Recensione american history x regia di Tony Kaye USA 1998
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Recensione american history x (1998)

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locandina del film AMERICAN HISTORY X

Immagine tratta dal film AMERICAN HISTORY X

Immagine tratta dal film AMERICAN HISTORY X

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"Tutto ciò che ho fatto ha reso migliore la mia vita?"

Quelli che "lavorano come bestie, vanno a caccia, leggono la Bibbia alla lettera e credono nella birra come soluzione: sono l'America di provincia, quella dei proletari bianchi, sottopagati, obesi, aggressivi e rassegnati.
Sono l'America xenofoba e guerrafondaia, che vota repubblicano (contro ogni suo interesse) ma non ha voce, che non è andata all'università, che parla come nei film dei fratelli Cohen («le bestemmie sono una forma di punteggiatura»)
".
Joe Bageant - "La Bibbia e il fucile"

Sono fanatici della bandiera, convinti che la loro democrazia sia esemplare e la migliore del mondo, esaltati sostenitori della dottrina della razza superiore, come simbolo di egemonia e ideale di perfezione: sono l'America di provincia, sono i naziskin d'America.
Sono anche chiamati Skin 88, dove il doppio 8 sta ad indicare due volte la lettera H (ottava lettera dell'alfabeto latino) iniziali di Heil Hitler.
Gruppi di Skin 88 esistono un po' dappertutto (specie presso le tifoserie ultrà), compresi gli Stati Uniti, dove il movimento ha una rigida e potente organizzazione gerarchica di tipo paramilitare, ereditata dallo storico e obsoleto movimento razzista denominato ku klux klan.

E naziskin è il giovane Derek Vinyard in quel di Venice Beach, a Los Angeles, uno dei tanti giovani borderline che costellano le profonde periferie delle città americane (e non solo americane).
Derek è un estremista fanatico, seguace, a suo dire, dell'ideologia razzista basata sul "Mein Kampf" di hitleriana memoria (che spaccia(va) la presunta superiorità della razza bianca su neri ed ebrei), anche se si ostina a ripetere che il suo movimento (White Power) non rispecchia il vecchio fanatismo segregazionista dell'America profonda e contadina, ma costituisce l'avanguardia del razzismo bianco metropolitano.
È stato educato al settarismo parafascistoide da un padre che se n'è andato troppo presto, e troppo presto sostituito, nel letto di sua madre, da un uomo che ha un solo grande difetto: quello di essere ebreo.

La perdita prematura del padre, vigile del fuoco caduto sotto i colpi di un piccolo delinquente di colore, uomo schivo e di poche parole, molto spesso sbagliate, innesca in Derek una spirale di violenza che si trasforma in odio razziale, violento e distruttivo, che il padre stesso aveva contribuito ad alimentare con i suoi indottrinamenti deliranti e la sua insofferenza nei confronti delle altre etnie.
Rimasto il maschio dominante della famiglia, si appropria del ruolo paterno e si assume il compito di proteggere i suoi familiari, mentre in realtà li tiranneggia, e di guidare la formazione del fratello minore, Danny.

Sullo sfondo aleggiano le figure dei componenti la sua famiglia, tipicamente working-class: la madre, una donna debole e malaticcia, incapace di contrastare la deriva razzista del figlio, che l'ha costretta a rinunciare al nuovo compagno solo perché di origini giudaiche; la sorella, una ragazza dalle idee apertamente progressiste, disprezzata da Derk per la sua capacità di saper valutare appieno la mostruosità delle sue idee.
Poi c'è Danny, il fratello minore, che si identifica in Derek e lo venera come un idolo, al punto di volerne seguire l'ideologia ed emularne azioni e gesta.

Derek però, che esibisce i tatuaggi di una enorme svastica sui pettorali e un giro di filo spinato sui bicipiti, non è il solito nazista tutto muscoli (anche se ne ha da vendere) e niente cervello; al contrario è una testa pensante, un ragazzo violentissimo ma capace e intelligente. Sono solo le occasioni che, di volta in volta, lo trasformano in "mostro".
E l'occasione si presenta la sera in cui due giovani delinquenti di colore tentano di rubargli l'auto posteggiata sotto casa sua. Pazzo di rabbia Derek non esita a sparare, uccidendoli a sangue freddo, sotto gli occhi ammirati di Danny, ergendosi così a giustiziere, non tanto nei confronti del ladro che voleva derubarlo, bensì del "negro" in quanto tale, come l'assassino di suo padre.
Condannato (con una mite sentenza) a tre anni di reclusione, gli si aprono davanti le porte della prigione, dove inizia un sofferto percorso di revisione ideologica e di maturazione personale, che lo porterà a ripudiare la dottrina alla quale aveva aderito e ciecamente creduto.

