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1. Miike Takashi: un regista "senza identità"

Takashi MiikeNel cinema di Miike Takashi nulla ha una sua precisa identità. Ciò risponde appieno alla sensibilità del mondo postmoderno, dove sono venuti meno confini e certezze tradizionalmente stabili ed è questo probabilmente il principale motivo della nutrita schiera di fan su cui il regista può contare sia in patria, sia soprattutto all'estero.
I luoghi, il tempo, le persone, i corpi, il sesso e gli stessi film vengono nell'opera di Miike continuamente privati delle loro identità tradizionali e abbandonati in una sorta di limbo in cui nessuna verità oggettiva possa ritenersi valida. E ciò può dirsi anche per il regista stesso, vera e propria mina vagante del cinema contemporaneo, caso più unico che raro all'interno del panorama mondiale per la poliedricità del suo cinema e la febbrile prolificità che lo porta a girare addirittura tre-quattro film all'anno di media.
La sua unicità e la sua estraneità agli schemi si possono evincere anche dal racconto biografico.

Miike Takashi è nato il 24 agosto 1960 a Yao, una cittadina operaia vicino a Osaka, dove risiedeva una consistente comunità di immigrati, principalmente coreani. Prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, i suoi nonni, originari del Kyushu, avevano vissuto in Cina e in Corea (il padre è nato a Seul) e dopo il conflitto fecero ritorno in Giappone stabilendosi a Osaka. Il padre, che di professione faceva il saldatore, passava il suo tempo perlopiù bevendo e giocando d'azzardo, ma era anche un assiduo frequentatore dei cinema locali, dove però di rado si faceva accompagnare dal figlio Takashi. Questi, dal canto suo, una volta entrato al liceo tutto era diventato fuorché uno studente modello: il pachinko e le gare motociclistiche con i suoi amici erano le uniche attività a cui si dedicasse seriamente.
Conseguito il diploma superiore, Miike si imbatté casualmente nella pubblicità radiofonica della Hoso eiga senmongakko (Scuola di cinema e televisione di Yokohama), la scuola fondata dal famoso regista Imamura Shohei. Dato che non veniva richiesto alcun esame di ingresso per entrare, egli si iscrisse cogliendola come un'occasione per andarsene finalmente di casa. Il suo interesse per il cinema, però, era pressoché nullo e smise ben presto di frequentare le lezioni, concentrandosi unicamente nel suo nuovo lavoro presso un locale frequentato da soldati americani.
Tuttavia, durante il secondo anno la scuola gli offrì la possibilità di lavorare come assistente volontario per una serie televisiva, poiché gli altri studenti erano già impegnati con i loro progetti finali. Miike accettò e lavorò nelle troupe degli sceneggiati televisivi per i successivi dieci anni, svolgendo anche quaranta o cinquanta lavori l'anno e avvicinandosi gradualmente al ruolo di assistente alla regia. Se inizialmente egli si sentiva un pesce fuor d'acqua in un mondo che non capiva per nulla e il suo ruolo era simile a quello di un soldato che obbedisce agli ordini senza capirne il motivo, col passare del tempo si impadronì gradualmente dei segreti del set, fino a diventare una figura indispensabile per il proseguo delle riprese e addirittura fonte di consigli per i registi ancora alle prime armi.

Il lavoro alla TV, però, cominciò a diventare privo di stimoli per Miike, che si accorgeva di come non vi fosse spazio per la creatività: nessuno aveva l'ambizione di creare qualcosa di speciale e in lui cominciò quindi a sorgere il desiderio di entrare nel mondo del cinema vero e proprio e poter partecipare al progetto di un artista che mettesse nei film i suoi sentimenti e la sua visione del mondo.
Quel regista sarebbe stato, casi del destino, il fondatore della sua ex scuola, Imamura Shohei. Il primo impiego nel mondo del cinema fu, infatti, un ruolo come terzo assistente alla regia in "Zegen" ("Il mezzano", 1987). In seguito continuò il suo lavoro come assistente fino a quando il fenomeno del V-Cinema non gli offrì la possibilità di esordire come regista. Le nuove case che si dedicavano unicamente al mercato home-video, infatti, ritenevano che i registi conclamati non avrebbero mai accettato i loro progetti e si rivolgevano così agli assistenti. Ciò valse anche per Miike, a cui la compagnia Vision Produce propose di dirigere "Toppu! Minipato tai - Aikyacchi jankushon" ("Eyecatch Junction", 1991) e "Redihanta - Koroshi no pureyudo" ("Lady Hunter", 1991). Da questo momento in poi diversi furono i titoli che lo videro come regista, fino ad arrivare al primo progetto pensato appositamente per il cinema: si trattava di "Shinjuku kuroshakai - China mafia senso" ("Shinjuku Triad Society") del 1995; anche se in realtà la prima proiezione su grande schermo di un film girato da Miike era già avvenuta qualche mese prima con "Daisan no gokudo" ("Il terzo criminale", 1995), che era però la conversione di un progetto pensato originariamente per il mercato home-video.

