Voto Visitatori: | 6,38 / 10 (21 voti) | Grafico | |
Ci vuole molto coraggio ed anche una dose non indifferente di passione politica, per riuscire a parlare della lunga e apparentemente infinita lotta del proprio popolo contro quello che, a tutti gli effetti, viene considerato invasore, senza cadere nella trappola della partigianeria.
Ci vuole coraggio e una forte coscienza civile, per descrivere un conflitto così radicato e violento come quello tra Palestina e Israele, provando faticosamente ad essere imparziale e cercando drasticamente di non prendere posizione su nessuna delle due parti in causa, sapendo, con questo, di sollevare accese polemiche e interminabili discussioni.
Il regista palestinese Hany Abu-Assad ci riesce con lo splendido "Paradise Now".
Ci riesce perfettamente perché fotografa obiettivamente e con assoluta puntualità le condizioni di un popolo, che da molti anni vive sotto il tallone dell'occupazione israeliana, diventando di volta in volta, vittima e carnefice, perseguitato e persecutore.
Ci riesce perché descrive la dimensione psicologica e le motivazioni che inducono dei giovani palestinesi a convertirsi alla causa terroristica, immolandosi per una ragione più grande di loro.
Paradise Now è un viaggio allucinato nelle menti di due giovani che cercano, con motivazioni diverse, di ovviare alla loro impotenza nei confronti della realtà, compiendo un tragico, crudele ed estremo gesto.
Kaled e Said, amici fin da bambini, sono due giovani Cisgiordani di venti anni, lavorano come meccanici presso la stessa povera officina che è, al tempo stesso, anche un po' sfasciacarrozze, a Nablus, una delle più grandi città della Palestina.
Nablus è la loro isola e il loro confine. Non hanno visto altro, oltre Nablus, di quella terra martoriata, dalla quale è difficile allontanarsi liberamente.
Kaled e Said sono amici nonostante abbiano una storia familiare molto diversa tra loro, anche se ugualmente tormentata.
Said è senza padre, ucciso dalle milizie palestinesi perché collaborazionista. Il padre di Kaled, invece, è invalido perché i soldati israeliani gli hanno tagliato una gamba per punizione (prima però gli hanno chiesto quale preferiva tenere, e lui ha scelto la sinistra). E Kaled si porta dietro la vergogna di quella umiliazione più che della crudeltà della tortura stessa. "Io me le sarei fatte tagliare tutte e due, pur di non essere umiliato", ripete spesso.
Per questo odiano Israele, perché gli brucia l'ingiustizia patita, perché non sono liberi in casa loro, perché sono giovani, idealisti e si vergognano della loro inadeguatezza.
Hanno una fede assoluta in Dio, un po' come tutti i musulmani e sono convinti (o sono stati convinti) che morire per una giusta causa sia il prezzo da pagare per la liberazione da un'oppressione che dura da troppo tempo.
E sono convinti, al tempo stesso, che la morte sia una ricompensa mistica e il salvacondotto per il paradiso (da cui il bellissimo titolo "Paradise Now" – "Paradiso ora", che può sottintendere sia il raggiungimento della vita eterna per chi si immola, che la conquista del paradiso terreno per il popolo palestinese).
Una sera, mentre tornano a casa dal lavoro, vengono avvicinati da Jamal, dirigente locale di una organizzazione per la liberazione della Palestina, che comunica loro di essere stati scelti per sacrificarsi alla causa del loro paese: il mattino successivo dovranno raggiungere Israele con le loro cinture fissate sul torace e imbottite di esplosivo e farsi saltare per aria a 15 minuti di distanza l'uno dall'altro, in una zona affollata di Tel Aviv.
Il sogno di shahada sarà così compiuto e la loro esperienza terrena conclusa, "con l'aiuto di Dio".
Kaled sembra entusiasta, Said un po' meno, anche perché si sta innamorando di una ragazza, Suha, figlia di un eroe della Resistenza palestinese, attivista dei diritti umani e pacifista convinta, sinceramente certa che le bombe e la violenza non risolvano assolutamente nulla.
Il rito della preparazione fisica e spirituale all'atto finale è terribile e angosciante. I due ragazzi vengono lavati, sbarbati, rifocillati, vestiti a nuovo e imbottiti di esplosivo, pronti per essere trasportati al di là del confine di Israele. Ma proprio quando sono sul punto di mettere in atto l’attentato si scopre che le cose non sono andate esattamente come sarebbero dovuto andare.
La missione è rimandata e i due ragazzi vengono richiamati indietro, in attesa di rimettere le cose a posto.
Fallito il piano, i due ragazzi si separano e Said, con la mente tormenta da mille dubbi, comincia a vagare intorno a Nablus, inutilmente cercato per tutto il giorno da Kaled. Ma quello che doveva essere un breve arco di tempo si trasforma invece in una pausa di riflessione fatta di paure e di esaltazione di ultime cene e professioni di fede, durante la quale ciascuno ha modo di rivedere le proprie decisioni: e quello (Kaled) che era assolutamente convinto della scelta di immolarsi per il suo popolo non è più sicuro di voler andare "incontro agli angeli che lo porteranno in Paradiso"; mentre il secondo (Said), che prima aveva qualche dubbio, si irrigidirà nella ricerca della shahada, anche per riscattare l'onta dell'antico tradimento del padre, nonostante Suha cerchi di dissuaderlo dalla sua follia suicida e di persuaderlo dell'inutilità del sacrificio.
