Recensione still life (2013) regia di Uberto Pasolini Gran Bretagna 2013
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Recensione still life (2013)

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locandina del film STILL LIFE (2013)

Immagine tratta dal film STILL LIFE (2013)

Immagine tratta dal film STILL LIFE (2013)

Immagine tratta dal film STILL LIFE (2013)

Immagine tratta dal film STILL LIFE (2013)

Immagine tratta dal film STILL LIFE (2013)
 

Uberto Pasolini non ha molti film al suo attivo come regista, solamente due: l'esordio "Machan" e appunto "Still life" presentato alla 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, dove ha conseguito il premio come migliore regia. E' più nota la sua attività di produttore che ha avuto il suo apice di successo mondiale, di critica e di pubblico, con "Full Monty" di Peter Cattaneo. Una serie numerosa di premi, ed inoltre arricchiti dalle nomination agli Oscar nelle categorie importanti: film, regia e sceneggiatura originale.
Il suo esordio dietro la macchina da presa con "Machan" riprendeva a grandi linee la storia di "Full Monty", solo che gli squattrinati organizzati era stati trasferiti dall'Inghilterra al contesto povero dello Sri Lanka. Riuscire a costituire una squadra fittizia di pallamano per poter ottenere un visto per l'Europa e una volta giunti sul posto darsi alla clandestinità nelle varie nazioni europee. Come detto, pur avendo chiaramente delle caratteristiche derivative con "Full Monty", la pellicola era comunque di fattura più che dignitosa.

John May è un impiegato del comune incaricato di ricercare eventuali parenti di persone che sono morte da sole. Se non riuscirà nell'intento dovrà provvedere alla sepoltura, organizzando il funerale, e scrivendo un elogio. Un lavoro molto accurato che non è molto gradito ai suoi superiori, viste le spese che il comune deve sostenere. Infatti durante un periodo di tagli al personale, il suo posto è in cima alla lista e prima del suo trasferimento vuole giungere al termine del suo ultimo compito.
"Still life" rispetto alle due pellicole citate in precedenza non gioca le sue carte sul versante dell'ironia pura. Certamente non è un elemento di cui questa pellicola è carente, tuttavia l'approccio che utilizza il regista italo-inglese è molto più serio, perché "Still life" in fondo parla della morte o almeno di un certo modo di morire: morire da soli.
Pasolini ha sottolineato alle conferenze stampa e nelle varie interviste rilasciate alla Mostra del Cinema di Venezia il fenomeno di questo sensibile aumento di persone che vengono trovate senza vita all'interno dei propri appartamenti dopo giorni o settimane dal decesso. Nessuno si accorge di nulla, nessuno si fa delle domande di questa mancanza, tanto meno in molti casi gli stessi parenti, quasi a dimostrare uno scollamento evidente del tessuto familiare, presente nella maggior parte dei casi all'interno delle civiltà occidentali. Esemplificativa in questo senso è la telefonata verso un signore chiamato Radley, che non vuole saperne di presenziare al funerale (pagato dallo Stato) di suo padre che ha come cognome Radulovitz. Per rancore o per vergogna di un passato da immigrato o figlio di immigrati, si è portati quasi a rinnegare le proprie origini e di conseguenza molti tessuti familiari diventano più deboli fino ad essere recisi.
Molte volte all'interno della cronaca dei quotidiani capita di leggere notizie di questo tipo e non succede una volta ogni tanto. Può sembrare assurdo, ma non è certo una scoperta di oggi che all'interno di condomini grandi come alveari umani accadano fatti del genere. La gente muore e nessuno si accorge di nulla come se all'interno di tali agglomerati le persone siano invisibili l'uno dall'altro. Sia in caso di presenza o in caso di assenza.
Emblematico è tutta la sequenza iniziale di questo film con la celebrazione di un funerale. L'elogio un po' stentato del sacerdote, una musica di sottofondo, solo una persona presente che osserva come tutto vada per il verso giusto. Questa stessa persona la vediamo solitaria seguire il feretro fino alla sua sepoltura.
John May, questo è il suo nome, è un semplice impiegato del comune a cui viene affidato l'incarico della ricerca di parenti proprio nei casi spiegati in precedenza, ma nella maggior parte delle volte scopre che o non ci sono parenti stretti o amici del defunto rintracciabili o che quest'ultimi non possono e soprattutto non vogliono avere nulla a che fare con tali persone. Il comune si sobbarca la spesa per il funerale che John May prepara nei più piccoli particolari.
"Still life" è costruito fondamentalmente su questo personaggio con cui è facile avere una forte empatia grazie alla straordinaria interpretazione di Eddie Marsan, ottimo caratterista del cinema inglese, dal viso riconoscibilissimo e particolare, che ha avuto, insieme allo stesso Pasolini alla proiezione in Sala Grande circa dieci minuti di standing ovation, a dimostrazione dell'ottimo lavoro effettuato e dall'emozioni che ha saputo suscitare questo singolare personaggio.

