Recensione manhattan regia di Woody Allen USA 1979
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Recensione manhattan (1979)

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Miglior film straniero
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locandina del film MANHATTAN

Immagine tratta dal film MANHATTAN

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Insieme ad "Annie Hall" ed "Hannah e le sue sorelle", "Manhattan" forma una triade di commedie indimenticabili e meravigliose firmate Woody Allen.
Lo stile è inconfondibile, ma in ognuna di queste si notano molteplici differenze tantochè spesso sorgono divergenze al momento di stabilire quale sia il vero capolavoro del grande regista.

Mentre "Io e Annie" inevitabilmente assume maggiore importanza storica perché rappresenta la nascita della commedia alleniana e in "Hannah e le sue sorelle" la presenza di Allen si sacrifichi in favore dell'intelligenza della storia consentendogli di raggiunge l'apice di maturazione artistica (insieme a "Crimini e Misfatti"), "Manhattan" si pone come un film molto esclusivo e intimo, estremamente personale con cui il regista omaggia la sua città, New York e la sua cultura improntandolo in minor misura sulle sue tematiche consuete, maggiormente invece sulla sua figura con una particolare attenzione alla qualità visiva e alle inquadrature, mai notata prima.
È proprio questo il punto di forza del film, la maestria raggiunta da Allen alla regia è sbalorditiva, questa è indubbiamente la sua opera più raffinata dove l'utilizzo della macchina da presa è curatissimo e l'armonia fra gli elementi del film è perfetta.

Per la prima volta vediamo un equilibrio religioso fra l'invadenza della sceneggiatura e le meccaniche interne al film: gli sproloqui dei personaggi, fra cui spicca la Keaton, sono moderati, anzi dominati dalla superba chimica degli elementi cinematografici quali la colonna sonora, unicamente di Gershwin e la straordinaria fotografia con cui Allen racchiude l'essenza del Cinema, del suo Cinema, ovvero New York.
New York è il cinema di Woody Allen e questo amore è trasmesso dal regista con la potenza ormonale della splendida Rapsodia in Blue anni '20, la magia del bianco e nero anni '30, le figure slanciate e sfumate dei grattacieli e dei ponti in una memorabile immagine con Allen e la Keaton seduti alla panchina a ricordare il capolavoro di Hitchcock "La donna che visse due volte" anni '50.
Il cocktail di parole, espressioni e citazioni che sommerge solitamente lo spettatore alla visione di un film di Allen è qui presente, ma certamente in maniera più sobria, elegante ed attenuata. Il merito va alla serenità con cui il regista dirige la storia: serenità che genera la Magia del film, le atmosfere oniriche del Planetarium, le pianosequenze nei musei o nella cavalcata nel parco, serenità frenetica che è metafora di New York e del regista stesso.

Nonostante il fine superiore del film sia il creare un Cinema che trae forza dall'esperienza vitale e dall'amore (come in "8 1/2" di Fellini), in "Manhattan" si ritrovano le tematiche consuete del regista in una sceneggiatura articolata e complessa, ma interessante.
La scena si apre fra un gruppo di amici: Isaac (Allen), quarantadue anni, lavora per la televisione e sta scrivendo un libro su New York è in crisi col suo secondo matrimonio dal momento che la moglie (Meryl Streep) diventata lesbica ha pubblicato un resoconto impudente sul loro matrimonio; nel frattempo si diverte con la diciassettenne Tracy (Mariel Hemingway) che lascerà per l'amante del suo migliore amico (Michael Murphy), Mary (Diane Keaton) nevrotica ed egocentrica.

Fin dall'inizio Allen dichiara come New York sia metafora di una generazione votata al degrado culturale nelle catene di negozi e ristoranti, nonché di un regresso nei rapporti generato dall'egemonia della televisione e della pubblicità.
Egli descrive il mondo di solitudine degli adulti, della fragilità e instabilità di persone che vivono di psicanalisti e divorzi in cui il pudore è sacrificato alla ricerca della notorietà.
La solitudine è madre dell'egoismo a sua volta fautore del nervosismo e alienazione esagerati dalla teatralità di Diane Keaton ed espressi dalle inquadrature negli interni che ritraggono muri spogli e bianchi come gli animi dei protagonisti in una durezza che ricorda gli enjambements nella poetica di Eugenio Montale.

Come in "Crimini e Misfatti", Allen esplora il desiderio dell'Uomo di essere ricordato e di conseguenza essere significativo per la propria realtà. L'Uomo cerca costantemente i motivi per cui vale la pena vivere e nella sua alienazione culturale non trova che pretesti per sfuggire alla responsabilità verso la Verità (celebre la scena in cui prima di ricordarsi di Tracy snocciola Groucho Marx, Brando, Sinatra, l'Educazione Sentimentale e l'incisione di Potato & Blues).
Sebbene si noti il consueto autocompiacimento e narcisismo nello stile, il regista compone un puzzle di personaggi complessi tra cui l'unico a salvarsi dalla critica di Allen è Tracy che se accostata all'infantilismo di Yale, alla disillusione della moglie tradita Emily, all'egoismo della Keaton e all'egocentrismo puerile di Mike, risulta essere infintamente più matura e responsabile.
E proprio da lei arriverà la lezione nel bellissimo finale: fidarsi della gente. Dunque Allen chiude il film apertamente con un sorriso enigmatico, ma sereno che è forse la chiave con cui prendere e vivere la vita.

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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 13/07/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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