I film di Miike hanno caratteristiche profondamente diverse da quelle tradizionali del cinema. Manca infatti la volontà di rappresentare qualcosa di verosimile, che sia anche solo per la durata della pellicola, e avviene lo smascheramento della finzione, la quale viene svuotata del proprio valore simbolico della realtà. Anche quelle opere dal carattere più fantastico o surreale si basano comunque sul tacito accordo che avviene tra il regista e lo spettatore, che accettano di condividere per circa due ore un mondo alternativo, legittimato da regole proprie. Tale mondo può altresì essere un rimando metaforico a quello vero o un tentativo di interpretazione della nostra realtà.
Tutto ciò non accade in Miike, che con lo spettatore non vuole stringere alcun tipo di patto; egli anzi lo disorienta continuamente, lo chiama in causa e talvolta gli si rivolge direttamente, sovvertendo di fatto quelli che sarebbero i normali rapporti durante il momento della fruizione del prodotto cinematografico. Per apprezzare un film di Miike bisogna capire e accettare le regole imposte dal regista, in un gioco per la verità senza regole, in cui tutto è concesso e nulla è scontato. La finzione, in quanto tale, non deve sottostare a nessuna norma, sembra dire Miike, e quindi è giusto che venga liberata da qualsiasi vincolo preesistente e possa esprimersi in piena autonomia
Gli espedienti utilizzati per stabilire l'annullamento di qualsiasi logica che sia legata alla realtà e il confezionamento di una finzione fine a se stessa, compaiono principalmente nelle scene iniziali e in quelle finali, che assumono nel cinema di Miike un ruolo quantomai fondamentale. Il caso più emblematico è quello di "Dead or Alive", che si apre con i due protagonisti che scandiscono rivolti verso l'obiettivo un countdown, alla fine del quale compare il titolo del film. Anche la scena finale sovverte qualsiasi logica della pellicola, fin lì dai toni realistici, mostrando un combattimento tra armi giganti e sfere di energia che causeranno addirittura la fine del mondo.
Un altro esempio lo possiamo trovare nella sequenza finale di "Full Metal Yakuza": dopo che i personaggi del film sono tutti morti, giunge sulla scena il folle scienziato Genpaku, che dice: "Full Metal... Yakuza?". Quindi scoppia in una malsana risata e si apre l'impermeabile mostrando allo spettatore un pene gigante. L'ultima inquadratura è sul protagonista Hagane che, nonostante sia stato poco prima ucciso, riapre inspiegabilmente gli occhi. Significativo è anche l'esempio della scena finale di "Deadly Outlaw: Rekka"; il boss yakuza Sanada, assassinato a inizio film, ricompare sottoforma di ologramma e dice: "Rock and Roll!", alché Hiraoka, situato lì vicino, schiocca le dita e partono i titoli di coda. La scenografia di "Sukiyaki Western: Django" è nei dieci minuti iniziali disegnata a mano con colori palesemente irreali e durante una sparatoria, uno schizzo di sangue va a sporcarla formando un'evidentissima macchia.
Ma il film che meglio di ogni altro rappresenta la volontà di Miike di mettere in scena una finzione senza regole e fine a se stessa è probabilmente "Yakuza Horror Theatre: Gozu". I protagonisti sono Ozaki e Minami, due affiliati di un clan yakuza legati da un rapporto particolare, poiché si viene a sapere che in passato Ozaki aveva salvato la vita a Minami. Il primo però a un certo punto sparisce nel nulla e l'altro si metterà quindi disperatamente alla sua ricerca. Tale ricerca attraverserà una serie di episodi totalmente insensati, in cui lo spettatore non può far altro che rimanere attonito a guardare: innanzitutto, nonostante l'identikit che egli porta con sé sia un disegno come quello che farebbe un bambino, coloro a cui viene mostrato riconoscono normalmente le sembianze di Ozaki. I suoi indizi lo portano poi a un negozio di liquori, dove avviene un dialogo con la moglie americana del proprietario. Ella parla un giapponese perfetto ma dalla stranissima pronuncia e quando Minami alza lo sguardo scoprirà che stava inspiegabilmente conversando leggendo le sue battute su dei cartelli appesi al soffitto. Il ritrovamento di Ozaki avverrà con lui diventato donna senza alcun motivo apparente, ma l'incredulo Minami non può far altro che fidarsi, dopo aver sentito raccontati i segreti condivisi solo da loro due. Infine Minami e con lui lo spettatore dovrà assistere anche all'incredibile parto in cui Ozaki ridarà alla luce la propria versione maschile. La pellicola si chiude significativamente con la risata di un vecchio pazzo in primo piano, una risata che va a schernire non solo chi voglia trovare un senso logico al delirio in crescendo del film, ma anche il film stesso, a cui nega definitivamente qualsiasi pretesa di veridicità.
