Recensione the armstrong lie regia di Alex Gibney USA 2013
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Recensione the armstrong lie (2013)

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locandina del film THE ARMSTRONG LIE

Immagine tratta dal film THE ARMSTRONG LIE

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Immagine tratta dal film THE ARMSTRONG LIE
 

Simbolo ideale del ciclismo degli ultimi due decenni circa, Lance Armstrong era il personaggio perfetto per Alex Gibney su cui operare una disamina sulla parabola di un atleta famoso e allo stesso tempo una descrizione del quadro attuale del ciclismo mondiale. Tuttavia questo documentario concepito principalmente con lo scopo di raccontare il ritorno alle corse di Armstrong alla fine del 2008 e narrare il suo tentativo di vincere il suo ottavo Tour De France del 2009, si è trasformato con lo scorrere degli eventi in qualcosa d'altro. Una correzione in corsa che rende "The Armstrong Lie" un lavoro bifronte, dalla doppia natura. Una doppia natura che in un certo modo è stata la carriera sportiva del ciclista statunitense.

Giustamente Gibney inserisce il periodo di inattività dovuto all'insorgere di un cancro ai testicoli come il vero spartiacque della sua carriera. Prima della malattia Lance Armstrong è stato un atleta che ha senza dubbio bruciato le tappe. Professionista dal 1992, si fece subito notare come un corridore adatto per le corse in linea, le cosiddette grandi classiche, e a poco più di un anno dal suo esordio divenne a sorpresa campione del mondo nel 1993 ad Oslo, in Norvegia con la squadra nazionale.
Non un ciclista adatto per le grandi corse a tappe come Giro, Tour e Vuelta nel quale, soprattutto riguardo al Tour, aveva soltanto ottenuto singole vittorie di tappa e finito la corsa a tappe francese solo una volta. Ci sono state vittorie di tappa significative come nel 1995, a tre giorni dalla morte di Fabio Casertelli, avvenuta nella discesa del Colle de Porte D'Aspet, quando Armstrong dedicò quella sua vittoria al suo compagno di squadra della Motorola poco prima di arrivare in solitario al traguardo, ma aldilà di qualche soddisfazione personale nelle altre partecipazioni alla corsa a tappe francese si era sempre ritirato.

Il cancro ai testicoli diagnosticato ad Armstrong alla fine del 1996 fa emergere le grandi doti di volontà dell'atleta statunitense. Gibney sottolinea questo aspetto fondamentale della personalità di Armstrong: l'atleta e il campione di fronte al bivio principale della loro vita, la lotta per sconfiggere la malattia e ritornare il più presto possibile in sella ad una bicicletta. Molto difficile sulla carta il primo obiettivo (50% di possibilità) figuriamoci il secondo, ma sottoponendosi ad una cura sperimentale riesce non senza sofferenze, come riportato da materiale d'archivio, a sconfiggere la malattia ritornando all'agonismo alla fine del 1998.

Ritornare l'atleta di una volta è sfida altrettanto difficile, nessuno è pronto a scommettere nulla su di lui, ma al Tour de France 1999, la prima di sette vittorie consecutive alla Grand Boucle, non solo vince la maglia gialla, ma letteralmente straccia tutti gli avversari. Una vittoria impensabile e clamorosa ottenuta da un atleta che fino a qualche anno prima lottava tra la vita e la morte e che mai aveva avuta una particolare attitudine per vincere un grande corsa a tappe come il Tour.

Il documentario di Gibney riesce a mantenere una certa distanza e oggettività di analisi. Celebra una vittoria di enorme prestigio e al tempo stesso getta le basi per lo svelamento del lato oscuro di Armstrong, quei sospetti di doping che cresceranno gradualmente insieme ai suoi successi, ad iniziare dalla discussa collaborazione con il Dottor Michele Ferrari, vero deus-ex machina dietro i successi di Armstrong e della U.S Postal. Evidenzia inoltre come il successo di Armstrong del 1999 fu una sorta di boccata d'ossigeno sia per i vertici del Tour de France sia per il presidente dell'Uci Verbruggen.
Il Tour de France era stato scosso fin dalle fondamenta dallo Scandalo Festina dell'anno prima. Un'intera squadra squalificata per essersi dotata di una metodologia di gruppo riguardo l'uso di sostanze dopanti. Non era più una questione di singolo atleta che barava al gioco, era qualcosa di più profondo e destabilizzante quando un'intera squadra, tra le più forti e prestigiose sulla carta, adotta una politica dopante su tutti i suoi atleti, con il consenso degli atleti stessi.
Quando dopo quel Tour del 1998, vinto tra l'altro da Pantani, in mezzo ad una mare di polemiche, perquisizioni in albergo, con sequestri e controlli sui farmaci, la vittoria del '99 di Armstrong sembrava lo spot perfetto per la rinascita del ciclismo: l'uomo rinato dalla malattia, che ha combattuto contro di essa vincendo e tornato immediatamente vincente.

