Recensione a proposito di davis regia di Ethan Coen, Joel Coen Usa, Francia 2013
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Recensione a proposito di davis (2013)

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locandina del film A PROPOSITO DI DAVIS

Immagine tratta dal film A PROPOSITO DI DAVIS

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Da sempre affascinati dalla figura dell'uomo votato al fallimento piuttosto che dell'uomo di successo, i fratelli Joel ed Ethan Coen per questa loro ultima fatica si sono ispirati alla figura di un musicista che ha movimentato la scena folk americana negli anni '60: Dave Van Ronk.

Autore e arrangiatore raffinato, straordinario chitarrista e cantante, Van Ronk è stato un artista che non ha raggiunto un grosso successo, ma è stato, in ogni caso, un personaggio fondamentale nel panorama della musica folk, che sul finire degli anni '60 gravitava attorno al Greenwich Village di New York.
Nato nel 1936 a Brooklyn, a 15 anni Van Ronk si trasferisce nel Queen per frequentare la Holy Child Catholic High School e comincia a suonare nel Barbershop Quartet, un quartetto che è solito esibirsi all'interno degli esercizi dei barbieri. Lasciata la scuola prima di completare gli studi, ha iniziato a vagabondare per Manhattan e a suonare nei complessi di musica jazz prima di scoprire l'amore per il folk.
Conosciuto con il soprannome di "The Mayor of MacDougal Street", fu grande amico e anche fonte di ispirazione per Bob Dylan. La sua discografia, molto ampia, inizia nel 1956 e arriva fino al 2005 con l'album uscito postumo che porta il titolo del suo soprannome.
Una grossa fetta della sua vita Van Ronk l'ha dedicata all'attivismo nel campo dei diritti civili e alla politica, identificandosi con la classe operaia e con le idee socialiste.
Durante gli anni sessanta supportò il Movement e fu membro della Libertarian League e del Trotskyist American Committee. Nel 1969 fu arrestato durante i moti di Stonewall e nel 1974 insieme ad altri artisti tra cui lo stesso Bob Dylan partecipò al concerto in favore dei rifugiati politici dal colpo di stato cileno di Pinochet, noto come "An Evening with Salvador Allende".
L'eredità musicale di Dave Van Ronk vivrà nelle sue numerose registrazioni e nei tanti artisti che ha influenzato nel corso della sua lunga carriera.

La storia di Dave Van Ronk è la storia di un pezzo d'America che non esiste più, di quegli anni formidabili in cui i fermenti dell'arte e della musica agitavano New York e il mondo intero. La sua storia, raccontata nel libro biografico "Manhattan Folk Story", ha ispirato i Fratelli Coen che l'hanno trasposta sullo schermo per non essere dimenticata.
Protagonista è un giovane, spiantato musicista folk di New York, Llewyn Davis (Oscar Isaac), alter ego dello stesso Dave Van Ronk, e il film racconta una settimana della sua vita, agli inizi degli anni '60.

Siamo nel 1961, sul palcoscenico del Gaslight Café, un locale nel cuore del Greenwich Village. Bob Dylan non era ancora apparso sulla scena per fare del folk la passione musicale dei giovani di allora, e di se stesso l'uomo che ha spinto il folk nel cuore dell'America e del mondo intero.
Il folk è ancora lontano dai fasti degli anni a venire e i ragazzi che lo suonano sono giovani spiantati che provengono dai sobborghi operai del New Jersey o dai prefabbricati di Long Island e sono in cerca di una vita migliore, lontana dal grigiore e dalla conformità vissuti dai loro padri.
La luce radente che rischiara il palcoscenico del Gaslight, illumina il volto barbuto di un ragazzo con gli occhi socchiusi e l'espressione stanca, la barba lunga e i capelli arruffati, che si sta dannando l'anima rincorrendo un successo che non arriverà mai. Il pubblico ascolta rapito la chitarra e la voce di Llewyn Davis, fuori un rigido inverno imbianca le strade e i grattacieli di una livida New York, mentre nel vicolo buio del retro lo aspetta un violento e misterioso uomo delle tenebre.
Llewyn non ha un cappotto per coprirsi né una casa dove rifugiarsi, ha solo una giacca di velluto, un paio di scarpe scalcagnate e un anziano impresario ebreo un po' duro d'orecchi che lo tratta come un figlio e che non può offrirgli altro che il suo cappotto. Dalla musica che ama non sta ricavando né soldi né gloria, solo dolore ed ebraici sensi di colpa per tormentarsi, da quando il suo amico e partner canoro si è suicidato buttandosi giù dal George Washington Bridge.

