Recensione red road regia di Andrea Arnold Gran Bretagna 2006
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Recensione red road (2006)

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locandina del film RED ROAD

Immagine tratta dal film RED ROAD

Immagine tratta dal film RED ROAD

Immagine tratta dal film RED ROAD

Immagine tratta dal film RED ROAD

Immagine tratta dal film RED ROAD
 

Teso ed incalzante, claustrofobico e dolente, "Red Road" è la discesa agli inferi nell'ossessione di una donna, arida nei sentimenti e svuotata della capacità di vivere compiutamente dalla lunga elaborazione di un lungo e doloroso momento della sua vita; ma è anche la cronaca drammatica dell'interminabile viaggio di una donna, verso la ricerca di una vendetta a lungo meditata, per dare libero sfogo al suo odio represso e pareggiare i conti con un passato per lei lacerante.
I durevoli silenzi, le "sporche" atmosfere, i colori sgranati, la lentezza della narrazione, le voyeuristiche scene di sesso esplicito, le squallide ambientazioni rendono perfettamente bene il disagio di una donna in carenza di affetti, ed inducono lo spettatore in un lungo gioco di disorientamento perturbante, che lo porta ad accomunare vittime e carnefici come elementi di una stessa sconfitta, che unisce più che divide.

Girato dalla regista scozzese esordiente Andrea Arnold, "Red Road" è il primo lungometraggio di una trilogia denominata "The Advantage Party", un progetto britannico che prevede la realizzazione di tre film di tre registi scozzesi esordienti, interpretati dallo stesso gruppo di attori che recitano sempre il medesimo ruolo, con l'unico vincolo di raccontare lo squallore delle periferie di tre città scozzesi, con la stessa semplicità spartana di un film alla "Dogma 95" del danese Lars Von Trier.
Alla non più giovanissima Arnold è toccato il compito di rompere il ghiaccio, e lo ha fatto ambientando la sua opera in un quartiere desolato e desolante della periferia di Glasgow.
La sua fatica è stata facilitata dagli ottimi interpreti Kate Dickie e Tony Curran, entrambi di estrazione televisiva, ma bravissimi e coinvolgenti come pochi: anzi è mancato poco che la Dickie, a Cannes 2006 (dove il film è stato presentato in concorso vincendo il premio della Giuria) non vincesse la Palma d'oro come miglior interprete femminile.

Red Road - la Strada Rossa - è una strada della periferia di una Glasgow decadente e post-industriale, una delle tante strade squallide e alienanti come lo possono essere solo le strade periferiche delle grandi città, fiancheggiate da imponenti palazzoni, scarni e anonimi come la gente che li abita: ragazzi a rischio, piccoli spacciatori, qualche prostituta, vecchie solitudini.
Jackie è una donna ancora giovane, ma sfiorita e triste, una donna qualunque, taciturna e solitaria, con la vera al dito ma dalla vita da single, trascorsa tra frettolosi e occasionali rapporti sessuali, squallidi e privi di sentimento, e tanta triste solitudine.
Lavora come turnista operatrice in un centro di videosorveglianza a circuito chiuso, collegato con la polizia, con il compito di tenere sotto l'occhio delle telecamere una piccola parte della periferia malfamata della città di Glasgow. Una sorta di "grande fratello" orwelliano.
Una vita, la sua, disillusa e priva di emozioni, passata davanti ad un monitor ad esplorare malinconicamente le esistenze degli altri, per prevenire situazioni anomale e vigilare sulla sicurezza di quella piccola e variegata umanità, strapazzata dalla miseria e offesa dalle ingiustizie sociali; fino a quando un giorno, per caso, tra i tanti volti anonimi che passano sul suo schermo, Jackie riconosce il volto di un uomo che pensava di non rivere mai più e che mai più avrebbe voluto rivedere.
Quel volto e quell'uomo risvegliano in lei dolorosi ricordi, che non è mai riuscita a cancellare dalla sua memoria e che continuano a condizionarle la vita. Ed è a questo punto che il film, come un lungo gioco disorientante, acquista tutta un'altra dimensione, e l'apparente inconsistenza che ha caratterizzato fin qui l'intreccio narrativo, assume risvolti inquietanti e ancor più problematici, suscitando nello spettatore uno sfumato senso di malessere ansiogeno.

