Recensione invisible waves regia di Pen-Ek Ratanaruang Olanda, Thailandia, Hong Kong 2006
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Recensione invisible waves (2006)

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locandina del film INVISIBLE WAVES

Immagine tratta dal film INVISIBLE WAVES

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Immagine tratta dal film INVISIBLE WAVES

Immagine tratta dal film INVISIBLE WAVES

Immagine tratta dal film INVISIBLE WAVES
 

"Invisible Waves", quarto lungometraggio del regista tailandese Pen-ek Ratanaruang, evidenzia, per chi non se ne fosse ancora accorto, la grande qualità di molti prodotti nel movimento cinematografico orientale, fucina di talenti con idee originali e grandi doti tecniche.

Dopo aver stupito con il sorprendente "6ixtynin9" ("Ruang talok 69") ed il magico "Last life in the Universe" ("Ruang rak noi nid mahasan"), microcosmo di emozioni e semplicità, Pen-ek Ratanaruang sbarca in Europa con "Invisible Waves", presentandolo all'edizione 2006 della mostra del cinema di Berlino e ricevendo alcune critiche ma soprattutto molti consensi sia dal pubblico che dalla critica.

Pen-ek Ratanaruang racconta in modo originale la storia di Kyoji (Tadanobu Asano), aiuto-cuoco che viene assoldato dal proprio capo al fine di uccidere sua moglie. Successivamente a questo omicidio, il cui movente risulta inizialmente poco chiaro, Kyoji parte per Phuket dove incontrerà Noi, donna che indurrà, l'improvvisato assassino, in un percorso intimo ed interiore verso il perdono e la comprensione della propria essenza. Viaggio che riserverà molti pericoli ma che porterà Kyoji alla più logica delle destinazioni.

Il film gira intorno allo splendido Tadanobu Asano che si dimostra ancora una volta un ottimo professionista. Proprio come in "Last life in the Universe", l'attore giapponese è lo specchio delle inquietudini dell'uomo, la maschera, il feticcio che Pen-ek Ratanaruang manipola per mostrare l'interiorità.
Il regista tailandese cerca di presentare allo spettatore la solitudine dell'uomo rappresentandola come un vero e proprio stato d'essere. Una condizione umana, uno status da cui non si può fuggire, ma che si ricerca, a volte, con la chiusura in se stessi.

I personaggi, non a caso, appaiono in scena pallidi come fantasmi, ombre che cercano vanamente una reale e disinteressata relazione interpersonale. Tale raffigurazione mostra simbolicamente quale sia l'unica strada da percorrere per liberarci da questa sofferenza: la morte.
Pen-ek Ratanaruang cerca anche di evidenziare quali possano essere le possibili cause di questa condizione umana. L'assenza di felicità ("Non sarò felice mai più"), ma anche l'incomunicabilità rappresentata delicatamente come una cartolina mai spedita a causa dell'assenza del francobollo.
La solitudine di Kyoji è amplificata dal vivere in una terra straniera, lontana culturalmente e linguisticamente dalla propria.
Un giapponese a Phuket: un omaggio alla trilogia della "Japan Black Society" ("Ley Lines", "Shinjuku Triad Society" e "Rainy dog") di Miike, che fece anche un cameo in "Last Life un Universe".
Pen-ek Ratanaruang prende spunto dal più famoso regista giapponese anche per plasmare la figura di Kyoji, un antieroe antitetico allo spietato Kakihara miikiano più vicino, ma molto più umano rispetto a Sun-woo ("A Bittersweet Life di Kim Ji-woon).

La trama si svolge circolarmente, gestita con tecnica e capacità dal regista tailandese che la sviluppa secondo il principio di causa- effetto rimanendo sempre coerente e limitando il più possibile lacune che potrebbero mettere a repentaglio la chiarezza della storia.
Ad ogni evento corrisponde causalmente un effetto; questo meccanismo fisico non si mantiene immutabile per la durata dell'intera pellicola ma è rotto dall'umanità di Kyoji. La pietà ed il perdono evangelico del protagonista interrompono il flusso fisico degli eventi dimostrandoci l'importanza della felicità nel quotidiano ed evidenziando l'impossibilità di tollerare moralmente e fisicamente una vita senza gioia. ("Avresti potuto ucciderlo stasera - Sì facilmente - Perché non l'hai fatto? - Aveva l'aria felice, molto felice, chi merita più di vivere, l'uomo felice o il fantasma errante?").

Pen-ek Ratanaruang, dirige l'intero film con grande raffinatezza, con la continua ricerca dell'inquadratura suggestiva che può infastidire, ma evidenzia il talento cristallino di questo regista e la cura con la quale plasma la propria opera. Ne nasce un film esteticamente notevole, immagini in movimento che hanno un non so che di magnetico ed affascinante.

La fotografia, diretta da Cristopher Doyle ("Hong Kong Express", "Happy Togheter", "In the Mood for Love", "Hero", "Tree... Extremis", "2046" solo per citare alcuni capolavori orientali), risulta buia, rarefatta, in toni di grigio e azzuro. Il tutto è tetro, fosco, quasi a voler esprimere allo spettatore l'ottica con cui il protagonista vede il mondo. Anche il mare assume questi toni cromaticamente scuri risultando inquietante per il protagonista, anzi una vera e propria minaccia alla vana ed illusoria felicità ricercata. Il mare risulta una realtà ostile da cui fuggire a differenza di quello di Kitano luogo nel quale rifugiarsi per comprendere la propria essenza.

In conclusione "Invisibile Waves" è una tappa fondamentale per comprendere il cinema di Pen-ek Ratanaruang, e sicuramente presenta tra le proprie maglie le caratteristiche del cinema asiatico. Un film assolutamente da vedere per gli amanti del genere ma che potrebbe irritare tutti coloro che non sono abituati a tale modello cinematografico.

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Recensione a cura di matteo200486 - aggiornata al 18/10/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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