La ricerca disperata di Kaled, si conclude su un autobus affollato di israeliani.
Poi un battito di ciglia, mentre scende un silenzio funereo e lo schermo si fa bianco, risparmiandoci la vista di una tragedia che non vorremmo vedere mai, e che Said non vedrà mai.
Girato per raccontarci una realtà che spesso i media ci costringono a vedere con le distorsioni dell’ideologia, il film è un viaggio allucinante e allucinato all'interno dei luoghi dove si (de)formano le menti di giovani, ragazzi e ragazze, pronti ad immolarsi per una causa più forte della vita stessa.
Il rancore li nutre, la rabbia li consuma, la religione li intontisce, la vedetta li istiga.
Ragazzi e ragazze vittime dell'umiliazione, inibiti dal senso di impotenza, storditi dal dolore, feriti quotidianamente nella loro dignità e da tutto ciò che una tragedia vissuta giorno dopo giorno, per lunghi anni, può realizzare.
A restare lungamente impressi nella memoria sono gli occhi di Said, quando sa di stare guardando per l'ultima volta la ragazza che sta imparando ad amare. Said non è nato kamikaze, non ha la vocazione del martirio, è un ragazzo come tanti, giovane, allegro, simpatico, un po' sbruffoncello, come è logico a 20 anni; è solo lo stato delle cose a farne un portatore di morte, perché alla morte è stato educato, perché in quelle situazioni "non esistono alternative al terrorismo"; perché vivere in quelle condizioni "è come essere già morti".
E così, a poco a poco entriamo nella logica assurda e normale di ragazzi disposti a morire insieme ai loro nemici, fino a quando non verranno riconosciuti gli stessi diritti al popolo palestinese.
Illuminante, a questo proposito, è la bellissima e terribile sequenza del rito preparatorio all'atto finale. Una sequenza mistica e densa di rituali religiosi, che unita alla quotidianità del mangiare un panino mentre si registra il messaggio di commiato alla vita, ne fanno un momento solenne e assurdamente irrazionale al tempo stesso.
Dubbi, paure, incertezze, tratti squisitamente umani emergono nelle convinzioni religiose e sociali di due poveri giovani, che tutto sono fuorché due superuomini determinati e decisi.
Due poveri ragazzi coinvolti, loro malgrado, in un ingranaggio più grande, che sembrano subire più che condividere.
Con questo film il regista palestinese affronta il dramma del suo popolo e ci fa addentrare nei meandri di una realtà che noi occidentali fatichiamo a capire e neppure lontanamente accettare, perché lontana dalla nostra cultura e dal nostro modo di intendere la vita e la morte.
Eppure è lì questa realtà, a due passi da noi, ed è molto difficile emettere giudizi senza conoscere profondamente le cause che portano una persona a convertirsi alla causa suicida.
Causa che molto spesso non è solo basata sul fondamentalismo religioso o sulle scelte personali. Perché non bisogna dimenticare - come dice lo stesso regista - che "l'occupazione ha creato i suicidi" e "quando le circostanze e l'ambiente che ci circonda diventano estremi, allora diventano estremi anche le nostre scelte".
Abu-Assad ha girato il film nei luoghi reali del conflitto, utilizzando attori palestinesi che si dimostrano estremamente convincenti nel ruolo delle vittime sacrificali del terrorismo suicida.
Ci troviamo così immersi all'interno della realtà palestinese, con i disagi creati dall'occupazione, con la vita quotidiana condizionata dalla oppressiva presenza militare: i controlli polizieschi ad ogni posto di blocco, l'atmosfera claustrofobica di una Nablus racchiusa in una stretta vallata di alte montagne presidiate dai soldati israeliani, che esercitano un costante controllo della vita sottostante.
Il film conserva nell'arco di tutto lo svolgimento una sua coerenza interna, anche per merito di una sceneggiatura che consente allo spettatore di calarsi nella vicenda e diventarne protagonista.
La regia sobria ed essenziale si concentra nel seguire gli eventi in modo obiettivo e ci invita a trarre le nostre conclusioni sul problema, sulla pratica degli attentati suicidi e in ultima analisi sul senso della vita.
Il film ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International per il coraggio dimostrato nell'affrontare l'argomento dal punto di vista degli attentatori kamikaze, non certo per esaltarne e legittimarne la scelta, bensì, parole di Abu-Assad: "per sfatare sia il mostro che il martire e puntare alla dimensione umana", convinto che, "finché non si arriverà a concedere gli stessi diritti ai palestinesi, ragazzi pronti al sacrificio si troveranno sempre".
Commenta la recensione di PARADISE NOW sul forum
Condividi recensione su Facebook
Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 15/03/2011 12.37.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
Ordine elenco: Data Media voti Commenti Alfabetico
in sala
archivio