Recensione vivere e morire a los angeles regia di William Friedkin USA 1985
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Recensione vivere e morire a los angeles (1985)

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locandina del film VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES

Immagine tratta dal film VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES

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French Connection costituì per il genere poliziesco un meraviglioso impulso nel corso di tutti gli anni '70. A ruota seguì una fioritura di film per il grande schermo e proliferarono numerose serie televisive, che facevano del film di Friedkin un punto di riferimento fondamentale. Agli inizi degli anni '80 però il poliziesco mostrava la corda: nuove tendenze dettate da linguaggi preconfezionati, da stili più patinati, svilirono tutto un genere fino ad arrivare a livelli in cui il personaggio del poliziotto, più che occuparsi delle indagini, era impegnato a fare la gara a chi faceva più battute spiritose; pensiamo a film come Beverly Hills Cop con Eddie Murphy in cui, pur all'interno di una confezione non disdicevole, i contenuti sono messi in secondo piano o addirittura assenti.
L'occasione giusta per Friedkin si presenta con il romanzo omonimo di Gerald Petievich, un ex agente dei servizi segreti statunitensi, che racconta storie ed avvenimenti ispirati a molte vicende criminali della California. Friedkin riesce a fondere nuovi linguaggi visivi con una sceneggiatura particolarmente brutale e senza speranza, tipica dello stile del decennio precedente, in un film tra i più riusciti degli anni '80: Vivere e morire a Los Angeles.

"Un agente federale, da tempo insieme ad un collega sulle tracce di un inafferrabile falsario, arriva una mattina all'alba nel covo che ospita la zecca clandestina e vi scopre un sacco pieno di dollari in biglietti da venti. Il falsario - Eric Masters - lo uccide. Il collega del poliziotto (morto a tre giorni dalla data del pensionamento) è il giovane Richard Chance, a lui legatissimo e per questo deciso a vendicarlo. Partito in coppia con il suo nuovo "gemello", l'agente John Vukovich, Richard si trova implicato in una serie di avventure rischiosissime contro l'astuto Masters e l'ambiguo e corrotto avvocato di costui; egli si mette in combutta con un certo Cody, un delinquente di mezza tacca, da cui il falsario ritiene di essere stato truffato, e con BiancaTorres (una informatrice della polizia, occasionale amante di Richard medesimo): tutto nell'intento di smascherare Masters e di vendicare l'amico ucciso. Vukovich, tipo non grintoso ma volenteroso, è al suo fianco e i due agenti, per la scarsa collaborazione dell'ufficio da cui dipendono, finiscono con l'uscire dai binari del regolamento, rapinando all'aeroporto un cinese ritenuto un corriere di dollari da destinare a Masters per costringerlo a scoprirsi."

In Vivere e morire a Los Angeles ci sono tutte le tematiche care a William Friedkin tra cui la sottile separazione tra bene e male, giusto e sbagliato ed ancor più che nei suoi lavori precedenti, come French Connection, assistiamo ad uno svuotamento del ruolo del poliziotto e tutore della legge. Ciò che si vede è una progressiva deriva degli agenti di polizia verso ruoli marcatamente criminali. Durante la fase iniziale del film ogni tentativo di pedinamento, sorveglianza e qualsiasi mezzo legale atto a risolvere il caso secondo la legge, finisce in fumo se non addirittura in maniera tragica come l'uccisione iniziale dell'agente Hart. Paradossalmente l'evoluzione del caso si evolve in maniera positiva solo quando gli agenti agiscono come dei criminali: trafugando delle prove dal luogo di un delitto, intercettando senza autorizzazione un corriere cinese di diamanti, tenendo all'oscuro i propri superiori dei propri progressi. L'unica regola è che non esistono regole, un continuo andare "contromano", dove il pretesto della vendetta per la morte del proprio partner sfuma progressivamente fino a far emergere il lato egoistico e al contempo auto-distruttivo del suo protagonista principale Chance (William Petersen).

L'avversario di Chance, il falsario Masters (Willem Dafoe), pur agendo sulla barricata opposta, è in realtà una sua figura omologa: un artista di talento dai tratti marcatamente decadenti che brucia le sue opere d'arte e svende la propria abilità per stampare denaro falso. Sospetta che Chance e Vukovich siano due agenti federali, ma accetta la loro sfida per quel gioco perverso di rischiare fino all'estremo, senza calcolare le conseguenze come il suo antagonista. Chance e Master sono quindi uniti dallo stesso impulso autodistruttivo e si sentono veramente vivi solo quando la loro vita è appesa a un filo. Entrambi sono due manipolatori senza scrupoli, entrambi hanno due donne bionde che sono complici, amanti e informatrici che tengono chi sotto il giogo della convenienza (Bianca) e chi sotto la minaccia del carcere (Ruth), anche se, senza rendersene conto, sono a loro volta manipolati dalle loro rispettive compagne.

