La consapevolezza di essere un personaggio di valore nel suo mestiere ormai era cosa acquisita nella coscienza di Chaplin. Alla fine degli anni Trenta era conosciuto in tutto il mondo, i suoi film venivano visti e commentati da chi faceva cultura, nonché da milioni di semplici cittadini. Eccolo quindi che si sente pronto ad una grande sfida: usare la sua arte per smascherare Hitler e il nazismo davanti all'opinione pubblica mondiale. Stavolta non si scaglia contro un sistema o un'autorità astratta, ma mira direttamente a un personaggio storico di grande attualità, una persona potentissima. Si sente quasi in dovere di farlo. Uno spirito come il suo che aveva come punto fermo la libertà individuale, l'uguaglianza e la solidarietà fra le diverse nazioni e razze, non poteva stare zitto di fronte all'abolizione di ogni diritto democratico e alla violenta segregazione razziale che Hitler applicava in Germania, e che voleva esportare in tutto il mondo. "Hanno riso e si sono divertiti, ora voglio che mi ascoltino. Ho fatto il Grande Dittatore per gli ebrei di tutto il mondo. Volevo che l'onestà e la bontà tornassero sulla terra. Non sono comunista, sono soltanto un essere umano che vuole vedere in questo paese una vera democrazia e la libertà da quell'infernale irregimentazione che dilaga in tutto il mondo".
L'arma segreta di Chaplin era la comicità, che ha il potere di mostrare "l'irrazionale in ciò che sembra razionale, il folle in ciò che sembra sensato, l'insignificante in ciò che sembra pieno di importanza". La satira politica era già stata usata con successo in passato dai fratelli Marx in "Duck Soup" ("La guerra lampo dei fratelli Marx"), ma con "The Great Dictator" ("Il grande dittatore") si osa molto di più, attaccando direttamente un personaggio politico in vista.
Si tratta di rappresentare in maniera grottesca tutto l'apparato scenico di cui si pavoneggia il dittatore tedesco, mostrando allo stesso tempo gli effetti pratici della sua politica efferata sulla gente comune, soprattutto sulla minoranza ebrea. Per fare ciò Chaplin sfrutta appieno la rassomiglianza fisica del vagabondo con Hitler, che già alcuni gli avevano fatto notare. Stavolta il sonoro gli torna utile e riesce in maniera mirabile a fonderlo con la sua splendida arte pantomimica. Il risultato è un'incredibile e potentissima parodia del personaggio più conosciuto del XX secolo. Allo stesso tempo si trasmette un messaggio finale di pace e fratellanza che può sembrare retorico e generico, ma che in realtà è quanto di più universale si potesse enunciare. "Il grande dittatore" rappresenta un'altra grande interpretazione che consegna Chaplin alla storia mondiale del cinema.
Per la prima volta le riprese si basarono su una sceneggiatura scritta molto elaborata e puntigliosa, redatta insieme ad alcuni intellettuali della sinistra americana.
La notizia che Chaplin stava per girare un film su Hitler venne presa male un po' in tutti gli ambienti. I produttori di Hollywood avevano nella Germania nazista un florido mercato per i propri film e temevano ritorsioni. L'opinione pubblica era a quel tempo isolazionista e guardava con indifferenza a quel che succedeva in Europa. Addirittura una larga fetta del mondo politico conservatore americano apprezzava come Hitler era riuscito a creare ordine e disciplina. Persino gli ambienti ebraici tentarono di dissuadere Chaplin. Temevano che la reazione di Hitler al film avrebbe aggravato ancora di più la situazione degli ebrei in Germania. "Ma io ero deciso a tirare avanti, perché Hitler doveva essere messo alla berlina. [... ] Ero ben deciso a mettere in ridicolo le loro mistiche scemenze sulla purezza del sangue e della razza". Bisogna partire da questo contesto per capire quanto coraggio abbia avuto Chaplin facendo questo film.
Le riprese durarono dal settembre 1939 al giugno 1940 e si svolsero per lo più in gran segreto. La prima avvenne il 15 ottobre 1940 e fu un gran successo di pubblico. La critica invece accolse l'opera in maniera contrastata. Chi la trovava esagerata, chi troppo retorica, chi non abbastanza comica. La gente invece accorreva in massa a guardare il film, tanto che fu quello che fruttò i maggiori guadagni per Chaplin. Dopo la fine della guerra venne fuori che il film non aveva per niente esagerato e che anzi Hitler aveva fatto molto di più e molto di peggio. Fu una cosa che sconvolse Chaplin, tanto da dichiarare che "se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei potuto fare "Il grande dittatore", non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti".
