Recensione la croce dalle sette pietre regia di Marco Antonio Andolfi Italia 1987
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Recensione la croce dalle sette pietre (1987)

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locandina del film LA CROCE DALLE SETTE PIETRE

Immagine tratta dal film LA CROCE DALLE SETTE PIETRE

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Se qualcosa di bello i mitici anni '80 ci hanno effettivamente lasciato, la sequenza di Marco Sartori che si trasforma in lupo mannaro fa parte sicuramente di quel qualcosa.
"La croce dalle sette pietre" - sottotitolato "Il lupo mannaro contro la camorra" o "L'uomo lupo contro la camorra" - è diventato un film culto assoluto, imprescindibile e irrinunciabile per gli amanti del trash.
La sola trama suggerita dal titolo, sapiente dosaggio di mafia-movie e splatter che mette in contrapposizione due dei cattivi più in voga di polizieschi e horror anni '70 e '80, è motivo di curiosità e attrazione per gli spettatori.

L'apertura del film è macabra, in un locale seminterrato sporco dove si celebra la venuta del peloso demone Aborym, al quale si concede fisicamente una sua sacerdotessa.
Subito dopo ci spostiamo a Napoli, dove Marco Sartori, bravo e ingenuo ragazzo, si è appena ricongiunto con la cugina Carmela, che non vede da tanto tempo. Ma Napoli cela tranelli dietro l'angolo. Maldestramente dipinta come la capitale dell'imbroglio, del furto facile e dell'omertà cittadina, essa riserva al povero Marco una spiacevole accoglienza: due rapinatori di strada infatti, sul classico motorino, si impossessano della preziosa croce gemmata che egli custodisce gelosamente attorno al collo, in un'azione tutt'altro che fulminea e mascherata come invece dei professionisti dovrebbero saper fare.
Segue una vertiginosa e impavida scalata dei vertici della Camorra da parte del giovane derubato, alla continua ricerca della sua croce, ma non prima che la sua faccia da bravo ragazzo abbia attratto gli interessi di Maria, intraprendente ragazza conosciuta al night, evidentemente abituata solo a cattivi partiti.

Il motivo per cui Marco ricerca affannosamente il suo gioiello, di bellezza francamente discutibile, è però presto noto: il padre (il demone di cui sopra) gli ha lasciato un gene particolare e così egli, senza l'ausilio della croce gemmata, ha il brutto vizio di trasformarsi in Lupo Mannaro, come vuole la tradizione, nelle notti di luna piena (che poi c'è sempre), ma solo per una decina di minuti, giusto il tempo di sbarazzarsi dei nemici scomodi.
Il film prosegue quindi in una caccia al tesoro che si sposta da Napoli a Somma Vesuviana e a Roma, dietro le tracce di un oggetto che ha girato in pochi giorni la metà delle tasche degli individui più loschi d'Italia, e finisce con Marco che, tra dolci passioni con Maria e virulenti coiti con chiromanti attempate, può finalmente riconquistare la pace e la fede (?) in un'enigmatica chiusura su San Pietro, con un inquietante capolino di Gesù Cristo.
I misteri e gli interrogativi sul significato di ogni singolo fotogramma di questo film affliggono i suoi fan, che proprio per questo motivo possono dichiararsi tali. La trama altamente sconclusionata e pasticciata non sarebbe un'interessante novità, se non fosse costituita da epici deliri visionari che fungono da riempitivi (tipico espediente nei trash per allungare il brodo), oltre che dai più tipici salti, incoerenze e scomparse di personaggi.
Per esempio, la presunta cugina Carmela - che si scopre successivamente essere un'impostora - è solo un'amica della vera Carmela, di nome Elena, e molto probabilmente complice dei ladri. Ella sparisce dalla storia senza che si faccia chiarezza sul suo effettivo ruolo e inoltre deve essere comunque una componente di spicco della Napoli violenta, se le tre bellezze che provano ad approcciare Marco al night, al solo sentire il suo nome la svelano in tutta la sua poca raccomandabilità con una repentina uscita di scena che, nelle loro intenzioni, non voleva destare sospetti.

Un'altra gustosissima peculiarità del film è il ritratto dei mafiosi: imbarazzanti codardi quelli della parte bassa della piramide, capaci di rinviare fondatissime accuse a fratelli ed altro, con convincenti appelli e giustificazioni come "ì nun sacc' nient" o "siamo innocenti" al Brigadiè, Marescià o San Gennà di turno, il tutto doppiato con un falso napoletano; finto gentiluomo con immancabili gorilla al fianco, il camorrista della parte intermedia, che si diletta in un solitario mentre promette collaborazioni e accordi; infine la punta della piramide, don Raffaele Esposito, circondato da un'aura leggendaria che coinvolge anche il nostro regista, vista la reticenza adottata nel mostrare il suo volto nei primi minuti, tenendolo di spalle come i peggiori cattivi dei cartoni animati. Marco arriva da Don Raffaele (Cutolo?) con estrema semplicità, ma il calibro di questo boss viene ridimensionato clamorosamente, quando si scoprono altri vertici e insospettabili collegamenti con Cosa Nostra siciliana. La vetta della piramide si perde al di là delle nuvole.
Degni di nota, poverini, sono anche i due camorristi subordinati che parlano a voce alta in giardino, con l'unico ruolo di fare da confidenti inconsapevoli di Maria, aggiornata in questo modo dei viaggi fatti dalla croce. I due moriranno per un'esilarante spalla a spalla fatto al replay.

