Recensione il cuore grande delle ragazze regia di Pupi Avati Italia 2011
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Recensione il cuore grande delle ragazze (2011)

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locandina del film IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE

Immagine tratta dal film IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE

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Immagine tratta dal film IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE
 

L'unica dote di Carlino Vigetti (Cesare Cremonini), primogenito di Adolfo (Andrea Roncato), è un alito che profuma naturalmente di biancospino con il quale conquista le ragazze del paese.
Il proprietario del terreno coltivato dai Vigetti, Sisto Osti (l'immancabile Gianni Cavina), acconsente, seppur riluttante, a dare in sposa una delle sue figlie nubili e ben poco appetibili al giovane Carlino, pur di vederne sistemata almeno una. In cambio di una moto Guzzi e del prolungamento del contratto di mezzadria, Carlino acconsente al matrimonio, finché non conosce la bellissima Francesca (Micaela Ramazzotti), figliastra di Osti, e decide piuttosto di sposarsi con lei invece di scegliere tra le due zitelle, promettendo persino di astenersi dalle tentazioni.
Nonostante il parere contrario di tutti i genitori e qualche intoppo, i due convolano finalmente a nozze, ma l'astinenza forzata gioca a Carlino e Francesca un brutto scherzo...

Pupi Avati è legato ad alcune tematiche fondamentali: l'amicizia, la famiglia, i tempi della sua giovinezza. Il suo cinema migliore (da "Regalo di Natale" in giù) insiste su queste tematiche, in tono leggero o drammatico, raccontando storie che potrebbero appartenere ai ricordi di chiunque. Il suo modo di raccontare e filmare riflette l'attaccamento e la gratitudine nei confronti delle cose che nella sua vita hanno contato di più. Non è un caso che, quando si è allontanato da qualcosa a cui tiene veramente (un esempio: "Il figlio più piccolo"), i risultati siano –mediamente –meno convincenti.

"Il Cuore grande delle ragazze" è una commedia leggera, d'altri tempi, che a prima vista può lasciare senza dubbio perplessi. Non è però ad un regista dell'età e con la carriera di Pupi Avati che si deve chiedere di indicare la strada al cinema italiano, e pertanto per porsi criticamente davanti ad un'opera come questa bisogna considerare innanzitutto quali sono i parametri per giudicare un film.
Ad esempio, sicuramente Avati raggiunge il suo obiettivo: cristallizzare i suoi ricordi in forma drammatica. La storia, ispirata alle vicende dei nonni del regista, è un tragicommedia bucolica, indulgente e retorica.
In maniera molto sottile, la narrazione in prima persona del fratello del protagonista ormai cresciuto (la voce narrante è di Alessandro Haber) ha il peso lieve dei ricordi cari dell'infanzia. Tutto appare ai limiti del reale, ogni personaggio è imitazione di se stesso, trasfigurazione di ricordi, racconti e invenzioni.
Tale coerenza e chiarezza, oggi, non si trovano facilmente in altri progetti di cinema italiano: molti giovani autori (italiani e non solo) potrebbero imparare molto da Pupi Avati.

E' ovvio che un cinema che indulge così tanto nella memoria, che non si pone mai in un'ottica critica, che non offre mai una sponda per un'analisi o un approfondimento psicologico o narrativo dei personaggi, rischia sempre di perdersi il pubblico dopo dieci minuti, se non lo conquista subito sul piano emotivo. La scelta, in casi come questo, è quasi preventiva: accettare un cinema di pura narrazione come si farebbe con un racconto di una storia fatta da un nonno o un padre, oppure rifiutare a livello filosofico questo tipo di opera. Tentare altre strade, almeno con Pupi Avati, sembra più che altro ingiusto.

Quel che si può criticare, magari, è l'ostinazione nel casting ad effetto che generi un forte ritorno in termini di immagine ma che non sempre si rivela all'altezza.
L'ultima scommessa di Pupi Avati è Cesare Cremonini, prestato al cinema per un ruolo da protagonista per cui certamente ha le physique du role, meno la presenza scenica. Non che il suo personaggio richieda una profondità ed una capacità recitativa così spiccata, ma certamente un attore professionista avrebbe potuto conferire ad una scrittura un po' debole qualche sfumatura in più.
Altra scelta "innovativa" Andrea Roncato, che morde il freno con una misurata e convincente interpretazione del patriarca Vigetti.
Micaela Ramazzotti ormai ha i ruoli che quarant'anni fa erano della Sandrelli (non a caso erano perfette in La prima cosa bella" come versione giovane ed anziana dello stesso personaggio), ma anche lei sembra un po' fuori fuoco dopo i primi, indovinati, minuti.

I personaggi del film e l'ambientazione sono presentati in maniera brillante e convincente dalla voce fuori campo di Alessandro Haber, ma il bozzetto dipinto nei primi venti minuti non evolve mai decisamente verso qualcosa di concreto. Nel momento in cui il personaggio della Ramazzotti entra in scena, il film praticamente si ferma: ogni personaggio continua a ripetere le stesse battute (in particolare Carlino) e la sensazione è che il meglio sia già venuto.
Tutto ciò è coerente con quanto affermato in precedenza: i ricordi delle persone sono immagini statiche, anche in un racconto. L'arco temporale coperto dal film poi è abbastanza breve e non c'è spazio neanche per immaginare l'evoluzione di personaggi che appartengono ad un'epoca che non chiedeva alle persone di maturare, ma solo di crescere secondo l'usanza: gli uomini autorizzati all'adulterio purché responsabili del benessere della famiglia e le donne a badare al focolare domestico e ignorare eventuali scappatelle "fisiologiche" del coniuge.
Sebbene le dinamiche familiari e sociali degli anni Venti siano genuinamente messe in scena, meno probabili sembrano le scelte sui dialoghi ed in particolare la libertà e la frequenza con cui Carlino manifesta davanti ai genitori le sue "necessità".

Questo film è una dedica a generazioni di donne che nel cuore avevano spazio per perdono e sopportazione. La musica di Lucio Dalla accompagna il film fino ad un finale conciliante che conferma la volontà di non stupire o suscitare emozioni più forti di un sorriso.
Un film limitato, magari, ma onesto.

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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 08/11/2011 16.57.00

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