Non si riescono a percepire fino in fondo le motivazioni che spingono Jackie a rimanere ossessionata da Clayde (così, apprendiamo, si chiama l'uomo) nè qual è il segreto per il quale l'unico scopo della sua vita diventa quello di entrare prepotentemente nella vita dell'uomo.
Prende a seguirlo sui monitor, a pedinarlo nel suo girovagare per il quartiere, comincia ad indagare e ad osservare la sua misera vita, spesa tra un pub fumoso e un appartamento fatiscente al 24° piano di Red Road, tenterà di avvicinarlo facendogli credere di essere attratta da lui, spingendosi fino al punto di sedurlo e ad avere con lui un rapporto sessuale del tutto consenziente per poi accusarlo di stupro (con un crudele e masochistico stratagemma) e consumare così una dolorosa vendetta nei confronti di colui che le ha tragicamente e luttuosamente segnato la vita.
Perchè Clayde, uscito in anticipo di prigione per buona condotta, è il pirata della strada che sei anni addietro, involontariamente, l'ha costretta a smettere di vivere e per il quale ha accumulato, nel corso degli anni, un odio rancoroso che ha un bisogno disperato di essere risolto.
Ma Jackie non può supporre che la sua umanità negata (l'umanità che segna il confine tra un essere ragionante e un essere istintuale) la porterà a liberarsi del suo lato oscuro e la condurrà verso una scelta inimmaginabile, che può apparire inspiegabile, ma che a ragionarci dovrebbe essere alla base dei comportamenti della vita umana raziocinante.
Vittima e carnefice diventano così un tutt'uno, uniti da quel senso comune di appartenenza alla sconfitta che induce, però, a tutte quelle infinite possibilità di riscatto che la vita, a volte, può e sa offrire.

Emotivamente violento, visivamente disturbante, intenso e doloroso, "Red Road" è un dramma che sfocia nel thriller, dallo scarno minimalismo e dalla voluta sciatteria, che contribuiscono a renderlo ancora più luttoso; l'atmosfera voyeuristica che si respira rende la storia narrata ancora più inquietante e comunica allo spettatore una sensazione di malessere e una diffusa impressione di disagio, privati come siamo della nostra sfera privata dall'occhio elettronico delle infinite telecamere che da infiniti punti ci spiano e ci controllano ossessivamente, quasi morbosamente, violando l'intimità delle nostre azioni e dei nostri comportamenti, il tutto mascherato dal nobile intento di voler salvaguarda la sicurezza dei cittadini.
Gli ambienti urbani, poveri e degradati, gli insistiti primi piani (specie sul volto spigoloso della protagonista), l'uso minimale dei dialoghi, la scena di sesso, cruda, realistica, ravvicinata, consumata nella semioscurità della camera di Clayde, la fotografia sgranata e giocata maggiormente sui colori del blu e del rosso, la colonna sonora ossessiva e quasi ipnotica, forniscono un quadro oppressivo che aumenta l'interesse per il film, che travalica quello per la trama (banalmente la storia di una donna e della sua fredda vendetta) per riversarsi soprattutto sul psicodramma che attanaglia i personaggi, soffocati da reconditi sensi di colpa e prigionieri di un dolore mai elaborato.
La regia, sorprendente, non è mai asettica o distaccata, ma partecipa, quasi in uno slancio di simbiosi emozionale, a questo viaggio verso l'inferno e ritorno, in modo a volte un po' elementare, ma sempre efficace ed emozionalmente notevole, riuscendo a tradurre visivamente tutte le sfumature che agitano l'animo dei protagonisti e tutte le sottili psicologie che sono alla base delle loro azioni.
Un film che non lascia indifferenti e che rimane a lungo nelle memorie degli spettatori, nonostante un "irritante" finale un po' troppo affrettato e buonista, che emana un vago sapore di déjà vu

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 09/06/2008

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