La trama come al solito è molto semplice e racconta le vicende parallele di un barbiere ebreo e di Hynkel, dittatore della Tomania, che hanno la ventura di rassomigliarsi come due gocce d'acqua. Anche qui si riproduce il modello dei due livelli contrapposti fra di loro: "The people of the Palace" (noi italiani diremmo "Il Palazzo") e "The people of the Ghetto", in altre parole i potenti oppressori e i poveri oppressi. Ne "Il grande dittatore" i due mondi non s'incrociano mai, simbolo di come il potere sia completamente staccato dal popolo e come quest'ultimo debba subire le angherie di un personaggio che sconfina nelle manie psichiche. Anche la didascalia iniziale ripropone questa aberrazione quando parla di un periodo in cui "la follia ha preso il sopravvento, la libertà è stata calpestata e l'umanità presa a calci nel sedere".
La prima scena ci porta sulle trincee della I Guerra Mondiale, stavolta nel pieno di una battaglia con bombe, spari e fumo. Una carrellata porta a inquadrare un'arma mostruosa, la "Grande Bertha", che avrebbe dovuto sparare sulla cattedrale di Reims. Un povero soldato smarrito e impaurito fa partire il primo tiro che colpisce una latrina. Il secondo invece fa cilecca. Ovviamente tocca al soldatino andare a controllare perché non è scoppiato. L'ogiva addirittura sembra dotata di vita propria e insegue il povero malcapitato. Anche il macchinone antiaereo si rivela ingovernabile. Ritorna di nuovo l'immagine delle macchine che si ritorcono contro i loro creatori. Il soldatino imbranato riesce pure a infilarsi una granata accesa nei pantaloni e a perdersi nelle linee nemiche. Infine incontra un aviere un po' esaltato con il quale vola alla rovescia senza rendersene conto (la scena fu veramente girata a testa ingiù) fino a schiantarsi. Queste scene di guerra sono molto più dure e realistiche rispetto a quelle di "Charlot soldato".
I titoloni dei giornali scandiscono il passare del tempo, sulla falsariga di "Quarto potere". Adesso la Tomania è governata con il pugno di ferro e si sente solo la voce di Hynkel, e che voce! La scena del primo discorso nonsense in pseudotedesco di Hynkel è una delle più divertenti e geniali inventate da Chaplin. è comica e terrificante allo stesso tempo. La tecnica è la stessa della canzone di "Tempi moderni". Si utilizza un linguaggio inventato ma molto suggestivo, mentre la mimica rende l'idea di quello che viene detto. L'assenza di significato sposta l'attenzione su come viene detto. è tutto un urlare grottesco e ridicolo, accompagnato da grugniti minacciosi e da un gesticolare esagitato. Ogni tanto qualche colpo di tosse rivela quanto tutto sia artefatto. Qualsiasi cosa si svolge su suo comando, anche le acclamazioni e i silenzi. Una voce asettica fa ogni tanto la traduzione di qualche frase: "la libertà puzza", "la democrazia fa schifo" e alla fine di un crescendo di mimica e articolazioni sonore sempre più aspre e minacciose la traduzione ironica è "Tomania ha solo intenzioni pacifiche".
Viene quindi presentato il ghetto, abitato da gente tranquilla e pacifica e dalla solita orfana, Hannah, interpretata da Paulette Goddard. Il nostro soldatino (un ebreo) ha passato tutto questo tempo in un ospedale, colpito da amnesia. Adesso ritorna in sé e riprende il suo mestiere di barbiere nel ghetto, dove tutti ormai subiscono assuefatti le angherie e i soprusi delle camicie grigie, la polizia di Hynkel. Grazie all'espediente dell'amnesia, il barbiere si comporta come ci si dovrebbe comportare normalmente di fronte all'ingiustizia, cioè reagendo alle offese. Sulle prime la scena si svolge in maniera comica, con secchi di vernice gettati in faccia e padellate in testa, ma poi volge al tragico con il tentativo di impiccagione sommaria del barbiere ebreo, sventato solo grazie alla coincidenza del riconoscimento con l'ex aviere, ora comandante Schultz.
