Recensione uomo e galantuomo regia di Eduardo De Filippo Italia 1975
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Recensione uomo e galantuomo (1975)

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Voto Recensore:   8,50 / 10  8,50
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locandina del film UOMO E GALANTUOMO
 

"Io tengo una buatta..."

Scritta nel 1922 da Eduardo De Filippo, "Uomo e Galantuomo" (inizialmente conosciuta con il titolo "Ho fatto il guaio? Riparerò! ") fu rappresentata dalla compagnia di Vincenzo Scarpetta (per cui fu scritta) di cui lo stesso Eduardo faceva parte. È la sua seconda commedia dopo il breve atto unico "Farmacia di turno". Diventerà però famosa anni dopo con il titolo di "Uomo e Galantuomo", e nel caso in questione sono davvero poche le differenze che si notano tra la versione televisiva del 1975 e quella scritta per il teatro.
Si può benissimo parlare di teatro filmato, una sorta di ibrido per la tv in cui non si ha bisogno di scendere a patti col testo scritto se non forse con alcuni tempi meno dilatati: forse si soffre la mancanza del pubblico e delle sue risate in platea, ma tutto sommato non ci si può proprio lamentare di questo esperimento che per primo Eduardo ha sfruttato nel fondere teatro e tv, e la trasposizione televisiva della sua seconda commedia fa parte di un terzo ciclo per la Rai con un pubblico già rodato da anni.

Difficile non essere conquistati dalla comicità pura di questa commedia; gli intenti drammatici sono lontani, "Uomo e Galantuomo" è più una farsa alla Scarpetta padre: equivoci a non finire, personaggi macchiettistici e "miseri" che si fingono altro per salvarsi. È anche la rappresentazione di un mondo borghese ipocrita che si vuole salvare dalle apparenze, e lo fa rifugiandosi nella simulazione della pazzia (non quella vera, quella arriverà successivamente con "Ditegli sempre di sì").

Protagonisti sono degli attori girovaghi, degli artisti di strada scalognati e senza soldi che recitano in giro per il paese e a quanto pare non con grandissimo successo. Loro capocomico e guida è Gennaro De Sia (interpretato qui da un Eduardo irresistibile), che approfitta dell'ospitalità dell'impresario Alberto De Stefano nel suo albergo.
Ovviamente la sua è una compagnia di attori di infima classe, vivono alla giornata (stendono il bucato e cucinano nelle loro stanze d'albergo) e questa loro perenne vita sul filo del rasoio sia sul lato artistico che su quello pratico è perfettamente descritta nel momento in cui anche una camicia sporca di sugna (l'unica camicia che ha Gennaro) è equiparata alla più grande tragedia. È davvero l'artista distrutto, anzi di strutto. Ma si arrangiano come possono, cosi nella vita come nel teatro.
Non vi sono neanche legami definiti(vi) tra di loro: Viola, attrice, è incinta di Gennaro ma non sono sposati e sempre in contrasto per la minima cosa. Per questa strana compagnia le cose non vanno bene, veniamo subito informati: nella rappresentazione della sera precedente il pubblico ha fischiato e si è ribellato. Ma non si arrendono e stoici vanno avanti. In un gioco di farse Eduardo ha inserito proprio all'interno del primo atto una scena memorabile sulle prove che essi fanno per la messa in scena serale: Mala nova di Libero Bovio (si dice che quando ancora recitavano assieme fu uno dei tanti motivi di contrasto tra Eduardo e il fratello Peppino che la vedeva come una presa in giro di un dramma "alto").
È un momento esilarante, aggiunto successivamente alla prima versione del '22 e che si dice durante la registrazione televisiva dovette essere ripetuto più volte perché o una volta ridevano gli attori, oppure era il cameraman che per le risate non riusciva a tenere ferma la telecamera facendola tremare. È questo il meccanismo del teatro nel teatro, usato qui più come un gioco di puro divertimento: come scritto, nelle sue primissime commedie Eduardo non ha intenzione di entrare nel dramma o nel risvolto sociale in maniera diretta o forte.