Anima malinconica e carattere scorbutico, Llewyn è burbero e scontroso, talentuoso ma umorale, sbarca il lunario esibendosi quando capita in locali di terz'ordine e dorme sui divani sempre diversi di amici e conoscenti borghesi che lo ospitano esibendolo ai loro invitati come trofeo.
Ha un rapporto conflittuale con il successo, dibattuto tra purismo artistico e tendenze che scivolano verso l'autodistruzione, ed è perennemente in fuga dai tanti problemi che in parte lui stesso ha contribuito a creare: perde il gatto alla coppia di professori del Upper West Side che lo ospitano e, tanto per farlo sentire ancora più perdente, rovina loro una serata con commensali di riguardo; a sua sorella un po' bigotta che lo maltratta rimprovera la banalità della sua vita vissuta nella villetta a schiera del Queen; al suo amico e collega musicista Jim Berkey (Justin Timberlake) mette incinta la moglie Jean (Carey Mulligan), che lo ricopre di disprezzo e lo insulta per tutto il film a suon di parolacce ("Tutto quello che tocchi si trasforma in merda, come il fratello scemo di Re Mida. La prossima volta infilati un profilattico sopra l'altro e poi avvolgitelo nella plastica"), poi gli addossa la colpa di quanto accaduto e anche le spese per abortire ("come se queste cose non si facessero in due" ha la forza di azzardare Llewyn).
Come non bastasse, sempre più preda di quell'insoddisfazione impossibile da scacciare perché figlia della sommatoria tra ambizione e apatia, un giorno, gatto tigrato appresso, intraprende un allucinatorio viaggio on the road su un'auto guidata dal taciturno e truce poeta beat Johnny Five (Garrett Hedlund).
Oggetto di un insensato arresto, in compagnia del folk singer eroinomane e strafatto Roland Turner (un grande John Goodman), si reca alla volta di Chicago per sottoporsi ad un provino, fallimentare, con l'importante impresario Bud Grossman (un intenso Murray Abraham), al termine del quale si sente ripeter il solito ritornello: "Non si fanno soldi con quella roba".
Llewyn lo sa, non si aspettava altra risposta, allora riprende la sua chitarra e, con un altro passaggio di fortuna, ritorna nello stesso vicolo cieco e buio di New York dove tutto era cominciato e dove lo aspetta l'enigmatico e misterioso picchiatore della notte, in un The End circolare che rende ancora più schiacciante la sua sconfitta.
L' allusione finale a Bob Dylan sta a significare che ciò che Llewyn Davis ha tentato e iniziato verrà concluso dal più fortunato Dylan e il suo "au revoir", pronunciato poco prima dei titoli di coda, sembra volerlo confermare.

Malinconico e umoristico, pessimista e quasi mistico, a momenti una versione amara di "Fratello dove sei?", "A proposito di Davis" è il ritratto tenero, introspettivo, a tratti ironico e nichilista di uno dei tanti "loser" che popolano la filmografia dei fratelli del Minnesota, a cominciare da quel campione indiscusso degli slacker che è Jeffrey "Drugo" Lebowski.
Il bello del loro cinema risiede nella loro capacità di riuscire sempre a rendere interessanti anche le storie apparentemente più banali (in fondo questa non è altro che la storia comune di un uomo comune) e a farci amare personaggi per loro natura votati al fallimento. Persone cioè che, o per pigrizia o perché particolarmente sfortunate, non riescono ad adattarsi alla società che gli sta attorno. Llewyn è una di queste persone: vorrebbe avere il controllo della sua vita ma no sa come fare; le cose non gli sono favorevoli ma è anche lui a non volere che lo siano, o meglio non fa nulla perché lo siano.
E' un perdente nato, lo è per caso ma anche un po' per desiderio. E' ossessionato dalla purezza della sua arte e si barcamena tra un disco che non riesce a vendere e la procreazione di un figlio che non può crescere; vive dell'autenticità della sua musica e arranca nell'agguantare il successo e reperire ingaggi.
"A proposito di Davis", in questo senso, è un film costruito tutto su una sola emozione: l'empatia. E perciò rientra a pieno titolo tra quelle pellicole con le quali i Coen si cimentano nell'indagine dell'universo psicologico dei vari personaggi, mettendone in evidenza gli aspetti più propriamente privati e al tempo stesso più controversi. Così è stato per lo spietato killer Anton Chigurh di "Non è un paese per vecchi", così per il commediografo in crisi di astinenza artistica Burton Fink, così per il "Drugo" Lebowsky.
Ciò che accomuna questi film a "A proposito di Davis" è il sentimento di identificazione che lo spettatore, in modo spontaneo e immediato, è quasi costretto a provare nei confronti di questi personaggi.
Sentimento di identificazione a cui i Coen stavolta si aprono con tono malinconico e accorato, che a tratti può risultare straziante e anche un po' spiazzante, mettendo un po' da parte il consueto cinismo ironico a cui ci avevano abituato in passato, compresi il sarcasmo e il gusto noir che spesso si rilevano nei loro film.

