Recensione l'altra verita' regia di Ken Loach Francia, Gran Bretagna, Italia 2010
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Recensione l'altra verita' (2010)

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locandina del film L'ALTRA VERITA'

Immagine tratta dal film L'ALTRA VERITA'

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Immagine tratta dal film L'ALTRA VERITA'
 

Kean Loach, 74 anni a sinistra, appartiene ad una generazione che ha avuto modo di conoscere, fin dall'infanzia, le asprezze della vita.
Asprezze che dispiega sempre nel suo cinema "contro": contro la sistematica demolizione del welfare, contro il liberismo sfrenato, contro il dominio del capitalismo occidentale, contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, contro le lacerazioni della sinistra europea. Cinema ideologico, certo, ma sempre realistico e coraggioso.
E onesto, soprattutto.
Un cinema senza sentimentalismi e senza eccessivo didascalismo, disegnato sulle facce dei suoi personaggi, spesso proletari, con una visione sempre netta delle cose e l'aspirazione verso quel socialismo democratico e trotzkista, a cui da anni, non fa mistero di credere.

Con "L'altra verità", Kean Loach, coadiuvato dall'inseparabile sceneggiatore e amico Paul Laverty, rivolge il suo sguardo "contro", all'Iraq e alla sporca guerra di Bush e Blair, che da anni, ormai, insanguina le sue strade.
Ed in particolare al mondo dei contractors (potenza del significato occulto delle parole, per cui, basta semplicemente chiamare contractors i vecchi mercenari, oppure esportatori di democrazia gli speculatori imperialisti interessati al petrolio, o ancora escort le giovani prostitute al servizio dei potenti perchè, in una sorta di traslazione semantica, il significato negativo originario di questi termini acquisti nuovo valore, assolutamente accettabile dall'immaginario popolare) che quella guerra combattono, assoldati da società private per svolgere, dietro lauti compensi, azioni belliche e paramilitari a sostegno degli eserciti dei paesi occupanti, o per provvedere alla sicurezza delle grandi corporation che operano nella martoriata capitale irachena speculando sugli affari che girano attorno a quella guerra.

E in Iraq, dal 2003 al 2009, quelle azioni belliche e paramilitari, spesso si sono trasformate in lavoro sporco, non assoggettato alle leggi locali in base al discusso "Ordine 27" (poi abrogato da Barak Obama), una disposizione imposta al Governo iracheno dalle forze d'occupazione, che assicurava loro l'impunità dalle leggi locali anche nei numerosi casi di massacri e torture, di cui si sono resi responsabili nei confronti della popolazione civile. Episodi ampiamente provati e documentati.

Mercenari prezzolati, in un paese che odora di dollari americani e puzza di sangue e di petrolio, sono Frankie e Fergus, due giovani di Liverpool, dove si svolge parte del film attraverso numerosi flashback, amici fraterni fin dall'infanzia.
Sin dal primo giorno di scuola, e per i successivi venti anni, hanno condiviso tutto Frankie e Fergus, gioie e dolori, sogni e aspirazioni. Hanno sognato insieme viaggi lontani e bevuto sidro sul battello che percorre il fiume Mersey; hanno amato le stesse donne e fatti gli stessi tatuaggi. Hanno vagheggiato, soprattutto, la carriera militare.
Entrambi, infatti, hanno fatto carriera nelle forze armate britanniche: Frankie come parà e Fergus nello Special Air Service (SAS), reparto speciale della British Army.

Una volta congedati Fergus convince Frankie a condividere con lui anche l'Iraq ed entrare in una squadra di contractors in missione a Bagdad.
10.000 sterline al mese, esentasse, in una Gran Bretagna in crisi, non si rifiutano facilmente, tanto più che, probabilmente, quel lavoro è la loro ultima occasione per fare "un po' di soldi".
E qui, due anni dopo, si consuma la tragedia che li separa per sempre.

