"Lavorare è vivere e io voglio vivere". Questa è la frase con la quale Charles Chaplin spiegava la sua volontà di continuare a fare film, nonostante avesse ampiamente sorpassato i settant'anni di età. Si comportava un po' come alcuni ex grandi campioni sportivi, soprattutto di boxe, che non ce la fanno a stare fuori dai campi di gara e magari tentano dei patetici ritorni all'agonismo. Ciò che lo faceva un cineasta ormai sorpassato non era l'età, ma l'atteggiamento di totale rifiuto nei confronti della nuova società nata dal grande sviluppo industriale degli anni Sessanta, dominata dalla cultura giovanile beat e swing. Infatti in quegli anni dichiarò a proposito di Londra: "non riesco a capire cosa stia succedendo in quella città; penso che si siano tutti ubriacati con la moda swinging... Non credo ci sia niente di peggio delle mode... Mi chiedo se questa non sia un'epoca di declino per l'arte".
Questa estraneità in sé non era negativa. Infatti in "Un re a New York" era riuscito ad anticipare tutte le degenerazioni culturali e politiche a cui questo tipo di società sarebbe andato incontro. Quando invece ha voluto contrapporre a questo "declino" qualcosa che affermasse il suo ideale di società, ha rivelato appieno il distacco dalla realtà e il suo appartenere ad un'epoca ormai morta. Nella produzione cinematografica degli anni Sessanta era ormai un artista sorpassato.
Non avendo più il punto di riferimento dei quartieri poveri e popolari della sua infanzia, si chiuse sempre più nell'ambiente dell'alta società. Il mondo dei poveri e quello dei ricchi hanno convissuto dentro di sé e nella sua opera artistica fino agli anni Cinquanta, poi è rimasto solo il mondo dei ricchi. Lo si vede anche nella sua autobiografia, uscita nel 1964, dove quasi non cita Totheroh, Eric Campbell, Albert Austin, mentre si dilunga in descrizioni di Randolph Hearst, H.G. Wells, Einstein e tanti altri personaggi famosi che ha incontrato.
Non meraviglia quindi che "A Countess from Hong Kong" ("La contessa di Hong Kong") sia una specie di fiaba sentimentale comica, ambientata nel mondo dell'alta società. Come in alcune commedie di Shakespeare, sembra quasi si voglia suggerire che chi appartiene a un certo strato sociale elevato, anche se cade in disgrazia, mantiene comunque la sua dignità e nobiltà. Lo dimostra la protagonista Natascha (una mediocre Sofia Loren), che nonostante si abbassi a prostituirsi, rimane nel fisico e nel carattere una donna di rango. Il film stesso, a parte una breve inquadratura iniziale dei quartieri popolari di Hong Kong, si svolge totalmente in ambienti di lusso. Non c'è nessun approfondimento di questo stile di vita, mostrato nella sua normale banalità in mezzo ai formalismi del personale di servizio. Solo qua e là qualche piccolo tocco di ironia prende in giro qualcuno particolarmente fatuo o vuoto. L'unica piccola critica che si fa a questo mondo è quella di essere forse troppo rigido nel suo perbenismo o di voler sacrificare i sentimenti ai doveri. Non poteva certo mancare in un film di Chaplin la vittoria del cuore su tutte le altre considerazioni. Qui però appare forse fin troppo scontata e un po' irreale; manca la profondità e la verità dei grandi film.
Per realizzare questo film Chaplin non badò a spese. Utilizzò per la prima volta il colore e lo schermo grande. Per la sceneggiatura riadattò un vecchio script degli anni Trenta che aveva pensato per Paulette Goddard e Gary Cooper. Stavolta ingaggiò come attori delle star del calibro di Marlon Brando e Sophia Loren. La scelta di utilizzare attori già esperti e di fama è un'altra delle ragioni del fallimento del film. Il suo stile di regia prevedeva che l'attore imitasse alla lettera l'interpretazione che Chaplin gli mostrava. Questo può andar bene con dei dilettanti, mentre ne "La contessa di Hong Kong" si vede benissimo che i protagonisti soffrono nel recitare forzando le loro abitudini. I personaggi di contorno, poi, si rivelano delle semplici figure piatte, utili solo allo svolgimento della storia. Chaplin, un po' come usava Hitchcock, fa una semplice apparizione nelle vesti di un anziano steward di bordo.