Eppure di farsa sociale si può parlare comunque: l'altra trama che si va ad intersecare con quella degli artisti itineranti, anzi a dirla tutta la vera trama principale, riguarda proprio Alberto De Sia, il giovane aitante che ospita gli attori a sue spese e ama da vero "galantuomo" Bice, sua amante di cui non conosce praticamente nulla. Nel primo atto si ha giusto il tempo di capire che Bice vuole nascondere qualcosa al suo Alberto ma che quest'ultimo, troppo innamorato, non si rende conto di nulla in quanto sono gli altri attori, quelli finti, a rubare la scena. Primo atto che si chiude con la zuffa tra il fratello di Viola, Salvatore, con Gennaro che non vede di buon occhio e con un equivoco (l'ennesimo) che scatena il tutto.
Piuttosto è dal secondo atto che la vicenda acquista contorni ancora più definiti: Alberto ha fatto seguire in segreto Bice e si reca a casa sua per poi scoprire che la donna è sposata con un nobile, il conte Tolentano. Per salvarla dallo scandalo Alberto si finge pazzo e comincia a farneticare cose senza senso e a canticchiare la canzoncina, vero leit-motiv della commedia: è l'espediente per fingersi pazzo, che però non gli eviterà il manicomio in conclusione del secondo atto; un pazzo che è visto quindi come un evaso dalla realtà e dai problemi, ma pur sempre un finto pazzo. Lo stesso meccanismo, quello della finta follia, che useranno sia il conte Tolentano che Gennaro a chiusura di commedia quando le loro situazioni si comprometteranno irreversibilmente.
Nel secondo atto a causare le risate è ancora principalmente il mattatore Gennaro, che si trova a casa del conte per una coincidenza, cioè per farsi curare i piedi su cui è caduta dell'acqua bollente in seguito alla rissa con Salvatore. Gli equivoci si susseguono senza sosta, coinvolgono anche la polizia e il commissario venuti nel frattempo a casa del conte.

Il terzo atto vede tutti riuniti al commissariato, dove la matassa infine verrà sbrogliata; e verranno scoperti anche tutti gli altri altarini, quelli del conte Tolentano che tanto uomo d'onore non è alla fin fine perché anche lui ha l'amichetta: ma per sfuggire alle furie della moglie Bice basterà anche a lui recitare la parolina magica: "lallalarallì lallalarallà". Stesso dicasi per Gennaro che alla sollecitazione di pagamento userà lo stesso trucchetto e giù il sipario.

Insomma è una commedia con dei temi tutt'altro che banali; basti notare come a difendere l'onore della donna nel triangolo amoroso tra Alberto, Bice e il Conte è proprio l'amante quando buon senso si penserebbe subito al marito.
La borghesia rappresentata in scena è quella dei nobili imborghesiti, presi in giro secondo la miglior tradizione di Eduardo padre (Scarpetta), ma c'è un leggero presentimento che anche Pirandello possa aver influito in minima parte; ad onore del vero di quest'ultimo in "Uomo e Galantuomo" non c'è quasi traccia, va detto. La pazzia è un espediente e nient'altro, qui non esiste davvero né ne è portatore un personaggio davvero folle nel senso tradizionale del termine: la usa il borghese per proteggere l'amata, la usa il nobile imborghesito per salvarsi dall'affrontare le proprie responsabilità, infine la usa l'artista di strada per non pagare i debiti con soldi che non ha.

Della versione televisiva si nota una propensione all'uso di un dialetto più italianizzato rispetto al testo originale, mentre sul versante attoriale la prova di Eduardo è impeccabile come suo solito e per di più divertente senza risvolti tragici o da dramma: usa la maschera dell'attore che interpreta con le sue frasi fatte, la sua coscienza di essere un'artista (che non si accorge di essere ridicolo), che quando vuole parlare di qualcosa la prende sempre alla lontana partendo da quella "buatta" da cui è indispensabile per lui separarsi.
Alberto è invece interpretato da suo figlio Luca De Filippo, che ne accentua il lato da uomo e galantuomo, appunto, ma anche qui è da farsa: il suo è un atteggiarsi da galantuomo che si gonfia il petto, e pur mantenendo fino in fondo le promesse di non far cadere in disgrazia l'amata non può che suscitare risa la falsa sicurezza di chi vuole adempiere ai propri doveri; in fondo il suo amore per una donna che lo ha usato è tutt'altro che idilliaco e ovviamente non avrà seguito, ma evita il manicomio quando l'intreccio si scioglie e viene chiarificato.
Non è un lieto fine, vero, ma semplicemente perché non vi è stato nulla di grave prima per porre le basi di un finale con tutti felici e contenti; così come era cominciata finisce, con gli espedienti degli artisti poveracci e le falsità delle classi alte che pure trovano il loro punto di incontro nella scappatoia del "lallalarallì lallalarallà".

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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 29/12/2011 17.06.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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