Il lavoro, il cinema, la perfezione artistica; ora che aveva divorziato dalla seconda moglie non pensava ad altro. Con nessun film come con "City Lights" ("Luci della città") Chaplin ha impiegato così tanto tempo per ideare e girare, proprio per la sua mania di perfezione che rasentava la nevrosi. Voleva raggiungere quella cosa difficilissima che si chiama spontaneità e naturalezza accompagnata dalla ricchezza di sfumature sentimentali e comiche. Lo scopo finale era riflettere sulla vita e su ciò che veramente conta nella propria esistenza.
Tutto il 1928 lo passò a pensare al soggetto del film. All'inizio aveva pensato ad un clown diventato cieco che cerca di tenerlo nascosto alla sua bambina. Poi gli venne in mente la figura di una fioraia cieca e povera, aiutata a riacquistare la vista dal vagabondo fintosi milionario. Quindi gli balenò in testa la scena del riconoscimento finale e fu come avere trovato il bandolo di una matassa. Da lì venne tutto il resto.
Cominciò a girare nel 1929 e incontrò subito difficoltà a trovare l'attrice per la parte della cieca. Tutte strabuzzavano gli occhi o erano innaturali. Finalmente incontrò Virginia Cherrill, una ballerina semisconosciuta e inesperta, ma che proprio per questo si comportava in maniera semplice, senza tante pose da diva; Chaplin la poteva plasmare come voleva. Il rapporto non fu però idilliaco (non si piacevano a vicenda). Virginia non condivideva il fuoco che bruciava Chaplin, che la sottopose a vere e proprie riprese-tortura. La semplice scena del primo incontro (un minuto) fu girata e rigirata più volte e a più riprese, facendo un totale di cinque giorni di lavorazione. "Ero ormai vittima di un perfezionismo nevrotico... Un dettaglio mi disturba se non è giusto".
L'acme fu raggiunto durante le delicate riprese della scena finale. Virginia chiese se poteva smettere prima per poter andare dal parrucchiere. Chaplin diventò una belva e la licenziò in tronco. Tentò di sostituirla con Georgia Hale ma dovette tornare sui suoi passi. Capita l'antifona, Virginia non dette più grattacapi e il 22 settembre 1930, in un momento magico, contribuì a creare una delle migliori scene di cinema mai girate, quella del finale.
Le riprese furono interrotte anche dalla morte della madre di Chaplin ma soprattutto dalla decisione da prendere se adottare o no il sonoro. Ormai quasi tutti i film di cassetta lo erano. Il personaggio del vagabondo però non poteva avere voce, perché non sarebbe stato più lui, sarebbe diventato americano o inglese, non più un cittadino del mondo. No, pensò Chaplin, al vagabondo per ora non si rinuncia. Cercò di sfidare il mondo dei produttori cinematografici dimostrando che il cinema muto era ancora superiore dal punto di vista della resa artistica. Decise anche di prendere in giro la scarsa qualità dei film sonori, facendo parlare alcuni personaggi con suoni sgraziati. Approfittò comunque del sonoro per scrivere le musiche e inserire la canzone "Violetera" che è un po' il leit-motiv del film. La prima avvenne il 30 gennaio 1931 e fu un grande successo.
Con quest'opera Chaplin ha voluto rappresentare sia la durezza che la bellezza della vita. è molto dura perché piena di ingiustizie sociali e di egoismo, bella perché ci sono ancora persone per cui vale la pena lottare e sacrificarsi. Si comincia anche a porre attenzione alle divisioni economiche nella società. Il mondo dei ricchi (a cui Chaplin stesso apparteneva) è rappresentato con poca simpatia, tutto dedito a divertimenti continui, allo sperpero e allo stordimento dei sensi, senza poi un briciolo di umanità o solidarietà verso gli altri. Hanno tutto ma non hanno la felicità.
Fra i poveri non si sta certo meglio. è una dura lotta alla sopravvivenza quotidiana, impossibile senza l'aiuto reciproco. Questa volta nella finzione le coincidenze e le fortune non aiutano i poveri e gli audaci! La vita è quella che è, dura e difficile. L'unica speranza è l'aiuto disinteressato verso chi è umile e modesto. Bisogna essere coscienti che questo non porta alcun vantaggio personale, anzi può peggiorare la propria vita. La soddisfazione più grande è vedere gli altri felici per l'aiuto ricevuto e avere la loro gratitudine. Questo è il messaggio che esce dal finale del film.