Nel corso di una missione sulla Rout Irish (cui il titolo originale) - la strada più pericolosa al mondo, che unisce l'aeroporto di Bagdad con la Green Zone, dove hanno sede le ambasciate e i comandi militari - Frankie salta per aria, vittima di un agguato, e torna in patria, nemmeno tutto intero, in una bara, senza musica solenne, senza bandiere, senza picchetti d'onore e senza orazioni funebri - rituale retorico e abusato che accoglie il ritorno delle spoglie di un soldato caduto in terra straniera.
Bloccato a Liverpool da una grana con la giustizia, Fergus non ci sta: non crede alla versione ufficiale dei fatti, sente che qualcosa di oscuro si cela dietro quella morte e va fuori di testa.

Disperato e oppresso dai sensi di colpa - si ritiene responsabile della morte dell'amico per essere stato lui a convincerlo affinché accettasse quel lavoro in Iraq - l'affetto quasi morboso che lo legava all'amico del cuore non gli permette di rassegnarsi a quella morte e comincia ad indagare da solo per scoprire "l'altra verità", quella che si cela dietro la versione ufficiale dei comandi militari, per cui Frankie si è trovato "nel posto sbagliato nel momento sbagliato", ritenendo impossibile che il suo migliore amico possa essere morto per errore, per essersi cacciato nella situazione data a intendere dai militari (conosce bene, lui, i "signori della guerra", come il losco Haynes che, cinicamente cerca di ingaggiarlo nuovamente, subodorano già nuovi scenari di guerra, come in Darfour).

Facendosi aiutare dalla vedova della vittima, quella Rachel che anche lui ha amato (e che ancora ama) prima che sposasse Frankie, Fergus, che non può allontanarsi dall'Inghilterra, si chiude nel suo spoglio appartamento e, perseguitato da demoni che gli tengono compagnia anche da sveglio, riesce a decifrare un filmato registrato su un misterioso cellulare che Frankie gli aveva fatto recapitare poco prima di morire.
Quando crede di aver scoperto cos'è realmente accaduto su quei maledetti 12 Km d'asfalto, Fergus dà libero sfogo a tutta la rabbia che si porta dentro.
Ma la verità è diversa, sta tutta da un'altra parte.
Una verità ancora peggiore fatta di corruzione, soldi a palate e interessi che esulano da qualsiasi intento etico morale e democratico, e tutte le volte che Fergus ne scopre un pezzetto, è un passo avanti verso la discesa all'inferno.
"Si doveva esportare democrazia e invece abbiamo importato barbarie".

Si respira un tanfo di sangue e di morte, di bugie e di omertà, di ostentato razzismo e di bieco cinismo.
La sua stessa vita verrà risucchiata in un vortice di violenza e di crudeltà, che non gli permette più di riconoscere il sottile confine che passa tra giusto e sbagliato e lo condurrà diritto all'autodistruzione.

Sono questi i fatti che costituiscono il filo conduttore di un racconto che procede a sbalzi tra presente e passato, con una incredibile profondità di sguardo e di pensiero su quell'universo in cui politica, affari e potere militare si intrecciano in un rapporto perverso per fare della guerra un enorme business.
Mentre dall’altra parte, dalla parte dei mercenari, la degenerazione degli istinti e la dissociazione della realtà crea quel disturbo da stress che impedisce loro di rientrare nuovamente a far parte della società civile e ritrovare se stessi.
Sono i danni collaterali che ogni guerra si porta con sé. Sono le ferite dell'anima, che la vendetta non risana e che lascia l'uomo svuotato della propria morale.
Fergus ne è un esempio, il simbolo di una persona vendicativa e violenta, accecata dall'ira e guidata dal rancore e dalla voglia di farsi giustizia da solo che lo porterà a comportarsi peggio degli uomini cui dà la caccia, utilizzando le stesse tecniche apprese sul campo.
Ma Fergus non cerca solo giustizia, cerca vendetta, perché ormai la violenza gli si è attaccata addosso , perché è un eroe mancato che ha perso l'anima sulla quella maledetta Ruote Irish, perchè ormai è persino incapace di amare la donna che ha sempre desiderato.

