Edgar Reitz ha consegnato con "Heimat" un'opera incommensurabile al mondo del cinema, da guardare con meraviglia e rispetto negli anni a venire. Stupisce dopo anni parlarne in termini entusiastici ma tant'è: è un oggetto talmente anomalo nella storia del cinema non solo tedesco ma mondiale da lasciare basiti; spendere fiumi di parole per non meno di 55 ore di cinema denso continua a non bastare per rendere l'idea della mole (di mezzi, di forze, di temi da sviscerare) dell'intera saga voluta dall'autore tedesco.
Ogni "Heimat" ha un suo percorso; si potrebbe dire che il secondo è completamente diverso dal primo, è un viaggio indietro nel tempo (del primo "Heimat") di una storia non raccontata, o semplicemente di una storia (tante storie) diversa. "Heimat 3" poi pare riallacciare i fili sparsi di entrambi i capitoli precedenti per porre le basi storiche del presente.
Non fosse altro che non è mai stato intento esplicito di Reitz il voler dare una spiegazione ad accadimenti tedeschi rilevanti come la nascita del nazismo o la caduta del Muro o ancora la contestazione giovanile dei '60, non a caso di questi eventi vediamo avvertimenti, avvenimenti e conseguenze ma le cause, per cosi dire, non vengono rivelate né si ha alcuna intenzione di farlo.
Eppure obiettivo di Reitz con il primo "Heimat" era quello di dare risalto ad una memoria storica che il popolo tedesco pareva aver perso dopo quello che egli chiama "shock culturale" provocato dal nazismo e la fine della guerra nel 1945. Tante piccole storie che valeva la pena raccontare sono andate perdute nella vergogna di un silenzio provocato dalla spada di Damocle del giudizio morale che per anni ha oscillato sulla testa dei tedeschi. Con "Heimat" Reitz colma la lacuna e lo fa senza alcun intento socioculturale che voglia analizzare problemi e anomalie politiche della sovrastruttura tedesca: parte invece dal paesino inventato di Schabbach, nella località (vera) dell'Hunsruck, ovvero dal basso, dall'ignoranza o saggezza (intercambiabili) contadina, dal piccolo. Dal micro al macro insomma. E se "Heimat" viene da noi tradotto come "patria" bisogna pur dire che è un vocabolo estremamente poco edificante per la parola che vuole dire molto ma molto di più. Il vocabolo è conosciuto in Germania anche in associazione ai patriottici e orribili Heimatsfilm, pellicole ridanciane e volgari che si proponevano di raccontare la patria con intenti magari anche nobili (o di propaganda) ma fallendo miseramente il colpo pur avendo un seguito popolare di non poco conto.
Reitz fa il suo film sull'Heimat, rendendola qualcosa di magmatico e incommensurabile, una Madre da cui tutti fuggono ma poi inevitabilmente tornano come richiamati dalla sua voce di Sirena ammaliante e incantatrice. Un Heimat piena di Ulisse che neanche ci pensano a tornare da Penelope, ma che sono costretti da qualcosa di inconscio, di magico, di magnetico a rivisitarla. A restare.
Il primo tassello della saga nasce come risposta al serial tv "Holocaust" che ebbe un certo successo in Germania e si proponeva di fare, con le forme del conformismo e retorica a buon mercato, quello che poi lo stesso Reitz ha fatto con molta più efficacia grazie ad "Heimat". Reitz veniva dal fiasco di un film, "Il sarto di Ulm", che lo aveva fatto cadere in depressione e proprio nel periodo più difficile della sua vita il tema della memoria e dell'infanzia comincia a farsi strada nella sua mente, dando vita a quello che sarà il germe dell'idea della saga.
I temi trattati sono tanti, tantissimi, dagli avvenimenti storici (soprattutto gli anni dal 1918 al 1947) a quelli individuali di una miriade di personaggi rappresentati dall'humus contadino della famiglia Simon. Perno delle vicende è quella che pare quasi una trasfigurazione dell'Heimat, Maria, la matriarca, la donna da cui tutti partono e tutti tornano. Da giovane donna felice a madre amorosa ma abbandonata, fino a diventare un'anziana rigida a causa delle tragedie della vita, è il personaggio presente in tutti i capitoli di "Heimat" in carne e ossa. Bisognerà aspettare i seguenti due capitoli della trilogia per rendersi conto che in realtà il cuore pulsante di "Heimat" è un altro: suo figlio Hermann. Che non a caso qui ha dedicato uno dei migliori episodi riguardante la sua crescita artistica e sentimentale.
Con il primo "Heimat" si affrontano esplicitamente temi quali l'infanzia, la voglia di scappare via, il ritorno, la cittadina e soprattutto la famiglia. Unita anche nelle partenze inaspettate all'inizio come quella di Paul, sempre più frammentata e distrutta nel finale che arriva agli anni '80.
Non tragga in inganno la divisione in episodi che è naturale in un film tanto lungo: dei serial tv precedenti e che verranno, l'opera non ha niente a che fare. I ritmi sono notevolmente diversi, distesi, cinematografici in una parola. Talmente densi e a volte con avvenimenti allungati quasi a voler cristallizzare l'attimo da rendere difficile credere che in quindici ore si possano affrontare sessant'anni di storia individuale, storica, corale. Ma è cosi. Merito al lavoro certosino di sceneggiatura di Edgar Reitz, lungo, rifinito, perfetto. Il senso del tempo che scorre come un fiume inarrestabile ma senza avvenimenti cronologicamente consequenziali ha portato tanti critici a vedere nel primo "Heimat" una sorta di corrispettivo de "la Recherche" di Proust: la riflessione su temi universali e prima di tutto sul tempo è simile. È certamente cosi.
Ancora più merito al regista per non aver fatto concessioni di sorta ad un racconto standardizzato o peggio ancora romanzato; sono le immagini a raccontare, con unione di parole e musica. La descrizione è affidata appunto al mezzo cinematografico e i personaggi hanno zone d'ombra che volutamente non vengono spiegate o lasciate all'immaginazione dello spettatore. Ci viene in tal modo restituita tutta la complessità di uomini e donne "totali", semplici e profondi, e di un tempo che è inarrestabile. Non a caso tante immagini riguardano lunghe distese d'erba che mosse dal vento sembrano un fiume (verde, o in bianco e nero). Qui sta la genialità e complessità di un'opera tanto stratificata, difficile e pesante eppure ipnotica, vera quanto la vita stessa.
Infine, attenzione a ridurre "Heimat" come film storico: è un errore grossolano e superficiale, fin troppo. È un film che si muove soprattutto "dietro la storia". Difficile, impossibile schematizzarlo. Razionale e reazionario, impulsivo e riflessivo, come l'utilizzo puramente stilistico del bianco e nero contrapposto al colore, che a differenza di "Heimat 2" (usato in quel caso il colore per la vita in notturna e il bianco e nero per il giorno) non ha alcuno schema ma viene utilizzato ad uso e piacere di Reitz. Si noterà comunque come nel "passato", ovvero gli episodi anteguerra, durante e dopo i conflitto il suo utilizzo sarà maggiore e successivamente il colore, pur non prendendo il totale sopravvento, verrà utilizzato di più.
Torna suSpeciale a cura di elio91 - aggiornato al 25/01/2013