Forse è ancora nei cinema l'ultimo film di Haneke. Nel senso che è ancora fresco di sala, ed è inevitabile che un film del genere lasci nello spettatore qualcosa di più del resto dei buoni film che ancora vengono prodotti nel nostro tempo. Poiché "Amour" va al di là del nostro tempo, è un film che è già nella storia del cinema, quella con la s maiuscola. E per uno spettatore giovane come me, che al cinema il massimo dello splendore che ha visto è probabilmente la trilogia di Jackson sul romanzo di Tolkien, vedere "Amour" è equivalso a un brivido storico, oltre che estetico. Il sapere di poter dire ai classici nipoti quando si è classicamente vecchi, "Io c'ero" (assumendo ovviamente che i nipoti siano cinefili). Sì, come tanti che ho conosciuto andarono a vedere Kubrick in prima uscita, o Bergman o Tarkovskij, io ho visto Haneke. E "Amour".
Allora ieri mentre leggevo il grande romanzo di DeLillo, "Underworld", mi capitava sotto gli occhi un piccolo brano, leggermente avulso dal contesto, che mi ha ricordato tantissimo questo film. E siccome era da tempo che volevo scrivere qualcosa in proposito, penso che questo gigante della letteratura americana abbia avuto le parole giuste, anche senza saperlo. Nella scena i due vecchi protagonisti del romanzo ascoltano un brano del compositore Charles Camille Saint-Saëns.
"La puntina saltò alcune note ma lui ci aveva fatto l'abitudine. Si sedette ai margini della stanza, dove poteva sentire il sole della cucina e guardare la faccia di Laura. La musica li unì in modo discreto. Gli parve di entrare nel sogno a occhi aperti di lei. Riusciva a capirla, a conoscerla, quasi, a sentire la sua innocenza attraverso la musica, a riconoscere la bambina, la spigolosa dodicenne che camminava dietro ai genitori per la strada, riusciva a vederla sulla faccia della triste sorella maggiore, era ancora lì, la bambina, nelle borse sotto gli occhi, nelle macchie sulla faccia e nei capelli sbiaditi. Ci fu un momento, nel pezzo, dopo passaggi di delicata rievocazione, in cui parve fare il suo ingresso qualcosa di fosco, mentre la sinistra della solista accelerava il tempo, e questo la spinse ad alzare il braccio in un gesto di sgomento, meditabondo e gravido - nelle note basse aveva sentito un cupo presagio che l'aveva spaventata. E questa era l'altra cosa che condividevano, la tristezza e la chiarezza del tempo, il tempo rimpianto nella musica - il modo in cui il suono, le modulate vibrazioni prodotte da martelletti che battevano corde di metallo, provocava in loro uno strano dolore, non per qualcosa di preciso ma per il tempo in sé, la sensazione concreta di un anno o di un'epoca, le testure del tempo non misurato che ormai sfuggivano a entrambi, e lei stornò gli occhi, fissando oltre la mano alzata qualcosa di trasparente che lui pensò di poter chiamare la sua vita."