vita.

Nel film quindi c'è tutto Vogel, da un parte la scienza in cui crede, che rappresenta in un certo senso un legame trasparente con la sua coscienza, dall'altra le raffigurazioni liturgiche del sacro con tutti i suoi rituali più raffinati e coinvolgenti che lui si impegna a un certo punto del film a rimuovere anziché accettarne gli aspetti più suscettibili di una trasformazione non traumatica del loro senso.
Questa operazione filmica biografica legata indissolubilmente al pensiero del regista e autore Vogel, avrà conseguenze psichiche di tipo conflittuale tra il suo Io e l'Es compromettendone forse in seguito lo stile più letterario.

Il film non sembra appartenere a un genere preciso, univoco: oscilla, del tutto privo di ironia, tra la fantascienza e l'horror, la commedia e il mitologico, ma ha un valore d'archivio notevole perché è animato da uno spessore linguistico-fotografico che soddisfa lo sguardo fantascientifico del cinefilo, appaga la vista di ogni spettatore medio incuriosito dai cartelloni pubblicitari ben congeniati, ed è facilmente assimilabile da chiunque.

Forse questo film potrebbe diventare un cult se solo alcuni aspetti storici del racconto si avverassero in qualche punto della terra, come potrebbe accadere ad esempio con la scoperta di un mondo sotterraneo, magari un tempo popolato, o attualmente abitato da scimmie particolarmente intelligenti.
Chissà, tutto nel cinema è in un certo senso possibile, realizzabile, perché in fondo i film riflettono parti vere del mondo e dell'immaginifico umano.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 10/03/2011 16.26.00

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