La prima avvenne il 2 gennaio 1967 a Londra. La stroncatura della critica inglese fu unanime. Chaplin la prese veramente male e accusò i critici di non capire nulla; un altro segno della distanza che lo separava dal reale.
La storia parla di un famoso e ricco diplomatico americano (Ogden, interpretato da Marlon Brando) deluso dalla nomina ad ambasciatore in Arabia Saudita (aspirava alla poltrona di ministro degli esteri), che si consola con alcune prostitute ex nobildonne russe ad Hong Kong. Una di queste, Natascha, si nasconde nella sua cabina del transatlantico, decisa a sbarcare negli Stati Uniti. Fra i due si instaura il classico rapporto odio-amore, tipico delle commedie leggere dell'epoca. Più si becchettano e più si affezionano. La condizione di clandestina di Natascha offre il destro a diverse situazioni comiche piuttosto surreali, come quando diventa moglie del maggiordomo di Ogden, Hudson, e poi del suo collaboratore Harvey (Sidney Chaplin). Alle Hawaii riesce comunque a fuggire. Ogden è indeciso se continuare la sua carriera, stando al fianco di una moglie che non ama più o se sacrificare il successo per l'amore della bella Natascha. Ovviamento quest'ultima decisione ha il sopravvento e si finisce con la vittoria del sentimento sul dovere.
Il film alterna lunghe scene piuttosto lente con momenti di parossismo. Manca fantasia nell'uso del comico. Infatti si ripetono troppe volte le scene in cui il campanello suona e provoca lo scompiglio nella cabina. Ad un certo punto si prova quasi fastidio. Altre gag sono piuttosto banali, come far vestire la Loren con vestiti sformati, oppure far passeggiare Brando in camicia da notte o fargli fare un discorso serio mentre lo spumante tracima e una donna viene trovata in bagno. Pure la strausata scena del mar di mare non colpisce più nel segno, non viene bene con questa gente che si dà un tono. Lo stesso rutto che emette Brando, dopo aver bevuto l'alka seltzer, sembra più qualcosa di cattivo gusto che qualcosa di comico.
La scena più simpatica del film è forse la prima notte di nozze (non consumata) fra Hudson e Natascha. Hudson è bravissimo nel dissimulare con mille stranezze il vulcano dei sensi che gli ribolle dentro. Le scene di amore sono piuttosto insipide e melense e stavolta Chaplin ha rinunciato all'uso dell'ironia che serviva a smorzare i toni.
Il finale lascia la storia un po' irrisolta: Ogden e Natascha si ritrovano per stare insieme e ballano insieme agli altri clienti di un albergo di lusso delle Hawaii. Ogden rinuncia alla carriera ma rimane però ben integrato nel suo ambiente lussuoso. Natascha invece ritorna nel mondo che le compete. Nonostante la rottura sentimentale delle norme, i convenevoli vengono appena scalfiti e il mondo delle forme rimane in pratica intatto. Alla fine quindi rimane ben poco della forza anticonformista e polemica dei capolavori del passato.
Veramente si tratta dell'unico passo falso di una carriera strabiliante. Da "Il Monello" a "Un re a New York" Chaplin ha girato solo capolavori. Ci sono tanti cortometraggi che sono delle vere e proprie perle filmate. Il rapporto fra quantità e qualità è a dir poco eccezionale. Non esiste cineasta che sia stato più completo di lui. Se ci fosse un campionato di pentathlon nel cinema (regia, recitazione, sceneggiatura, musica, scenografia) sbaraglierebbe tutti. Secondo la mia opinione personale, Chaplin è stato il più grande cineasta della prima metà del Novecento.
Torna suSpeciale a cura di amterme63 - aggiornato al 03/04/2009