Ma nella vita tutto ha un prezzo.
E la redenzione gli presenta un conto salatissimo da pagare, quando un gruppo di, ormai ex, compagni di ideologia lo costringe a sottostare ad una brutale aggressione sessuale nelle docce della prigione.
Quando finisce di scontare la pena, Derek non è più la stessa persona, ora è un uomo guarito e redento.
Tornato a casa lo aspetta il difficile compito di sottrarre Danny al carisma di quell'astuto manipolatore che è Cameron, il capo della setta, un individuo abietto che instilla odio nelle menti dei giovani e li manda allo sbaraglio mantenendosi in disparte, e quindi al sicuro, per far si che Danny non compia i suoi stessi errori e rimanga irreversibilmente invischiato nei barbari rituali dei fanatici seguaci del White Power. Ci riesce solo quando gli racconta la sua personale esperienza carceraria e gli spiega le motivazioni che lo hanno portato al ripudio delle sue convinzioni ideologiche.
Ora Danny è consapevole delle false e ingannevoli certezze alle quali si era affidato; a casa completa il saggio intitolato "American history X", assegnatogli dall'idealista professore nero, Sveeney, come punizione per aver svolto un tema sui diritti civili, incentrandolo sul "Mein Kampf", e la famiglia Vinyard sembra avviata verso un futuro di pacificazione.
Ma il passato si può riscattare, non cancellare, e il finale tragico lo conferma.

La prima sequenza del film, il brutale omicidio del ragazzo nero che voleva rubargli l'auto, costretto a mettere la bocca sul marciapiedi, è forse la più agghiacciante di tutte, ma anche la scena dello stupro nelle docce non è da meno.
Questi due momenti rappresentano gli eventi cardine nella vita di Derek Vinyard. E se nella prima lo vediamo forte, muscoloso, schizzato e aggressivo, quasi invincibile, nella seconda appare rimpicciolito, debole, vulnerabile, quasi a sottolineare il suo percorso evolutivo tra un passato scuro e violento e il presente pacificato e redento.
Troppo brutale prima, ragazzo modello dopo.

"American history X", diretto dall'esordiente Tony Kaye, proveniente dagli spot pubblicitari, è un perfetto manuale sui meccanismi che presiedono la nascita, e guidano le azioni, delle organizzazioni neonaziste e razziste americane e la (un po' troppo repentina) redenzione finale intende, forse, compensare la realistica descrizione delle violenze delle loro imprese e le loro deliranti predicazioni come membri di Aryan Brotherhood.
Kaye concepisce il fenomeno come figlio dell'ignoranza, del degrado, del fallimento, delle frustrazioni, della povertà (analogamente ad altri fatti e fenomeni sociali come la tossicodipendenza, la criminalità, il fanatismo politico e religioso), il tutto improntato ed acuito da un sentimento di rivalsa e di odio verso le altre razze e il desiderio di dominare su di esse.

Il valore aggiunto del film - che praticamente si svolge, più o meno, nell'arco di qualche giornata, ma che riesce a rievocare, nel corso della narrazione, l'accezione e il ricordo di tre lunghi anni - risiede nell'alternanza dell'uso del bianco e nero e del colore, adoperati per rappresentare i due piani temporali della storia: la cupezza sgranata del passato di Derek, raccontato in lunghi e incisivi flashback, e la lenta luminosità del presente, che evidenzia la sua drastica evoluzione ideologica e comportamentale.

"American history X", è un arrovellato, crudo e contagioso film di attori, di sensazioni, di ustioni al cuore. La macchina da presa ci inabissa in un mondo di impotenza e di violenza inaudita (memorabile la scena del "Metti la bocca sul marciapiedi"), diretto con una forte carica di liricità, da un regista alle prime armi (crediamo sia rimasta l'unica sua esperienza nel lungometraggio), che riesce a catalizzare l'attenzione dello spettatore nel pathos delle esperienze compulsive e dolenti di un ragazzo che si muove nel deserto assoluto dei valori e degli ideali, in un mondo fanatico e organizzato, dove domina il credo del super uomo e delle armi, quasi a volerci significare che i tre più grossi problema della democrazia leader dell'Occidente rimangono ancora la questione razziale, la facilità con cui si vendono le armi da fuoco, e soprattutto di non essere in grado di offrire certezze ai giovani, ma soltanto modelli comportamentali.

L'uso insistito del rallenty serve al regista per accentuare la tensione delle scene più drammatiche e per alimentare l'eccitazione nervosa dei protagonisti, mentre le lunghe riprese col grandangolo sottolineano la pregnanza delle inquadrature, crude e psicologicamente stridenti e l'intensità dei momenti cruciali, enfatizzati anche da insistenti primi piani e movimenti a mano della macchina da presa.

Se qua e là il film presenta alcune tipiche e quasi naturali incertezze delle opere prime (come la troppo rapida e decisa conversione di Derek), il tutto viene valorizzato dalla strepitosa interpretazione di Edward Norton, che con questo film conferma tutte la sue capacità espressive e la sua forza nel saper catalizzare l'attenzione dello spettatore, passando con estrema disinvoltura dal Derek torvo e affascinante giustiziere al Derek discreto ed equilibrato che ha chiuso con il passato e ha diradato quell'alone di violenza che permaneva attorno a sè.
Il suo sguardo allucinato nella sequenza dell'omicidio è difficile da dimenticare, ma anche l'espressione di lancinante sofferenza per la morte del fratello è qualcosa che rimane dentro lungamente e commuove nel profondo dell'animo.

Al suo fianco non sfigura affatto l'altro Edward, il giovane Furlong, che veste i panni di Danny, un ragazzino che naviga tra la sensibilità giovanilistica e l'inquietudine tipica della giovane età, portata spesso ad essere manipolata e a seguire modelli a volte sbagliati.

Se mai un giorno ci venisse chiesto di scrivere la nostra "history X", ci venisse data la possibilità di domandarci se "tutto ciò che ho fatto ha reso migliore la mia vita?", sarebbe bello poter affermare, "io ci ho provato".

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 11/02/2011 15.21.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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