Sei un blogger e vuoi inserire un riferimento a questo film nel tuo blog? Ti basta fare un copia/incolla del codice che trovi nel campo Codice per inserire il box che vedi qui sotto ;-)
Stupendo quest'ultimo film di Bresson, alla veneranda età di 82 anni ci regala l'ennesima perla di una carriera praticamente perfetta, con "L'Argent" esprime un pessimismo enorme che si è inasprito col passare del tempo a quanto si vede dalla sua filmografia, questa volta ricorre ad un soggetto leggermente più complesso del solito, tratto da Tolstoj e con una serie di intrecci da puro thriller nella prima parte, anche creando per diverso tempo un film di stampo corale, con le storie di queste persone che si intrecciano, si parte con un ragazzino che riceve troppi pochi soldi dal padre e per sistemare un debito spaccia una banconota falsa ad un negozio di fotografia, questo gesto è la scintilla che innescherà una reazione a catena che coinvolgerà la vita di diverse persone e prenderà delle piaghe sempre più drammatiche, Bresson catalizza fin da subito l'attenzione sull'oggetto del desiderio, il denaro, la camera si sofferma spesso sui dettagli della banconota falsa, sulle mani che la sfregano, quasi ad accarezzarla con un grosso senso di brama, il denaro sarà il motore scatenante del grosso cambiamento, in peggio, di personaggi all'apparenza inizialmente innocui, è così che il commesso che lavora nel negozio di fotografia diventerà un vero e proprio criminale, data la forte tentazione data dal denaro, così come Yvon, coinvolto per una sfortunata coincidenza, vedrà la sua vita andarsi a fasciare del tutto, perdendo il lavoro, finendo in galera, perdendo la figlia che verrà a mancare e con la moglie che lo lascia, tentando il suicidio fino al drammatico finale di una crudezza inaudita, il denaro esercita la sua enorme influenza sia sui personaggi che lo possiedono, ma ancor di più su quelli che non lo possiedono, mangiati vivi dalla brama, è un film che si collega direttamente con l'opera precedente di Bresson, se in "Le diable probablement" il denaro era ricercato dalle grosse multinazionali e non venivano biasimate troppo - almeno dall'opinione pubblica - per l'uccisione delle foche o l'inquinamento, qui a delinquere per il denaro è l'ultimo dei poveri disgraziati, caduto in miseria per la brama altrui e che prova una rivalsa estrema.
Bresson nonostante il soggetto più elaborato del suo solito, mantiene una regia splendida, con la sua solita recitazione impostata per sottrazione, le espressioni, le tonalità, tendono ad essere neutre, ma è straordinario come riesce a far passare le scene di estrema violenza, con gli albergatori massacrati mostrati tramite una giacca insanguinata e il killer che si sciacqua le mani nel lavandino, o ancora, il tragico e francamente inaspettato massacro finale, che avviene tramite dettagli e fuori campo, salvo poi concedersi un ultimo momento, quello in camera da letto, stranamente esplicito, anche a proposito della scena finale, che probabilmente scuote lo spettatore per il rapporto che si era creato tra il protagonista e la famiglia che lo stava ospitando, mostra quanto la riconoscenza e i sentimenti di gratitudine non esistano quando in mezzo c'è l'oggetto della brama per eccellenza, così Bresson conclude la sua discesa nel buio animo umano, sacrificando vite innocenti in nome del denaro, tra i suoi film più bui, la speranza nella sua opera era estinta da un pezzo e qui ne abbiamo l'epitaffio definitivo.
Ho sempre adorato Bresson e il sul stile di regia che porta il pubblico a vivere "fuori scena" immaginando solamente i fatti, o i suoi discussi teologici tra Giovanna d'Arco e l'asino di "Au Hasard Balthasard", per non parlare del "curato di campagna".
Ma in questo suo ultimo lavoro ho trovato un eccessivo manierismo nel portare in scena una storia cosi' violenta e tragica.
Filo conduttore di tutto sono i soldi che da un gioco da 500 franchi distruggono l'anima del protagonista che finira' per diventare un terribile assassino.
Visto che è il suol ultimo film posso anche dire che di tutte le sue scelte registiche l'unica che non ho mai digerito è la scelta di attori presi dalla strada, senza alcuna conoscenza del mestiere. Questo non fa che appesantire la scena creando maschere vuote che parlano...Non so perche ma in "L'argent" ho notato questa cosa piu' che in altri suoi film. Forse per la continua drammaticita' degli eventi che non è possibile non portino ad una qualsiasi emozione.
