Recensione terrore nello spazio regia di Mario Bava Italia 1965
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Recensione terrore nello spazio (1965)

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locandina del film TERRORE NELLO SPAZIO

Immagine tratta dal film TERRORE NELLO SPAZIO

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In una galassia sconosciuta due astronavi, Argos e Galliot, compiono alcuni giri di ricognizione intorno al pianeta Aura per individuare la zona di atterraggio più conveniente. La luce nel sistema solare del pianeta sta spegnendosi, condannando Aura al buio eterno.
Le due navi spaziali sono guidate sul pianeta morente da un segnale radio costante, che fa supporre l'esistenza di un mondo intelligente. Il comandante della missione è Mark Markary (Barry Sullivan), il suo equipaggio è composto da diciotto membri, di cui sedici dalle fisionomie simili a quelle dei terrestri di sesso maschile, e le altre due quasi identiche agli esseri umani di sesso femminile; le due astronavi provengono da un mondo ignoto, tecnologicamente molto più evoluto della Terra.
Alla sesta orbita intorno al pianeta, inaspettatamente Argos viene risucchiata verso il centro di Aura, spinta da una forza di gravità incontrollabile, non prevista dai calcoli effettuati. Un po' prima dell'impatto la forza di caduta cessa consentendo alla nave un morbido atterraggio; quasi simultaneamente i componenti dell'equipaggio vengono colpiti da una strana forma di follia, passeggera ma dagli effetti drammatici, che sembra la premonizione di qualcosa di più grave.
Il comandante Mark, l'unico dell'equipaggio che appare mentalmente integro, viene aggredito inspiegabilmente dal suo stesso personale di bordo. Nella violenta colluttazione Mark ottiene la meglio ripristinando l'ordine.
Anche nell'altra astronave, Galliot, atterrata su Aura allo stesso modo della Argos, accadono fatti misteriosi: una forza ignota agisce sulla psiche degli astronauti tanto da costringere qualcuno ad uccidere.

Successivamente gli abitanti del pianeta Aura, che non sono visibili agli spettatori - perché percepibili solo a certe condizioni, vale a dire in una situazione spaziale particolare tra gli estremi di uno spettro luminoso insolito composto da frequenze che gli occhi dei componenti dei due equipaggi non riescono a percepire - entrano nei corpi degli astronauti morti rianimandoli.
I cosidetti aurani cercano di impossessarsi delle due astronavi e raggiungere il pianeta da cui proviene l'equipaggio, cosa che consentirebbe loro la salvezza, cioè il godimento di un sole duraturo in grado di fornire una luce stabile e intensa.

Il film solleva la questione, per certi versi drammatica, dei numerosi cambiamenti che avvengono all'interno dell'universo, di come ad esempio anche la vita dei sistemi solari abitati possa aver fine, incamminandosi verso un declino irreversibile della luce, verso un buio mortale, inevitabile, causato dall'esaurimento dell'energia da fusione nucleare creata dal noto processo fisico atomico che caratterizza i soli-stella intorno ai quali orbitano tutti i pianeti.
E' un dramma quello sollevato dal film che, se si presuppone l'esistenza nelle galassie di diversi pianeti abitati, tende per forza di cose a sfociare in tragedia, costringendo alcuni abitanti dei pianeti interessati dalla fine del sole, in particolare quelli dotati di una tecnologia avanzata, a una ricerca disperata di altri mondi, con lunghi e faticosi viaggi che possono estendersi a livello di diverse galassie.
La pellicola pone anche il problema della complessità visiva della materia, della impossibilità per la vista di ciascuno di cogliere oggetti situati su un altro spettro luminoso che può risultare del tutto incommensurabile con quello già noto, ormai abituale, dando alla ricerca spaziale nuovi orizzonti di indagine.
Sono queste due tematiche tipicamente legate al mondo della fantascienza, ma esse ossessionano da tempo anche gli appassionati del paranormale e della fisica più audace e ipotetica creando un dibattito che tende, tramite i media, ad allargare l'interesse per l'universo e per ogni forma di aldilà che si mostra con qualche dettaglio tra le fenditure fisiche-visive della materia comunemente percepita.

Questi argomenti sembrano a volte sul punto di entrare culturalmente in un campo d'indagine particolare, situato tra la scienza e la filosofia, ma i loro contenuti, seppur affascinanti, risultano attualmente distanti da ogni possibile aggancio con realtà di studio dotate di sbocchi pratici, qualcosa cioè in grado di consentire un allargamento dell'esperienza vissuta, percependo dimensioni della materia "altre", ad esempio quelle testimoniate e supposte da numerosi ricercatori nella ricca letteratura sugli UFO e sul paranormale. Ma le teorie che dovrebbero sostenere certi argomenti appaiono di difficile collocazione e continuano quindi ad oscillare tra scientismo, scienza, filosofia, paranormale.