Emblematici della sua schizofrenia sono quell'appartamento vuoto entro cui si aggira come in gabbia, quel suo quotidiano salire sul traghetto di Liverpool per ritrovare l'atmosfera di quando vi beveva vino scadente con Frankie, dopo aver saltato la scuola, o la frase che dice a Rachel per dirle addio: "criminali che si vendono per soldi, questo siamo noi".

Un film crudo e rabbioso, illuminato dalla luce fredda e straniante di un'anonima Liverpool, piovosa e malinconica, cui fa da contrasto una Bagdad sanguigna e assolata, persino ferina nelle tragedie che si consumano nelle sue case e per le sue strade.
Un film che ci porta in un mondo orribile, che esibisce immagini molto crude, che ci addentra in una realtà che non è più tale, che usa corpi martoriati lasciati marcire al sole ed esibiti nel loro orrore di fronte alla macchina da presa, che ci mostra il lato più oscuro della guerra (se mai la guerra ne abbia avuto uno luminoso), ancor più, se possibile, che in "The Hurt Locker" di Kathryn Bigelow.

Del resto non è nuovo alla guerra Kean Loach, lo aveva già fatto nel '96 con "La canzone di Carla", in cui denunciava la presenza in Nicaragua di "consiglieri americani" per addestrare alla tortura le forze paramilitari contro i rivoluzionari sandinisti.
Aveva poi illustrato la lotta per l'indipendenza irlandese contro gli inglesi in "Il vento che accarezza l'erba" e la guerra civile spagnola in "Terra e libertà", nei quali aveva sostenuto incondizionatamente i sui eroi oppressi dal potere; qui invece punta il dito anche contro di loro perché, forse, "non è più tempo di eroi". Ora gli eroi sono mercenari senza ideali e uccidono per denaro e forse, anche per godimento psicopatico.

E così, partendo da un'amicizia virile che trascende regole e ragione, Loach assiste all'evoluzione psicologica e fisica del suo contractor, con straordinaria capacità di portare alla luce le sue (e dell'umanità in genere) contraddizioni interiori e sociali fino alla agghiacciante sequenza della tortura con il metodo waterboard.

Fergus è interpretato da Mark Womack, un attore televisivo alla sua prima prova sul grande schermo, il cui volto scavato e stanco riesce a rendere straordinariamente convincente il personaggio complesso e ambiguo di un uomo in crisi d'identità, forte ma vulnerabile, ferito nei sentimenti e guidato dal rancore e dalla voglia di vendetta.
Anche Andrea Lowe (Rachel) è protagonista per la prima volta di un lungometraggio e anche lei offre una prova intensa ed estremamente valida, mentre John Bishop (Frankie), un cabarettista inglese, è il terzo vertice del triangolo, l'agnello sacrificale alla logica della guerra moderna, dove si combatte per denaro e si muore per calcolo.

E morire in guerra è assurdo, crudele e sbagliato, sembra dire Loach, specie se si muore non per affermare un ideale di libertà e giustizia per il proprio paese, ma per servire una cinica azienda che fa affari milionari sulla pelle di ragazzi strozzati dal bisogno e allettati da lauti compensi, lucrando sulle infinite possibilità di guadagno offerte dalla guerra. Che sono guerre di aggressione, come quella in Iraq, assolutamente ingiustificabile dal diritto internazionale.
Una guerra lunga e difficile, che doveva finire in fretta e che invece non finirà mai... e se finirà ne comincerà un'altra, in qualche altra parte del mondo, perchè è facile trovare un nemico da abbattere o un altro infedele a cui insegnare la giustizia infinita.
E Loach ci dà l'anima per denunciare tutto questo, e si vede, ed anche se, a tratti, affiora un certo schematismo nell'assegnazione dei ruoli tra aggressori e vittime, la pellicola resta comunque un altissimo esempio di cinema di denuncia.
E tutti sappiamo quanto ce ne sia bisogno.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 05/05/2011 17.36.00

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