Insomma un grazie immenso a Robert Bresson che ha raccontato la societa' borghese e non, come nessun altro ha mai fatto e probabilmente fara'. Un regista straordinario che pur non mettendo in scena quasi nulla porta tutto direttamente al pubblico.
Non intendo parlarne a lungo, salvo analizzare l'ottica dove tutto è lasciato allo spettatore e a quello che prova per questo Antoine "cattivo", come nei film di Chabrol o, successivamente, nei primi lavori dei Dardenne. Un epitaffio oscuro, antico moderno e implicitamente Morale, ma splendido
Ed eccoci qui, davanti a quest'ultimo testimone che Bresson ci ha lasciato. L'ARGENT è un film davvero forte, come un pugno in un occhio, soprattutto per la parte finale. Stiamo parlando di un racconto di Tolstoj, rielaborato dallo stile inconfondibile di Bresson. Da vedere assolutamente...
"L' Argent" è il Capolavoro ultimo di Robert Bresson. E' anche il film che mi fece dubitare della poetica dello stesso: quell' eleganza di ogni movimento - nel riporre i soldi, piegare la cartina stradale di Parigi, chiudere la scatola di una macchina fotografica -, nessuno fa così. Fortunatamente è durato poco. Se anche nelle ultime opere di Mizoguchi il denaro compariva sempre (in)direttamente come motore/degrado sociale e politico, Bresson, a modo suo, fa un film d' azione concentrandosi più sui vari passaggi di mano del denaro stesso; un male incurabile che dilaga (azione capillare) e, come un cancro, quando ci si mette anche il destino, non ha spiegazione comprensibile alcuna, e tanto meno che possa tenere. Credo questo volesse rappresentare Bresson, con questa tragedia dalla seppur opinabile messa in scena. Dalla Banconota Falsa di Lev Tolstoj, un ragazzo onesto viene ingiustamente accusato di spacciare banconote false. Perderà il lavoro, farà una rapina, tenterà il suicidio, gli morirà la figlia, perderà la moglie e nell' ultima inquadratura, confessa ad un ufficiale pubblico al bar: "Sono stato io a uccidere i proprietari dell' albergo per rapinarli, e a sterminare un' intera famiglia". Straordinaria sceneggiatura minimale in un film che dura 81 minuti e 3 secondi, e che non potrebbe durare 1/24 di secondo (1 frame) in meno. Thank You Robert Bresson.
Bresson, come sempre si lascia in disparte. Affida ai fatti, ai gesti, alle poche parole, l’incombenza a raccontare. Eppure è proprio la sua astensione a rendere i suoi film così speciali, così profondi ed essenziali. Anche questa pellicola ne rispetta il pensiero. Le emozioni, le sensazioni, divengono più intense perché ottenute con la privazione delle stesse. L’apparente vuoto emotivo si riempie dunque di significati, di codici, d’azioni inumane o a volte pietose, di poesia. Qui il denaro - in “Au hasard Balthazar” diversamente era il povero asinello - diviene il simbolo del male stesso, dell’indifferenza e della cupidigia, veduto come un morbo che si propaga di mano in mano, in grado di trasformare un uomo in assassino.
“L’Argent”, il Denaro come simbolo di una pulsione intrinseca che muove tutti i soggetti, portandoli a configgere e a renderli gli uni “carnefici” degli altri. Robert Bresson porta all’estremo il discorso contenuto in “Pickpocket” –nel quale si individuano, secondo una logica del ribaltamento, i prevaricatori dai sopraffatti- rappresentando un turbine di misfatti perpetrati da tutti i personaggi della “mise-en-scene”: ogni cattiva azione genera altre in una spirale di nequizie che aumenta vorticosamente fino a culminare nell’atto dell’omicidio. Come non c’è ragione in un ordine prestabilito, in cui c’è chi “ha di più” soltanto in virtù di opinabili diritti quesiti (“Pickpocket”), allo stesso modo non c’è ragione nelle azioni nefande descritte dal regista ne “L’Argent”, le quali trascendono il senso di giustizia sociale per sfociare in una abusiva manifestazione di rabbia e di vendetta: ogni ingiustizia subita porta a perpetrarne delle altre di proporzioni maggiori. Lo stile narrativo è freddo, asettico, e i personaggi si muovono quasi fossero degli automi: i loro rapporti sono meccanici, svuotati di qualsiasi umanità, e le loro azioni risicate ma tutte mirate ad esecrabili fini, secondo frammentata rappresentazione dei fatti. E in questi fatti insistono gli atti compiuti da soggetti letteralmente eclissati da un insensato e imperscrutabile corso degli eventi: la camera non li inquadra nei momenti salienti in cui agiscono, quasi a sottolineare il compiersi di qualcosa che esula dalla loro volontà fino ad eliderla del tutto. “L’Argent” diventa così un percorso nell’assurdo e impenetrabile cinismo dell’umanità a cui sembra fare eco –per la riflessione che l’attraversa- quell’opera grottesca dei fratelli Coen (“Fargo”) che verrà 13 anni più tardi ("E tutto per cosa? Per quattro biglietti di banca" cit.). E’ sicuramente un film di difficile fruizione che, per la maniera in cui è strutturato, può legittimamente risultare indigesto; ma ciò non toglie che esso, per il sostrato filosofico che lo caratterizza, abbia una notevole dignità.