Fin dalle prime scene non si può fare a meno di ammirare le scenografie della città immaginaria, tutte ricostruite in studio con grande realismo. Negozi, auto, persone che passeggiano, vestiti, cappellini, scarpe, ogni particolare contribuisce a farci vivere il periodo magico degli anni Venti negli Stati Uniti. L'intento satirico verso tutto quello che è autorità, istituzione o celebrazione retorica sprizza al meglio dalla bellissima scena iniziale, quella dell'inaugurazione al monumento alla "Pace e Prosperità". I personaggi sono deformati tanto da apparire tronfi e ridicoli, le voci sgraziate contrastano con la pomposità della cerimonia. Il vagabondo poi che posa il sedere sulla statua è strepitoso. Le proteste delle autorità vengono interrotte dall'Inno Nazionale, all'ascolto del quale tutti si sentono in dovere di stare impettiti e fermi, vagabondo compreso nella sua dissacrante posa. Il tema dei "meccanismi" che condizionano il comportamento umano verrà poi ripreso nella scena del pugilato (il gong) e soprattutto in "Tempi moderni" (la catena di montaggio).
Con la sua solita baldanza il vagabondo gira la città fino ad incontrare per caso una fioraia cieca, che lo scambia fin da subito per un ricco signore. Questa è la prima di una serie di scene sentimentali (ci si commuove per la sfortuna di una bella ragazza) girate però in maniera molto semplice e sobria. Sono scene molto affascinanti e incantevoli, grazie all'interpretazione naturale e spontanea, dove qualsiasi gesto o espressione non è mai eccessivo o fuori luogo. Anche il sentimento viene però preso in giro. Per evitare che si scada un po' troppo nel patetico, Chaplin inventa la scena in cui la fioraia cieca, ignara della presenza del vagabondo, gli getta dell'acqua in faccia. In tante altre scene simili qualcosa spezza sempre l'eccessivo sentimentalismo: o al vagabondo cade un vaso in testa, oppure scivola su una botte, ecc. Ciò non toglie che effettivamente la figura della fioraia cieca e di sua nonna sia forse un po' troppo idealizzata.
Oltre all'incontro con la fioraia, al vagabondo capita di salvare un milionario ubriaco dal suicidio. La scena è in realtà più comica che drammatica, perché il tutto si risolve in pestoni o bagni ripetuti; ma quello che fa più contrasto è vedere un milionario, a cui non manca niente, convinto da un poveraccio nullatenente che la vita è bella e che vale la pena combattere: "Coraggio, affronti la vita". La figura del milionario è il simbolo di una categoria, più che una persona in carne e ossa. In pratica è vittima di uno sdoppiamento di personalità: da ubriaco esce fuori la sua vera natura di persona allegra e generosa (in vino veritas), da sobrio assume invece la veste sociale che gli appartiene e si comporta in maniera dura e egoista (scaccia il vagabondo). Si vuole dire che i ricchi in sé non sono persone cattive, solo quando agiscono in società la loro posizione economica gli spinge a essere insensibili e senza pietà. La colpa è delle istituzioni, non delle persone.
Il milionario si affeziona al vagabondo in modo a volte morboso e ambiguo, ma si sa, da ubriachi si fanno cose che da sobri non si farebbero mai; lo coinvolge quindi nella sua vita fatta di cene e festini che durano fino all'alba. La satira di Chaplin è impietosa e divertente: grazie all'ingenuità del vagabondo saltano fuori tutte le ridicole stranezze di quel mondo, che tra l'altro Chaplin frequentava assiduamente (era un intimo di Hearst, il magnate dell'editoria oggetto del film di Welles "Quarto potere"). La contraddizione di Chaplin era quella di tenere alla ricchezza e di rifiutarla intimamente: "La cosa più triste che possa immaginare è l'assuefazione al lusso". "Luci della città" assume a volte il contorno di un'intima resa dei conti delle due personalità di Chaplin.
Come contraltare a questo mondo, c'è quello idealizzato della fioraia, anche se reale nelle emergenze materiali, dove al posto dei gioielli si regalano cavolfiori o polli crudi. Il vagabondo si è ormai fatto il dovere morale di aiutare la fioraia. Se è per gli altri si adatta a fare qualsiasi lavoro, anche quello infimo di andare a spalare le cacche dei cavalli per le strade. Tenta anche la strada dell'easy money prestandosi ad un incontro di pugilato. Stavolta però la fortuna non lo aiuta.