Di fronte alla vita durissima degli ebrei c'è la vita da satrapo di Hynkel fatta di lusso, frenesia e formalismi. è così falsa da apparire ridicola e grottesca. Lo humour nero fa la sua apparizione nei film di Chaplin con gli inventori che cadono vittime della loro creazione imperfetta, senza una parola di pietà. Entra in scena anche il ministro degli interni Garbitsch (dietro cui si nasconde Goebbels) la mente del regime, quello che manovra Hynkel dietro le quinte e lo asseconda nelle sue manie di grandezza. Per fare satira qui Chaplin utilizza l'arma dell'esagerazione senza sapere che invece era realtà. Alcune battute "comiche" sono a dir poco agghiaccianti: "c'è stato uno sciopero? Ammazzate i lavoratori" oppure "non avremo pace fino a che non avremo la pura razza ariana... Stermineremo gli ebrei, elimineremo i bruni". La megalomania di Hynkel è messa in luce in una delle scene più espressive del film: il balletto del mappamondo, l'unione perfetta di comico e inquietante (ci vollero ben tre giorni per girarla). è tutta una serie di pose plastiche, di perfezioni geometriche nello stile celebrativo alla Riefenstahl, qui preso in giro. L'atmosfera d'esaltazione è messa in risalto dal preludio del Lohengrin di Wagner. Subito a contrasto segue invece la scena più umana e informale della rasatura fatta dal barbiere ebreo al suono della Marcia Ungherese di Brahms. è un uso della musica classica per esaltare le scene che anticipa Kubrick.
Ogni parte ha pregi e difetti; questa è una legge nei film di Chaplin. Per questo nel popolo del palazzo esiste uno come Schultz che può aver creduto in alcuni principi, ma che ne rifiuta le degenerazioni. Così anche il popolo del ghetto non è esente dalla propria dose di satira. Vengono presi in giro soprattutto per la loro ingenuità, passività e paura. Abboccano alle moine di Hynkel quando vuole fare il buono (spera in un prestito da un banchiere ebreo), per poi tremare quando ritorna cattivo (il prestito viene rifiutato).
La scena dell'altoparlante con la voce di Hynkel che terrorizza il ghetto è qualcosa di impressionante. Segue poi l'assalto violento alla bottega del barbiere da parte delle camicie grigie, con tanto di distruzione. Le poche scene comiche inframezzate non riescono per niente a diminuire il senso di costernazione. Stavolta è Hannah che cerca di rincuorare il barbiere: "non importa, ricominceremo" ma con scarsa convinzione.
Seguono delle scene che non sembrano mettere in buona luce il comportamento degli ebrei. Schultz si rifugia presso di loro e architetta un putsch per far saltare il palazzo. Chi trova una moneta nel budino sarà il predestinato. Il tutto si svolge con tanta ironia sia nei confronti di Schultz, con il suo idealismo di facciata, che nei confronti degli ebrei, per nulla intenzionati a perdere la propria vita per gli altri. Il senso di questa scena è nelle parole di Hannah: "far saltare i palazzi, uccidere gente; non abbiamo già abbastanza guai per conto nostro?".
Non è facile interpretare questo episodio. Forse si vuole dire che non è il caso che della semplice gente pacifica si improvvisi martire con episodi isolati. è falso eroismo e non serve a niente, solo ad aumentare la distruzione. D'altro canto, guardando al contesto della storia, non può che saltare all'occhio la passività e la debolezza degli ebrei di fronte allo schiacciasassi Hynkel. Basta vedere la scena della cattura del barbiere e di Schultz, con tutti che appaiono come dilettanti allo sbaraglio.
Chissà se si tratta di una critica di Chaplin nei confronti della pavidità degli ebrei (aveva ricevuto pressioni per non fare il film) o se volesse semplicemente dipingere uno stato di fatto.