Sono rimasto molto perplesso e quasi sconcertato dopo la visione del film. Con certe forme stilistiche “anticonvenzionali” si può essere indulgenti, ma solo fino ad certo punto; cioè fin tanto che lo stile o la forma astratta contribuiscono a rafforzare o a creare un certo tipo di messaggio o reazione nella mente e nell’animo dello spettatore. Qui ho avuto l’impressione che Bresson abbia un po’ esagerato con le sue caratteristiche stilistiche e che abbia finito per sconfinare (involontariamente?) nella maniera. Questa però è una mia impressione e posso anche sbagliare. Peccato che non ci siano altri commenti con cui confrontarmi. Il film è ispirato a un racconto di Tolstoj (Il biglietto falso), che purtroppo non ho letto, ma che deve essere molto bello. La sete di denaro porta un giovane e ricco borghese a spacciare un biglietto di grossa taglia falso. Chi è “furbo” riesce a dare via il biglietto e a nascondere l’atto, non così il povero e onesto Ivon il quale si trova vittima di una serie di ingiustizie. Il suo carattere debole e remissivo lo porta a subire ogni genere di smacco (il destino gli si accanisce contro). Perde tutto, anche l’onestà e la dignità, e si riduce all’ingratitudine e all’assassinio pur di avere “l’argent”, il denaro, il principale strumento che ha “il diavolo” per diffondersi nella società umana. Nel finale sembra che ci sia un pentimento, un ravvedimento ma non si capisce come possa ormai servire. Dalla trama potrebbe sembrare un film drammatico, intenso, coinvolgente. Invece si tratta di un film molto freddo, quasi astratto, dove si evita qualsiasi nota passionale, qualsiasi eruzione dell’animo. Gli attori hanno la stessa identica espressione passiva e smarrita dall’inizio alla fine. Le scene di violenza sono completamente nascoste o ridotte a simboli (una mano che spinge una giacca, il lavaggio di mani sporche di sangue, un’accetta che abbatte un lume). Le persone non hanno alcuna reazione o ribellione ma prendono tutto così come gli viene. Spesso si inquadrano i piedi, le mani e il busto dei personaggi, contribuendo alla sensanzione di “spersonalizzazione”. Era così anche nei precedenti film di Bresson; però allora i personaggi avevano un po’ più di partecipazione interiore, una storia ben spiegata alle spalle oppure vivevano già in una dimensione astratta con i loro principi intellettuali (“Il diavolo probabilmente”). Questo sistema, applicato alla vita ordinaria di tutti i giorni, fallisce. Infatti non si ha l’impressione di vedere vita vissuta, ma semplicemente una messinscena per dimostrare un teorema morale. Quindi forse Bresson ha costruito artificiosamente un film per dimostrare come il libero arbitrio non esista, la volontà, la libertà siano solo illusioni: siamo solo marionette in mano al destino e agli istinti materiali più gretti. Il presunto pentimento finale giunge in un momento in cui non si capisce quale utilità possa portare a Ivon, visto che l’esperienza del carcere l’ha già vissuta e non gli è servita a niente. Poi la tanto sbandierata “fede” di Bresson, qui proprio non si vede. E’ il diavolo che impera non certo D.io. Sinceramente è un film troppo freddo, troppo astratto, troppo “dimostrativo” e poco vissuto. Lo stile tende a imprigionare l’espressione interiore e l’”estraniamento” dello spettatore finisce per provocare noia o rifiuto, piuttosto che stimolo alla riflessione. Peccato, perché la storia è bella e le conclusioni di Bresson non sono poi così campate per aria.