Mario Bava, con un budget molto modesto, riesce a realizzare un film di fantascienza che aspira, oggi, a divenire un cult, sia per l'originalità filmica della sceneggiatura cui ha collaborato anche Alberto Bevilacqua (ispirata dal libro "Una notte di 21 ore" di Renato Pestriniero), sia per la scenografia molto suggestiva e ipnotica, a tratti espressionistica, che non sfigura nel confronto con le più note e apprezzate pellicole espressioniste tedesche degli anni '20.
Mario Bava prima di girare questo film di fantascienza, nel 1965 (che rimarrà inspiegabilmente l'unico del genere) si era già fatto conoscere per diverse altre pellicole di qualità, dimostrando la sua buona versatilità in quasi tutti i numerosi generi che ha affrontato, spinto a cambiare tipo di film, di volta in volta, da motivi inconsci profondi.
Ricordiamo il film biblico del 1961 "Ester e il re"; "La maschera del demonio" nel 1961, horror; "Ercole al centro della terra", mitologico nel 1961; "Gli invasori", storico nel 1961; "Le meraviglie di Aladino", fiabesco 1961; nel 1963 "La frustra e il corpo", horror; "La ragazza che sapeva troppo", thriller, 1963; "I tre volti della paura", horror 1963;1964 "Sei donne per l'assassino", thriller 1964.
Mario Bava è un regista dotato, dall'immaginario folle e geniale, sente su di sé gli stati emotivi, nevrotici, scenici e d'insieme che possono coinvolgere il pubblico e difficilmente quindi perde un colpo.
Il regista ligure si immedesima con il pubblico più desideroso di un altrove immaginifico spazio-tempo liberalizzato, che ridefinisca o confonda i confini degli attuali ordini simbolici culturali, riaprendo un gioco inventivo progettualmente "altro" rispetto al sociale costituitosi: quello chiuso in una corporazione immagine-affetto dagli effetti alienanti, di cui fanno esperienza milioni di persone rassegnate alla prigionia rappresentativa, imposta dai media moralizzatori: persuasori e seduttori.

Bava si identifica con quel mondo e immagina cosa proverebbe lui stesso, anonimo, con accanto uno spettatore di quel tipo, al passaggio sullo schermo di un suo film. Da ciò si potrebbe tranquillamente dire che non nasce in lui nessun progetto convenzionale, nessuna costruzione a tavolino di una fotografia rispettosa dei codici noti, ma l'identificazione e proiezione di parti di sé con chi andrà a vedere il film, sulle sue aspettative, i desideri, sulle sue frustrazioni collettive facilmente intuibili dall'andamento culturale, politico, storico di un'epoca; cose che metteranno Mario Bava nella condizione di massima creatività artistica.

Da sottolineare anche in "Terrore nello spazio" come il film contenga inglobata in sé già quella famosa tematica che, sviluppata da altre angolazioni, animerà poi uno dei più noti film di quell'immediato futuro: "Alien". Basti pensare, della famosa quadrilogia, alla prima pellicola, quella diretta da R. Scott, la cui narrazione si sviluppa in modo geniale intorno all'idea della scoperta di un pianeta alieno i cui strani abitanti finiscono, come in "Terrore nello spazio", per entrare nei corpi degli astronauti nel tentativo di far fallire la missione ed estendere il loro potere verso altri mondi.

Da non sottovalutare, come purtroppo hanno fatto molti critici cinematografici, il punto di vista psicanalitico, e cioè la questione del "doppio", che percorre suggestivamente quasi tutta la narrazione di questo film contribuendo, insieme alla bravura tecnica di Mario Bava, a dare alla pellicola maggior sostanza espressiva e un più forte interesse ad essere analizzata.
Nel film a un certo punto, sulle vere identità dei componenti dell'equipaggio, non si è più sicuri di niente, ciascuno può essere se stesso o un altro, straniero.
L'effetto di questo gioco letterario è di eccitare nello spettatore nevrotico la scissione che è in lui, richiamandola accanto all'Io nella sua costituzione più fantastica, quella di origine inconscia, materializzandola in un presente che si snoda parallelo al film: in un "doppio" pensiero che va di pari passo con lo scorrere della narrazione filmica fino al punto di giungere, tramite gli eventi descritti nel film, a una pseudo soluzione della questione del "doppio", a un suo scioglimento in una unità psichica finalmente avvolta nell'univocità del senso.
E' come se il film divenisse di fatto un operatore terapeutico, qualcosa cioè che pare riguardare più un certo lavoro dell'inconscio che della coscienza.
Più una vittoria dell'Es dello spettatore che del suo Io: quest'ultimo durante il film sembra infatti subire uno scacco, a vantaggio dell'irruzione di una verità più potente, che nel nevrotico è indubbiamente quella rimossa.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 06/12/2011 16.18.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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