Un altro espediente utilizzato da Miike per svuotare i propri film delle identità tradizionali è il rapporto ambiguo che intesse con i generi cinematografici. Da sempre infatti il genere è un'etichetta che identifica il film ponendolo in questa o in quella sfera, decidendone il target di pubblico e i canoni da seguire. Ciò non vale assolutamente per il cinema miikiano, in cui anche le opere che sembrerebbero a prima vista più vicine a un certo tipo di film di genere, ne contengono elementi completamente estranei o addirittura parodistici.
Se "Dead or Alive" può considerarsi fino alle battute finali uno Yakuza eiga, esso non può più essere definito tale in seguito allo scontro tra il proiettile di un gigantesco bazooka e un'onda energetica in stile Anime, che fa terminare il film con l'esplosione del mondo. "Andromedia" era nato originariamente come progetto per promuovere due gruppi J-pop, i cui componenti sono i protagonisti del film. Miike in realtà relegherà le loro canzoni ai titoli di coda e a una scena totalmente in contrasto con il resto della pellicola, ottenendo semmai il risultato contrario. "Audition" viene fatto ascrivere al genere del J-horror, ma fino alle agghiaccianti battute finali si presenta come un normale film sentimentale (a parte alcune inquadrature saggiamente dosate dal regista per insinuare inquietudine nello spettatore). "Full Metal Yakuza" invece contiene in sé elementi completamente contrastanti, per cui potrebbe far parte addirittura di quattro generi diversi: yakuza, comico, fantascienza e splatter. Il risultato naturalmente è che non lo si può considerare nessuno di questi. "The City of Lost Souls" è un film d'azione che presenta alcune scene che farebbero più pensare a una parodia, come un combattimento clandestino riprodotto alla "Matrix", nonostante i lottatori siano due polli. Tale elemento è riscontrabile in diverse opere di Miike come "The Great Yokai War", che è al tempo stesso fantasy e parodia del fantasy. Esso infatti ripercorre volutamente in modo forzato tutti i cliché propri del genere, come si evince soprattutto dalla scena in cui un kappa, folletto della mitologia giapponese, predice i futuri avvenimenti perché "di solito così capita nei film". Anche "Yakuza Horror Theatre: Gozu" può esser fatto rientrare in questa categoria di film, poiché se esso è stato visto da alcuni come un'opera surrealista d'ispirazione lynchiana, in realtà Miike va oltre, calcando la mano coscientemente oltre misura in scene che non possono essere lette altrimenti che nel tentativo parodistico di quel genere stesso. "Izo" inoltre dovrebbe essere il sequel di un jidaigeki dal titolo "Hitokiri" ("Tenchu!", 1969), diretto da Gosha Hideo, ma è privo del requisito fondamentale di ogni film che voglia far parte di quel genere, ovvero di una fedele ambientazione storica. Nel film di Miike Izo viene sbalzato di continuo da un'epoca all'altra senza una logica apparente e frequenti sono anche gli elementi anacronistici, come la presenza della polizia Tokugawa nella Tokyo contemporanea o delle moderne teste di cuoio nell'epoca Edo.
E' evidente come avvenga una cosciente presa di posizione da parte del regista nei confronti del film di genere di cui rifiuta le regole e i confini. Il caso più emblematico è probabilmente quello di "Sukiyaki Western: Django". Si tratta infatti di un western ambientato in Giappone "diversi secoli dopo la battaglia di Dannoura, 1133", in cui vi è una continua compenetrazione di elementi propri del western con altri della sfera tradizionale nipponica. Gli attori sono giapponesi ma il loro abbigliamento ricorda quello del far-west e recitano in inglese. Il villaggio in cui si svolge l'intera vicenda è simile a quello di un qualsiasi western americano, ma al suo ingresso vi è un immenso torii, il portale dei templi shintoisti. Esso si chiama sì Nevada, ma nell'insegna il suo nome è scritto in kanji.
In questo discorso merita menzione infine la pluralità delle lingue in cui vengono recitati i film di Miike. Si tratta di un altro elemento che concorre a rendere più ibrida la filmografia del regista e meno identificabile in una o più etichette, che sia in questo caso linguistica. Molte volte si tratta di una scelta obbligata per la stessa natura delle sue opere, essendo spesso incentrate su personaggi dalla doppia nazionalità o che si trovano all'estero, ma capita sovente che ciò avvenga anche quando non richiesto dalla vicenda.
Quale che sia il motivo, è interessante notare che delle trentasei opere prese in esame, ben diciassette sono recitate, almeno in una scena, in più di una lingua e due sono interamente in inglese, nonostante gli attori siano giapponesi. Anche qui possiamo leggere la volontà da parte di Miike di abbattere i confini e le barriere tradizionali e di rappresentare un mondo che nell'epoca del globale convive ogni giorno con pluralità e compenetrazioni di tipo linguistico, etnico e culturale.
Torna suSpeciale a cura di Tommaso Ghirlanda - aggiornato al 19/12/2011