Recensione sukiyaki western django regia di Takashi Miike Giappone 2007
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Recensione sukiyaki western django (2007)

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locandina del film SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Immagine tratta dal film SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Immagine tratta dal film SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Immagine tratta dal film SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Immagine tratta dal film SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Immagine tratta dal film SUKIYAKI WESTERN DJANGO
 

Con "Sukiyaki Western Django", già in concorso a Venezia 2007, si chiude un ciclo. Se "Per un pugno di dollari" si ispirava fin troppo generosamente al "Yojimbo" di Kurosawa, dando alla luce il western all'italiana (graziosamente definito in Giappone 'Macaroni Western'), con questo film, che sostanzialmente riprende il canovaccio del film di Leone, il genere ritorna alle origini.

Nella cittadina di Yuta (Nevada) si affrontano due clan rivali, quello degli Heike, i rossi, e quello dei Genji, i bianchi, entrambi alla ricerca di un tesoro nascosto. Il precario equilibrio è destinato ad incrinarsi con l'arrivo di un misterioso straniero senza nome, che si affeziona al piccolo Heihachi, nato da madre Genji e da padre Heike.
Il padre del bambino è stato ucciso da Kiyomori, il capo degli Heike, e sia la nonna Ruriko, la quale nasconde un passato di imbattibile pistolera, che la madre Shizuka, amante di Yoshitsune, il capo dei Genji, vogliono vendicarsi.

Come ben sanno gli appassionati, già la Nikkatsu nei primi anni '60 produceva titoli come "Plains Wanderer" e "Fast-Draw Guy", in bilico tra il western americano di serie B e la parodia che sarà poi caratteristica dello spaghetti-western italico, senza dimenticare titoli come "The Fort of Death" (1969) di Eiichi Kudo, presentato durante la retrospettiva veneziana dello scorso anno.
L'ibrido transculturale di Miike Takashi ha dunque dei precedenti e si inserisce pienamente nella tradizione nipponica, pur con un diverso livello di consapevolezza, complice l'effetto "Grindhouse" di Tarantino e Rodriguez, di cui "Sukiyaki Western Django" potrebbe costituire un terzo, ideale tassello, con tanto di trailer di uno spin-off basato sul personaggio di Ruriko ('The Bloody Benten') inserito nel corpo del film.
Non a caso nel teatralissimo prologo è proprio Tarantino, nei panni del pistolero Piringo (crasi di Pierrot e Ringo), a dare il via alla storia, raccontando in un imperdibile anglo- giapponese le origini della rivalità tra gli Heike e i Genji, i quali si erano scontrati settecento anni prima nella battaglia di Dannoura.
Da qui parte una divertita scorribanda trans-gender (nel senso di genere cinematografico, oltrechè sessuale), in cui Miike, senza prendersi troppo sul serio, non rinuncia ad alcuni dei suoi personalissimi tocchi, incrociando chambara, Sergio Leone e, naturalmente, il Corbucci di "Django", da cui riprende l'immancabile bara con la Gatling.
Il regista segue con piglio filologico tutti i luoghi comuni del genere, dal pestaggio rituale dell'eroe al duello finale, e li rilegge con grande ironia e lucidità. Dal devastante 'test del Samurai' alla fissazione di Kiyomori per l'Enrico VI di Shakespeare, dove si narra della contesa tra gli York e i Lancaster, fino all'inserto anime, è un fuoco di fila di trovate, gestite con estrema libertà espressiva e vitalità, senso del ritmo e spettacolari movimenti di macchina.
Le citazioni naturalmente non si contano (in una scena fa capolino persino "Duello al sole"), ma si inseriscono perfettamente nel tessuto narrativo del film, senza mai correre il rischio di risultare irritanti o modaiole.
In mezzo a tanta abbondanza, Miike riesce a ritagliarsi anche dei momenti più caratteristici del suo cinema, come nei flashback o nella scena sorprendente della danza di Shizuka nel saloon dei Genji.
Menzione d'onore per la fotografia di Toyomichi Kurita, per la scenografia di Sasaki Takashi, che aveva già lavorato sul set giapponese di "Kill Bill", per i meravigliosi e selvaggi costumi di Kitamura Michiko e per la colonna sonora di Endo Koji, che rielabora a suo modo i classici temi alla Ennio Morricone.
Tra gli attori, costretti a recitare in un inglese ai limiti con la comprensibilità, svettano Momoi Kaori nella parte di Ruriko e, soprattutto, l'irresistibile e felino Yoshitsune di Iseya Yusuke.

Naturalmente siamo più dalle parti di "The Great Yokai War" che da quelle di "Izo": "Sukiyaki Western Django" è dichiaratamente 'commerciale' e felice di esserlo, lontano anni luce dalle opere maggiori di Miike, ma comunque girato con una freschezza stupefacente ed invidiabile per un autore che ha al suo attivo più di sessanta pellicole.

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Recensione a cura di Nicola Picchi - aggiornata al 08/09/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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