La malattia è diventata uno scudo per il ciclista stesso e per i vertici della federazione americana e internazionale. Non si è voluto colpevolmente vedere come mai un atleta poco dotato per una tipologia di corsa, quella a tappe, fosse così inaspettatamente superiore agli altri. Superiore di almeno un 10% rispetto a tutti gli altri avversari.
Il documentario di Gibney si sposta in Italia, dove Armstrong ha trascorso un lungo periodo sotto le cure del Dott. Ferrari e dove il Dott. Ferrari stesso, in una delle sue rare interviste, ha descritto la metodologia di cura per il ciclista americano, finalizzata ad una preparazione atletica che privilegiasse non tanto la potenza della pedalata, quanto la sua frequenza e accompagnata all'assunzione di sostanze dopanti come la famiggerata EPO, corticosteroidi e autotrasfusioni del proprio sangue raccolto durante le sedute in altura. Con il giusto dosaggio prescritto da Ferrari le sostanze venivano assimilate ed espulse nel giro di poche ore. Rischio minimo quindi in caso di controlli. Questo era il 10% in più che Armstrong aveva nei confronti dei propri avversari. Una metodologia dopante migliore degli altri che grazie a questa consentiva di programmare in anticipo risultati e vittorie. Lo scandalo Festina non era quindi soltanto la singola formazione ad adottare un doping di squadra, ma anche altre squadre tra cui la U.S.Postal di Armstrong perché per quanto forte il singolo corridore non può prescindere dalla forza della sua squadra. La Festina si era fatta semplicemente beccare con le mani nella marmellata.

La forza di volontà di Armstrong è stata fondamentale nello sconfiggere la malattia, ma altrettanto forte nella sua ambizione di primeggiare sugli altri avversari con qualsiasi mezzo ed anche nel difendersi dalle accuse sempre più insistenti che provenivano da altri corridori come Filippo Simeoni, corridore italiano che fu tra i primi che rivelò le metodologie illecite del Dott. Ferrari e punito in maniera quasi "mafiosa" e arrogante dallo stesso Armostrong in una tappa del Tour e dai suoi ex-compagni di squadra Landis e Andreu (e la moglie di quest'ultimo).
L'amicizia e la difesa nei confronti di Ferrari fino al momento in cui quest'ultimo venne messo sotto accusa in Italia per pratiche sportive illecite, fu tra i primi scossoni al castello di menzogne che Armstrong aveva pazientemente costruito in tanti anni, persino davanti agli occhi dello stesso Gibney che, a differenza di altri suoi lavori, sicuramente paga un approccio troppo profano nei confronti del ciclismo e forse un leggero calo di oggettività nei confronti di un campione che in fondo ammira per quell'aura di invincibilità che si era creato fin dai tempi della malattia.
Dopotutto il ciclista americano non era mai risultato positivo a tutti i controlli effettuati, Una litania che Armstrong ripete alla stampa fino al parossismo. Semplice ma efficace. "Non ci sono prove di doping nella mia carriera". Esemplificativa la sequenza in cui Armstrong riceve in casa sua due controlli a sorpresa nell'arco di due giorni, dagli stessi dottori che però agiscono in nome e per conto di due enti diversi (Federazione Americana e Uci).
Tutto a posto. Tutto negativo. Facile anche per Gibney, forse uno dei migliori documentaristi attualmente in circolazione, privo di qualsiasi personalismo alla Moore per fare un esempio altrettanto famoso, cadere nella enorme macchina dell'inganno del ciclista. Seguirlo in questo suo ritorno al Tour de France del 2009, a tre anni dal suo ritiro, per provare a rivincerlo malgrado l'età di 38 anni e tacitare una volta per tutte le voci di doping sul suo conto.

Gibney in fondo è stato abbagliato in parte come uno dei tanti fan del campione, abbagliato dalla buona fede delle sue vittorie, dalle innumerevoli iniziative benefiche come Livestrong, lodevoli ma fondate sul marcio di una popolarità costruita in laboratorio, di vittorie false.
Solo con l'intervento dell'USADA e dell'FBI il muro è crollato. Mentire in pubblico, in conferenze stampa, allo stesso regista non è la stessa cosa che mentire davanti ad un procuratore federale, perché le conseguenze penali possono essere rilevantissime, vista la dura legislazione americana in materia.
A quel punto, sia pure in maniera teatrale e davanti all'audience di Oprha Winfrey, l'ammissione pubblica di aver usato sostanze dopanti, l'ammissione che tutte le sue vittorie sono state frutto di comportamenti illeciti. Una confessione però a metà che Gibney ha voluto completare con un'intervista appendice ad Armstrong. Ammettere di aver sbagliato va bene, ma anche pentito di quello che ha fatto? Ed è qui che il ciclista pur ammettendo i fatti, non è pentito. In fondo per primeggiare e rimanere ad alti livelli ha fatto ciò che facevano gli altri. Aiutarsi con i farmaci, perché era il solo mezzo non esclusivamente per essere competitivo, ma anche per superare tutti gli altri, andando dal miglior medico in circolazione.

Il limite ed il fascino di questo documentario è quello di essere un prodotto assemblato da due idee che si sono sovrapposte fra di loro dal corso degli eventi, miscelate con discreto equilibrio in modo da coabitare. Due versioni differenti di una stessa persona mostrata prima e dopo. Prima e dopo una menzogna durata per anni.

Il documentario è interessante. Conferma lo stato disastroso di uno sport ormai in agonia che dovrà attendere tanti anni per disintossicarsi dalle sostanze illecite e dal livello esasperato delle competizioni che porta dritto fra le braccia delle sostanze dopanti, con grave danno di credibilità sia delle competizioni, sia degli atleti stessi. Lo stesso albo d'oro del Tour de France degli ultimi quindici anni è una distesa di titoli revocati dalle positività degli atleti vincitori, non solo Armstrong.
Piacerà sicuramente, sia pure con una certa amarezza, agli appassionati di questo sport che dopotutto sono ancora tanti, forse un po' meno per coloro che seguono poco il ciclismo e visto lo stato attuale, poco stimolati a diventare veri appassionati.

"I like to win. Losing for me is death"

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 28/10/2014 15.27.00

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