Dall'uscita di "Shinjuku Triad Society" ad oggi, Miike Takashi ha girato circa una settantina di titoli tra pellicole destinate al grande schermo, original video, soggetti televisivi, video musicali, documentari e serie ad episodi. E non meno variegata è la sua produzione anche a livello stilistico e di genere, poiché tocca dai film per bambini alle opere estreme che l'hanno reso più famoso, dai film sugli yakuza (la mafia giapponese) ai jidaigeki (i film storici in costume), per arrivare addirittura al musical o al western. Ma ogni opera è intrisa della sua forte personalità ed è attraversata da tematiche costanti ben precise, una sorta di marchio di fabbrica impossibile da confondere.
Oltre alla sua biografia perlomeno singolare per un regista affermato, se pensiamo che arrivò al set senza le minime conoscenze basilari sul cinema, proprio nelle contraddizioni di cui sopra sta l'atipicità di Miike: se da un lato i suoi film sono estremamente differenti, dall'altro vi è una solida coerenza di fondo. Egli può girare, nello stesso anno, una commedia demenziale incentrata su un improbabile supereroe vestito da zebra, ovvero "Zebraman" (id., 2004), e un truculento jidaigeki, "Izo" ("Izo", 2004), in cui il protagonista, un samurai ucciso nel 1865, rinasce nei giorni nostri e vaga da un'epoca all'altra facendo ricadere la sua furia vendicativa su qualsiasi persona che incontri.
Salta all'occhio, inoltre, che nei titoli di coda dei suoi film il nome di Miike Takashi venga citato unicamente per la regia e solo due volte compaia anche per la sceneggiatura, scritta comunque in entrambi i casi a quattro mani: trattasi di "Yokai daisenso" ("The Great Yokai War", 2005) e "Sukiyaki Western: Django" (id., 2007), oltre alle serie televisiva in sei episodi "Taju jinkaku tantei saiko - Amamiya Kazuhiko no kikan" ("MPD Psycho", 2000). Egli si limita, infatti, ad accettare progetti di terzi, che gli vengono affidati unicamente per la regia e già a uno stadio avanzato, facendo pensare più alla figura di un abile artigiano che non a quella di un artista. Ma d'altro canto, quelle costanti tematiche di fondo, quel marchio di fabbrica di cui prima, altro non sono che l'espressione della visione del mondo propria di un artista coerente non solo nei temi, ma anche nello stile.

E' evidente che un regista difficile da identificare come Miike voglia rifuggire le varie etichette che gli sono state impropriamente appiccicate a causa del linguaggio estremo solo di alcuni (è bene ricordarlo) dei suoi film; a volte smentendole apertamente (nonostante sia visto come un iconoclasta, asserisce di preferire l'ortodossia all'innovazione), a volte giocandoci in modo irriverente. E' il caso in cui, interpellato sul suo crudo e scioccante episodio della serie "Masters of Horror", "Imprint" (id., 2005), disse: "Io un Master of Horror? Ma no, io sono quello che ha fatto Salaryman Kintaro", riferendosi a una commedia per famiglie da lui girata nel 1999, descritta dal critico Tom Mes in questo modo: "Salaryman Kintaro non ha alcun legame tematico con qualsiasi altro lavoro di Miike. E' un'opera completamente convenzionale, il cui approccio superficiale la rende un fallimento anche per un semplice intrattenimento. Nel contesto della filmografia di Miike è interessante unicamente per il fatto che la natura conformista del film fu una scelta consapevole da parte del regista". O ancora, in "Araburu tamashiitachi" ("Agitator", 2002) egli si diverte, ben conscio della propria fama di misogino, a recitare una breve parte in cui utilizza un microfono per violentare una ragazza, invitando gli spettatori a guardare attentamente.

Obiettivo di questo speciale è quindi capire quali siano queste tematiche di fondo e dopo aver già accennato alle "anomalie" del regista stesso, analizzare la mancanza delle chiare identità tradizionali all'interno del cinema di Miike Takashi.


Torna suSpeciale a cura di Tommaso Ghirlanda - aggiornato al 19/12/2011

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Takashi Miike

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