L'avversario di comodo viene sostituito da un avversario vero e il vagabondo tenta tutte le strade per abbonirlo anche quella ambigua della seduzione (il comico permetteva a Chaplin di affrontare tematiche anticonformiste). Si crea abilmente tensione fino all'incontro, dove il vagabondo tira fuori tutto il suo armamentario comico di trucchi, stratagemmi, furberie. Stavolta, contrariamente a quello che ci si aspetterebbe, le coincidenze sono contro il vagabondo. Quando sta quasi per vincere, gli si attorciglia intorno al collo la corda del gong. Il suo suono determina quello che ognuno deve fare e non gli lascia via di scampo. Il vagabondo perdente è trattato con disprezzo. Decisamente la fortuna non è più dalla sua parte.
Il destino proprio si prende gioco di lui. Riesce a ritrovare il milionario ubriaco e a farsi dare mille dollari per la fioraia. Caso vuole che intervengano dei ladri, che il vagabondo riesce a mettere in fuga. Il cameriere prevenuto e i poliziotti non credono al suo racconto dei mille dollari in regalo, tanto più che il milionario tornato sobrio lo disconosce. C'è una scena cruciale in cui il vagabondo sta davanti al poliziotto con i mille dollari in mano. A questo punto fa una cosa che in passato non avrebbe mai fatto: ruba i mille dollari e scappa. è come se avesse deciso, per giustizia universale (non quella scritta che tutela le proprietà dei ricchi, ma quella istintuale che fa ribellare contro le eccessive differenze economiche), che quei soldi gli appartenessero di diritto. Dentro di sé non sente di avere fatto un furto, ma il suo dovere di persona solidale.
La sua felicità, la sua soddisfazione la trasferisce in quella della fioraia consegnandole i soldi con i quali potrà riacquistare la vista. Non tenta nemmeno di smentire la sua illusione di avere a che fare con una persona ricca e bella. Alla fine però arriva la giustizia scritta a reclamare il conto in sospeso. Stavolta non ci sono evasioni dalla prigione, ed il vagabondo ne esce in uno stato pietoso: mai lo si era visto così balordo e lacero (non ha più nemmeno il bastone). Dei teppistelli si divertono a prendersi gioco di lui e a malapena reagisce. In questo stato pietoso si ritrova davanti alla fioraia. Segue la scena che ha assicurato a Chaplin un posto eterno fra i grandi artisti, una delle più belle del cinema, così semplice e sobria ma così carica di sentimenti profondissimi.
Il vagabondo tiene un fiore appassito in mano e riconosce la fioraia dietro il vetro del negozio. All'espressione di sorpresa segue un sorriso che allarga il cuore. La fioraia si sente più che altro divertita dall'attenzione di un vagabondo così malconcio. Non prova repulsione, anzi lo prende in simpatia. Evidentemente il fatto di essere stata cieca l'ha abituata a non giudicare dalle apparenze: anche lei dimostra di avere cuore. Con piccoli sbattiti di ciglia, offre al vagabondo un fiore, poi una moneta e infine si alza per darglieli. Il vagabondo imbarazzato e contento vorrebbe scappare ma la fioraia gli afferra le mani. Inizia come una piccola danza fatta di variazione di espressioni e sentimenti. La fioraia toccandogli le mani cambia lentamente espressione. Adesso ha lo sguardo fisso, serio, sorpreso, incredulo, meravigliato: "Sei tu?". Il vagabondo annuisce. La sua faccia è lo specchio di mille sentimenti trattenuti. C'è contentezza, imbarazzo, vergogna, si vuole quasi scusare di averle infranto il sogno del ricco benefattore. "Can you see now?" ("Ci vedi adesso?"), "Yes, I can see now" che ha un doppio significato: "Sì, adesso ci vedo" ma anche "Sì, adesso capisco". Mentre si porta le mani del vagabondo al cuore, si legge nei suoi occhi inumiditi la consapevolezza dei sacrifici che può aver fatto per darle i soldi e soprattutto tanta riconoscenza e gratitudine. Ed è quello che il vagabondo cercava, gli basta solo questo e finalmente può sciogliersi in un sorriso liberatorio. A questo punto la storia è finita.
Questa è solo una delle possibili interpretazioni. Il fascino di questa scena sta in quello che riesce a suggerire nel mutare delle espressioni, nei piccoli particolari; chi guarda non può fare a meno di frugare nella propria sensibilità per immaginare quello che avviene dentro i protagonisti. Il fatto che lasci l'ultima parola allo spettatore fa sì che la si possa interpretare in mille modi. C'è chi ha visto nelle espressioni della fioraia delusione e rifiuto. Per tanti la fine è tragica, è la sconfitta del vagabondo che in ogni caso è e rimane in mezzo alla strada. è il bello dei grandi finali che una volta visti non si cancellano facilmente dalla memoria.
Torna suSpeciale a cura di amterme63 - aggiornato al 03/04/2009