La bellissima scena iniziale della stampa dei dollari falsi (come quella dei titoli di testa, d'altronde) è esemplificativa del vero motore intorno a cui ruota il film di Friedkin: il denaro falso, che evidenzia la falsità dei rapporti interpersonali fra tutti i protagonisti della pellicola, pronti a vendere e a vendersi per il raggiungimento dei rispettivi scopi, specchio della società americana degli anni '80 dominata e corrotta dal denaro, in cui il posto per amore, amicizia e lealtà verso gli altri è stato usurpato dall'ambizione sfrenata e da un individualismo che sotterra ogni morale ed ogni etica in nome dell'avidità. Questa scena evidenzia inoltre la cifra stilistica della fotografia curata da Robby Muller dove predominanti sono i colori verde (il denaro) e rosso (il sangue) che danno quella nota patinata al film, inusuale come già detto nei precedenti film del regista in cui i toni realistici erano preponderanti. Un perfetto adeguamento alle sue peculiarità: come la New York di Cruising anche la Los Angeles di Vivere e morire mostra tutta la sua decadenza al suo interno; dietro quel velo di apparente splendore, c'è tutta la desolazione e lo squallore morale di un'epoca.

In questo contesto emerge progressivamente il personaggio, solo in apparenza secondario, di John Vukovich, nuovo partner di Chance (che lo accetta controvoglia) dopo la morte di Hart. Agente volenteroso senza nessuna particolare qualità, cerca di mantenere quella rettitudine morale assente da tutti gli altri protagonisti della storia, vuole agire secondo le regole, ma lentamente viene preso dal vortice autodistruttivo di Chance che lo trascina verso quel salto con il bungee jumping che inizialmente si era rifiutato di eseguire. Quel "salto" metaforico, l'oltrepassare la linea di confine della legalità avviene con la scena di inseguimento d'auto in cui si troverà coinvolto da Chance dopo aver causato accidentalmente la morte del corriere cinese (in realtà un agente FBI infiltrato). L'inseguimento, una delle sequenze migliori di tutto il cinema friedkiano e non solo, legherà indissolubilmente il suo destino a quello di Chance. Non venderà il suo gemello denunciandolo alle autorità, come proposto da Grimes, l'avvocato di Masters, ma si incaricherà di portare a termine la missione dopo la morte di Chance (in uno dei colpi di scena più belli della storia del cinema). La metamorfosi fisica (si noti il progressivo cambio dell'abbigliamento di Vukovich: dal formale giacca e cravatta verso uno più sportivo e casual) e morale si completerà alla fine in maniera fredda e impietosa, quando presentandosi dalla donna di Chance, Ruth, lei stessa scorgerà in Vukovich gli stessi germi di quella follia che caratterizzava il suo ex-amante.

Questo film è un mix perfetto costituito da una storia avvolgente, da un ritmo frenetico, anche grazie alla trascinante colonna sonora dei Wang Chung, che porta l'adrenalina a livelli altissimi come nella scena dell'inseguimento, dalla splendida caratterizzazione dei personaggi operata da un cast eccellente, specie per William Petersen, John Turturro e Willem Dafoe, ancora semi-sconosciuto in quel periodo, rafforzato anche da ottimi caratteristi come John Pankow (l'agente Vukovich) e Dean Stockwell (l'avvocato Grimes) e forti presenze femminili come Darlanne Fleugel (Ruth) e Debra Feuer, compagna di Mickey Rourke all'epoca, nel ruolo di Bianca: tutti bravissimi a evidenziare la doppiezza insita nei loro personaggi.
Il film fu accolto in maniera controversa dalla critica e poco visto dal pubblico, sottovalutando le grandissime potenzialità della pellicola, forse troppo anticipatrice o troppo spiazzante per i tempi. Tuttavia sarebbe stato preso a modello in pellicole successive per molte tematiche, prima fra tutte quell'immedesimarsi del poliziotto nel criminale, entrando progressivamente nella sua psicologia fino a creare conflitti con la propria personalità (esposto già in Cruising). Questo poliziesco, in definitiva, apriva la strada a registi come Michael Mann e al Demme de Il silenzio degli innocenti, dando una nuova spinta propulsiva a un intero genere.

"The stars are God's eyes"

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 05/12/2008

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