Ad un primo sguardo John May appare come il classico piccolo burocrate, estremamente metodico nei gesti e nelle parole. Basta dare un'occhiata al suo quotidiano, con una casa arredata in maniera molto spartana ed ordinatissima, il suo ufficio che sembra un'appendice del suo appartamento in cui nulla deve essere fuori posto. Misurato anche nel camminare, sempre attento a guardare a destra e sinistra prima di attraversare una strada deserta.
Dietro però questa apparenza da grigio e freddo burocrate, John May è maniacale nel suo lavoro perché ci mette cuore e anima. Si accolla il compito di rintracciare persone vicine, cerca di convincerle con maniere gentili a partecipare alle esequie e se non ci riesce entra, non abusivamente in quanto fa parte del suo lavoro, nelle case di queste persone dimenticate e indaga sulla loro vita cercando di avere un minimo di conoscenza sui loro gusti e sulle loro passioni e specialmente cercando di scoprire chi erano veramente. Attraverso la scoperta di piccoli particolari sparsi riesce a farsi un'idea per poterla tradurre in esequie funebri appropriate, magari accompagnate dalla loro musica preferita
Se si vuole dare una definizione a John May forse potrebbe essere quella di un Caronte dolce, un traghettatore di anime perdute nell'aldilà, attraverso una semplice cerimonia e una degna sepoltura capace di restituire un minimo di dignità ad una persona che nella vita terrena si era vista dimenticata da tutto e tutti. Un lavoro scrupoloso a cui tiene tantissimo tanto da comporre un personale album fotografico di tutte queste persone al quale ha dato un contributo affinché, nei limiti del possibile, sia presente una piccola memoria.
Un servizio svolto con passione pur sapendo di non ricevere nulla in cambio oltre la propria gratificazione personale e tuttavia che mal si sposa con mentalità contorte e quelle sì veramente burocratiche nel senso deleterio del termine che osservano tutto questo come uno spreco di risorse e di soldi, come se la restituzione di un po' dignità abbia una valutazione di mercato.
Al contrario di John May, le sfere alte considerano tale servizio come un ramo secco che non produce entrate e deve essere tagliato per contenere le spese, con la conseguenza del taglio dell'ufficio di John che apprende a malincuore della decisione presa, ma ugualmente deciso a seguire il suo ultimo caso per il quale gli viene concessa una proroga.

Da questo punto in poi c'è la presenza di spoiler.

