Recensione tehroun regia di Nader T. Homayoun Francia, Iran 2010
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Recensione tehroun (2010)

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locandina del film TEHROUN

Immagine tratta dal film TEHROUN

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Immagine tratta dal film TEHROUN

Immagine tratta dal film TEHROUN
 

Teheran. Ibrahim, Fatah e Madjid vivono di espedienti in un sobborgo periferico della città. Ibrahim chiede l'elemosina ai passanti, portando con sè un bambino preso in affitto per poterli meglio impietosire. In realtà è solamente in cerca di lavoro e ha una moglie incinta che, da un piccolo villaggio a sud della capitale, lo raggiunge in città dove ne scopre le reali condizioni. Un giorno però il bambino viene rapito da una giovane prostituta e la vicenda, dai tratti inizialmente neorealisti (il bambino strumento unico di lavoro come la bicicletta di De Sica), assume i colori del noir, trascinando i protagonisti nella spirale del dramma.

Filtra in modi sempre diversi e originali, tra le maglie della censura, il dissenso iraniano; dalle ipnotiche animazioni della Satrapi ai recenti Donne senza uomini della Neshat e I gatti persiani dell'esiliato Ghobadi, girato in pochi giorni in clandestinità, fino a quest'ultimo Tehroun, primo lungometraggio del franco-iraniano Nader T. Homayoun, vincitore della settimana della critica a Venezia.

Sono di lungo corso in realtà le difficoltà dei registi iraniani e della loro libertà di espressione. Già prima della rivoluzione e sin dagli anni '50 la commissione cultura adottava norme molto severe per la produzione e distribuzione, ironicamente molto simili al codice Hayes in vigore negli Stati Uniti; in sostanza le pellicole non dovevano in alcun modo diffondere visioni poco edificanti del paese o mostrarne contraddizioni e debolezze, per evitare il rischio di intaccarne la moralità ed i suoi fondamenti religiosi.
Oggi la situazione è, se possibile, ulteriormente peggiorata.

Costretti a trovare rifugio in Europa, con la Francia prima terra d'adozione, e a patire la mancata distribuzione in patria sono anche autori classici come Kiarostami, oltre a video-artisti come Rokhshad Nourdeh fino all'ultimo eclatante caso di Jafar Panahi, Leone d'oro 2000 a Venezia con lo splendido Il cerchio, arrestato a marzo insieme al collega Mohammad Rasoulof per aver prestato la sua cinepresa alla documentazione delle recenti contestazioni di piazza al governo.

Homayoun sceglie per Tehroun una strada completamente diversa dai suoi colleghi, rifuggendo la narrazione delle specificità che un po' avevano ingessato la recente produzione del suo paese, per dare vita a un film apolide e dal respiro internazionale, a dimostrazione di come, nonostante la propaganda del regime, Teheran sia una metropoli complessa e tentacolare come tutte le altre.

Potrebbe essere verosimilmente ambientato in qualsiasi grande città questo film, da Marsiglia a Napoli, da Casablanca a Mosca, non è certo la parvenza di controllo totale che il regime iraniano tenta di dare ad arginare la presenza di sacche di malessere, illegalità e realtà criminali profondamente innervate nel tessuto sociale.

Non basta quindi un velo a scongiurare il fenomeno della prostituzione, non una porta chiusa o i divieti a evitare festini a base di droga, non l'apparenza di normali esercizi commerciali a nascondere attività criminali e traffici illeciti; ed è proprio il più odioso e immorale di questi, il traffico di bambini a scopo di accattonaggio e di lucro, a venire evidenziato nel film, senza alcuna sorta di concessione al rimorso.
L'emarginazione e la stratificazione sociale, ci suggerisce il regista, sono orizzontali rispetto al paese e alla religione, e il grado di abiezione che una società può raggiungere è figlio delle condizioni socio-economiche della sua popolazione.

Un film di denuncia molto efficace quindi, al di là della storia narrata, quasi pretestuale, in cui il protagonista dovrà prestarsi a compromessi sempre maggiori per tentare di riscattare il debito legato al furto del bambino, continua e inconsapevole moneta di scambio.
Ad accompagnarlo in questa lenta discesa saranno tutti i personaggi tecnicamente positivi, risucchiati nel vortice della disperazione, dalla prostituta alla moglie fino al giovane e ingenuo Madjid, tutti costretti a scelte immorali, imputabili non ad una loro predisposizione al crimine bensì semplicemente agli eventi e alla condizione di indigenza.

Molto originale il drammatico finale girato in campo lungo, quasi a sottolineare un distaccato fatalismo dalla vicenda e dalla sua inevitabile conclusione.

Girata in digitale e con attori non professionisti per evitare in parte la censura, come era facilmente immaginabile, non è piaciuta alle autorità iraniane questa istantanea livida della capitale, non a caso chiamata con il gergale Tehroun, affrescata in patria come culla dell'ortodossia e qui messa a nudo nei suoi lati più sordidi e disperati

Palesemente osteggiata com'è, impossibile che la pellicola trovi visibilità in patria, altrettanto difficile che esca nei normali circuiti di distribuzione, possiamo solo sperare che riceva l'accoglienza che merita, come sta facendo, nei vari festival in cui viene presentato.
Perché il cinema e l'arte in generale siano veicolo di democrazia è fondamentale che ogni voce dissonante abbia risonanza, per scardinare dal basso, in modo più efficace di embarghi o ogni tipo di azione miope e eterodiretta, il muro del silenzio.

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Recensione a cura di Lot - aggiornata al 10/05/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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