Ma il motivo per cui il mondo si è giustamente innamorato di questo film è l'effetto speciale principale: la trasformazione in lupo della durata di più di 90 secondi, nei quali i peli, tramite una serie di fotogrammi montati successivamente, vanno letteralmente ad appiccicarsi a ciocche sulla faccia di Marco, per poi compattarsi di colpo nella più bella maschera carnevalesca di sempre, un misto tra Chewbecca e un ipertricotico.
L'uomo lupo, in fondo, è più uomo che lupo, a parte per alcuni agglomerati di peli nei pressi del pube, sulle mani e sulla faccia; si aggira con fare zombesco, ha una forza sovrumana a quanto pare e forse persino un alito acido vista l'inspiegabile fine che fa Totonno o'cafone; si esprime con squittii e ululati cadenzati che ricordano quelli che fa il giocattolo di Tarzan, una volta azionato l'interruttore dietro la schiena (non sarebbe ardito immaginare che siano stati realizzati proprio così). Peraltro, con la "trasformazione" i vestiti scompaiono nel nulla, per riapparire in seguito sul corpo di nuovo umano esattamente nelle stesse condizioni di prima - la camicia azzurra riappare addirittura con lo strappo al braccio - mentre dopo il rapporto con Armisia la fattucchiera non riappaiono proprio, in un eccesso di coerenza sceneggiativa che lascia basiti. E' molto più semplice, per i costumisti, pensare agli indumenti come a parte integrante del corpo di Marco.
Dal sapore meravigliosamente grottesco è poi la scena familiare in cui Aborym torna a casa (dal lavoro?) e scopre il tradimento della moglie convertita, mentre si accinge a dotare il piccolo Marco del miracoloso talismano.
Gli interminabili 3 minuti e 30 di surrealismo onirico, filtrati di rosso, attestano la linea di condotta che si è deciso di utilizzare per tutta la produzione, quella del risparmio e del riutilizzo a iosa delle stesse sequenze: la faccia contratta del nostro protagonista, un cane normalissimo ripreso di notte, il sacerdote alto che guarda la telecamera con fare malvagio, nonché flashback o flashforward scelti random tra le poche scene girate.
E a proposito del vecchio sacerdote ricorrente nell'inconscio di Marco, che fa un'ignominiosa fine in un incidente d'auto, c'è da dire che sembra avere un rapporto stretto con l'infanzia dell'uomo lupo, come sottilmente suggerito tra le righe, anche se questo non viene chiarito in alcun modo alternando ellissi dei passaggi necessari con l'accumulazione di quelli pleonastici.
Un ultimo personaggio che preme ricordare è il ministro, che si vede consegnare su di un taccuino tutte le informazioni sull'associazione a delinquere napoletana e su presunti affiliati terroristi, ma che preferisce mantenersi all'interno del quadro di corruzione in cui è sommersa l'intera Italia, consigliando al suo subordinato di lasciar perdere. Una simile accusa al paese, cinque anni prima di Mani Pulite e nel periodo di legislatura di Craxi, straordinariamente somigliante al ministro, fa pensare.
Fa pensare che l'autore del film o è un brillante studioso delle dinamiche politiche e sociologiche italiane, talmente in gamba da poterle prevedere, o riesce a esprimersi esclusivamente tramite gli stereotipi secolari consegnati all'immaginario collettivo, che vogliono l'Italia un paese di santi e mafiosi e che vanno ad investire anche le singole identità locali (il napoletano religioso e truffaldino, il romanaccio scortese, il servo nero con la caratteristica parlata da vucumprà, apostrofato con punzecchiature razziste). Lasciamo al lettore il giudizio.

Fino ad ora abbiamo tralasciato di parlare del vero artefice di questa meraviglia e crediamo che dopo un po' di suspense sia giunto il momento di rivelarlo. Stiamo parlando di Marco Antonio Andolfi, poliedrico artista che si occupa di regia, sceneggiatura e montaggio di questo film, ed ha il buonsenso di presentarsi come attore principale sotto le mentite spoglie di Eddy Endolf.
L'opera prima (e unica) di Andolfi rappresenta, a distanza di vent'anni, un successo eccezionale degno di ogni self made director italiano (anche se c'è da ricordare che i vari Bava, Argento o Fulci non hanno sempre avuto finanziamenti statali ad assecondarli, cosa di cui invece Andolfi ha potuto godere).
"La croce dalle sette pietre" ha ricevuto particolari fortune in paesi lontani come Giappone, Cina, India e Argentina, che hanno permesso al suo creatore di continuare e arricchire la saga con una versione rimontata "Talisman" e un sequel "Riecco Aborym" del 2007. Non c'è da stupirsi troppo: vedendolo dall'ottica di un appassionato del brutto, questo film soddisfa ampiamente ogni requisito richiesto e riesce per giunta a scioccarlo con le sue trovate in più di un'occasione.

Le musiche, con lo stesso criterio nonsense che porta avanti l'intera pellicola, sono straordinariamente stonanti rispetto alle scene a cui vengono associate, creando degli ossimori audio-video da incorniciare. Tra i grandi nomi, "La croce" può vantare quello della francesina Annie Belle nel ruolo di Maria e il devastante Gordon Mitchell, un Maciste in pensione, qui demoniaco sacerdote dallo sguardo risoluto che vediamo implorare impazientemente la venuta di Aborym ad inizio film.
Sembra proprio non ci sia niente da aggiungere, se si eccettua quel misterioso finale in chiave cristiana per niente credibile, una ciliegina sulla torta a quello che è un autentico e minuzioso capolavoro del film brutto.
Invotabile.

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Recensione a cura di julian - aggiornata al 27/12/2010 16.31.00

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