Quest'ultimo caso, un uomo trovato morto nel suo appartamento di nome William Stoke, è diverso dai precedenti. Il film di Pasolini compie un passo in avanti trasferendo John May nella coscienza sporca collettiva legata all'indifferenza. John May è un uomo solitario e senza legami, dall'esistenza vuota ad esclusione della propria sfera professionale a cui dedica anima e corpo, ma il caso di William Stoke lo scuote profondamente perché all'improvviso si ritrova dall'altra parte della barricata: quell'uomo abitava nel suo stesso condominio, aveva le finestre del proprio appartamento davanti alle sue ed in un certo senso John May si sente colpevole di quella morte. William Stoke diventa un caso di coscienza personale.
E' sempre stato un uomo votato al proprio lavoro, al servizio della morte, ma senza un orizzonte verso la vita. La sua stessa esistenza solitaria, la sua chiusura verso il mondo esterno all'infuori della sfera lavorativa apparteneva alle tante concause della morte di William Stoke. Non conosce nessuno, non ha particolari interessi al di fuori del lavoro. La sua vita sono le quattro mura dell'ufficio e le quattro mura del suo appartamento. Una chiusura che gli ha impedito di conoscere altre persone, magari anche quel William Stoke di cui, se avesse saputo dei suoi disagi, avrebbe potuto avere la possibilità di evitarne la morte.
Quest'ultimo incarico che vuole portare a termine a tutti i costi vede moltiplicare i suoi sforzi. Si allontana più volte dal suo ufficio ed il suo lavoro si trasforma in qualcosa di diverso nel suo modus operandi. Non pone più l'apparecchio telefonico fra sé e le altre persone, non sono più sufficienti gli oggetti e i ricordi personali per costruire il ritratto di un individuo, vuole conoscere direttamente le persone che lo frequentavano, convincendoli a venire al funerale.
In questo sua investigazione che diviene soprattutto un viaggio formativo personale, John May conosce William Stoke, persona irascibile dal carattere impetuoso, non certo uno stinco di santo. Attraverso amici e conoscenti riesce a farsi un ritratto ben definito di William ed inoltre rintraccia con successo l'unico parente diretto, cioè la figlia trentenne che non aveva notizie di suo padre da anni e solo da John apprende il suo decesso.
La conoscenza con Kelly sembra un segno del destino. Appare subito evidente che al pari di John, Kelly sia una persona sola che si dedica alla cura dei cani abbandonati in un canile presso cui lavora. Fra loro due scocca una scintilla d'intesa che fa presagire oltre un semplice incontro di carattere professionale. Kelly, dapprima riluttante, si lascia convincere dalle parole dolci e dal carattere mite di John a presenziare al funerale del padre, oltre la cerchia stretta delle persone che frequentava in tempi passati e recenti. Finalmente John è riuscito nell'intento di organizzare dopo molto tempo un funerale in cui l'unica persona presente non sia solo lui stesso.
Non solo, è avvertibile un cambio di atteggiamento dopo la conoscenza con Kelly, il suo modo di fare è meno metodico e controllato, sia nella gestualità e anche nel vestire, quest'ultimo molto più casual.
Ma per un uomo che in un certo senso ha dedicato la propria vita ai morti, quello stesso destino che gli aveva offerto l'opportunità di un cambiamento profondo, si rivela crudelmente beffardo, come se la Morte stessa, in un accenno di gelosia, non tollerasse questa inversione di tendenza. Infatti in uno dei rari momenti di disattenzione, sicuramente un po' svagato, attraversa la strada senza controllare e viene investito da un autobus che lo uccide sul colpo.

E' un momento scioccante, sorprendente e inaspettato che lascia molta amarezza per questo personaggio che, come detto, riesce ad entrare in profonda empatia con lo spettatore.
Pasolini nell'ultima sequenza narra parallelamente il funerale di William Stoke, circondato da parenti e conoscenti e la mesta cerimonia di John May con un feretro solitario, accompagnato dai soli inservienti incaricati di scavare la tomba in quello stesso cimitero che John stesso aveva scelto per sé come luogo di estremo riposo, vicino a quegli amici mai conosciuti a cui aveva contribuito a dare una cerimonia funebre dignitosa. Bello il gioco di sguardi fugaci di Kelly nel vedere quella tomba (di John) senza nessuno intorno, forse un presentimento, ma insieme alle altre persone convenute al funerale di William si allontana verso l'uscita.
John May muore da solo e nessuno ha partecipato al suo funerale.
Bellissima e ricca di poesia nella sua semplicità è l'immagine finale del film. Davanti alla tomba di John May si radunano, William Stoke per primo, tutti coloro a cui John aveva dato se stesso per preparare la loro cerimonia. In silenzio ed in raccoglimento porgono l'estremo ringraziamento verso quel piccolo uomo che in un certo senso li aveva aiutati.
In se può sembrare un finale leggermente retorico, mirato a cercare l'emozione forte (che la provoca), tuttavia una scena del genere controbilancia tutta l'amarezza dell'inaspettata morte di John e lo sconforto per quel funerale solitario senza un cane che lo accompagni. Per un personaggio che non presentava ombre, anzi un uomo mite e buono, sarebbe stato francamente troppo ed in fondo è meglio così.

Al suo secondo film Pasolini mostra una notevole maturità. Se "Machan" era giocato molto su una struttura molto simile al successo planetario di "Full Monty", quindi più o meno giocato sul sicuro, "Still life" è un film molto diverso, costruito principalmente sul suo protagonista John May e non sulla coralità di più interpreti. Il carattere di John May/Eddie Marsan influenza profondamente anche lo stile equilibrato e misurato del film, senza una tonalità fuori posto. La fotografia dai colori freddi, tendenti al grigio, in qualche misura inganna, perché la pellicola è tutt'altro che emotivamente fredda. Contiene un cuore, come la conteneva il "Vivere" di Akira Kurosawa. Eddie Marsan sicuramente sembra la reincarnazione caratteriale del Takashi Shimura di quel film e accennare un paragone con quel capolavoro, seppur minimo, non è irriverente.

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 12/12/2013 15.19.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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