Ci sono in "A proposito di Davis" numerosi e interessanti temi sviluppati abilmente e autorialmente: c'è l'odissea di un uomo che tenta di conciliare l'amore per la propria arte con le necessità della vita; c'è la difficile convivenza tra l'amore per le proprie passioni e i rapporti affettivi (straziante la scena all'ospizio con il padre autistico); c'è l'arte, il suo senso e la sua ossessione. Ma c'è ancora di più: la vita e la storia che travalica i confini del Village per farsi parabola universale della complessità dell'essere umano.
Il Llewyn Davis dei Fratelli Coen è un uomo che vive del suo intelletto e della sua arte, un artista il cui talento non viene colto fino in fondo, un ragazzo a cui la sua filosofia esistenziale sottrae qualcosa per essere un numero uno, un ebreo errante alla ricerca eterna della sua terra promessa; forse il personaggio più fragile e più intenso creato dalla mente e dalla cinepresa dei Coen.

Anche se la ricostruzione storica dell'ambiente musicale degli anni '60 e degli ambienti in generale è accurata e veritiera, anche se la sceneggiatura, basata su una scrittura che traduce ogni scambio di battute in scene crude, efficaci e commoventi, è assolutamente perfetta nella sua circolarità, il cuore pulsante del film si nasconde nella scena, intensa e struggente, che si svolge negli studi di registrazione di Bob Grossman, quando nella penombra di uno spettacolo già concluso, Llewyn, solo con la sua chitarra canta la sua ballata triste; nello sguardo la rassegnazione di chi sa che ancora una volta sta fallendo.
Lui è bravo, la sua canzone è bellissima, come del resto tutta la colonna sonora, ma scivola addosso al potente produttore che più che al talento pensa soprattutto al suo riscontro economico, rendendo così la sconfitta professionale e umana dell'artista, veramente definitiva.

Protagonista assoluta della pellicola è la voglia dei fratelli di St. Louis Park di raccontare un momento degli anni '60 e l'ambiente musicale newyorkese, con una serie di brani folk che impregnano l'intera pellicola formando, come detto, una straordinaria colonna sonora, composta da pezzi tradizionali americani, tra cui spiccano le vecchie ballate "Hang Me, oh Hang Me"; "Fare the Well (Dink's Song)"; "Please Mr. Kennedy" e "Fare Well" di Bob Dylan.
Buona parte del merito per la riuscita del film è da attribuire al cast. Assolutamente azzeccata la scelta del protagonista, impersonato dal sorprendentemente bravo e misurato Oscar Isaac, strappato da Ethan e Joel Coen al destino di caratterista per sostenere il primo ruolo da protagonista della sua carriera. Occasione che l'attore guatemalteco ha saputo sfruttare al meglio, arricchendo il film del suo sguardo afflitto e della sua aria malinconica. Quando la macchina da presa lo riprende da vicino, quasi lo accarezza e lo blandisce, isolandolo dal resto del contesto, come se la sua voce, le sue emozioni, le sue spalle ingobbite dal gelo della Grande Mela, bastassero a celebrare l'arte nella sua essenza più pura.

Come di consueto anche "A proposito di Davis" è popolato di straordinari comprimari, a cominciare, e non poteva essere altrimenti, da un irresistibile e mastodontico John Goodman e a seguire un incredibile duo formato da Justin Timberlake e Carey Mulligan, un memorabile F. Murray Abrahams, e per finire un magnetico e taciturno Garrett Hedlund che pare uscito pari pari dal film di Walter Salles per proseguire "On the Road" il suo viaggio verso il nulla infinito.
Forse niente è accaduto per caso, forse tutto è successo affinché i Coen potessero rendere onore a tutti quelli che come Llewyn Davis non ce l'hanno fatta.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 14/02/2014 15.01.00

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