L'immaginazione di Chaplin non aveva osato rappresentare i campi di concentramento più di una semplice prigione che ricorda un po' quella di Tempi moderni. Anche gli ebrei hanno la possibilità di vivere una specie di "sogno", emigrando in Ostria. Sogno destinato a non durare, perché Hynkel è intenzionato a togliere qualsiasi illusione alla gente. Il comico ci svela l'assurdità di affidare le sorti di uno stato ai capricci di una persona sola. Tutta la splendida facciata e le cadute grottesche di questo regime ci vengono mostrate nelle scene che coinvolgono Napaloni, il dittatore di Bacteria (il bravissimo Jack Oakie). è tutta una gara ad apparire, a mostrarsi, tutta una serie di formalismi assurdi e ridicoli. Napaloni parla con uno spiccato accento italiano (nella versione italiana ha l'accento romagnolo) e tradisce la sua identificazione con Mussolini. Quando si arriva al dunque cadono però tutte le maschere e si passa quasi allo scontro fisico e alla gazzarra. La satira è feroce e ci mostra il vero volto violento, ingordo e opportunistico dei dittatori.
Il dado è tratto. Hynkel invade l'Ostria e scatena il rastrellamento del ghetto. Qui il comico si fa da parte e lascia il posto a quella che nel 1940 veniva presa come "esagerazione" o "smascheramento per assurdo". Invece le scene del rastrellamento sono assai edulcorate, se si pensa all'effettiva realtà di quel tempo, che Hitler cercava di tenere rigorosamente nascosta.
La logica conseguenza di tutto quello che è stato rappresentato fino ad ora, non potrebbe essere che un finale tragico. Invece no. La finzione filmica permette di combattere la logica e di creare la speranza. Intervengono le circostanze fortuite ad assestare la storia, come ne "La Febbre dell'oro". Schultz e il barbiere riescono ad evadere vestiti da ufficiali e guarda caso il barbiere viene scambiato per Hynkel, grazie alla sua perfetta rassomiglianza (chissà perché nessuno se n'è accorto prima). Sono punti "deboli" per modo di dire, perché servono a introdurre la scena clou del film, l'appello di Chaplin a tutto il mondo.
Un'enorme marea di gente aspetta il discorso di Hynkel, le autorità salgono su di un palco dove campeggia la scritta "Liberty" (con chiaro stravolgimento di significato, anticipando Orwell). La cinepresa inquadra dal basso in alto Garbitsch, che sembra un angelo della morte. Il suo discorso è durissimo: "Libertà, uguaglianza, democrazia ingannano il popolo. Sono intralcio all'azione e quindi le aboliamo... Occorre servire lo stato in obbedienza... Le razze inferiori sono nemiche dello stato." Un discorso agghiacciante che invita all'odio e al disprezzo.
E ora, cosa può fare un inerme cittadino? "Devi parlare, è la nostra unica speranza", dice Schultz al barbiere. è come se fosse un appello che Chaplin fa a se stesso. Non resta che avvicinarsi esitante al microfono creando attesa e tensione nello spettatore. Il primo piano inquadra una faccia segnata e stravolta: "Non voglio fare l'imperatore" inizia sommessamente. Piano piano però il ritmo accelera, il tono si fa più sicuro, stringente, accorato; il barbiere si trasforma in Charlie Chaplin e guarda direttamente lo spettatore. Gli appelli alla pace e alla solidarietà si susseguono freneticamente. Si punta poi il dito su ciò che crea odio e disuguaglianza: l'avidità, l'egoismo, il freddo calcolo, lo sfruttamento, l'indifferenza; invece ci vorrebbe umanità, gentilezza, comprensione. Ora l'inquadratura è più solenne, dal basso in alto. è l'appello a non disperare. I dittatori passeranno e il potere tornerà al popolo: "People have the power". Non bisogna ubbidire meccanicamente agli ordini, ma solo combattere per ciò che crediamo giusto. Finisce con una visione utopica e luminosa di un "World of Reason", dove non ci siano più barriere nazionali, dove tutti vivano in pace e senza necessità materiali. Il cuore dice di sperare.
Per giudicare questo discorso bisogna pensare al momento in cui fu redatto. Intervenire in maniera diretta e chiara era l'unico modo per far passare il proprio messaggio di lotta e speranza al maggior numero di persone. La situazione era troppo grave e cruciale per gingillarsi con metafore o rimandi. La passione e la rabbia del discorso colpiscono ancora a distanza di anni. Col senno di poi non fu una scelta sbagliata.
Che sia qualcosa di generico e retorico è fuori discussione. Se ci si pensa bene però, i principi e le cause delle guerre sono forse quelle indicate da Chaplin, al di là di ogni circostanza storica particolare. La meta da raggiungere per l'umanità è valida allora, ora e in futuro. Non si sa come, ma si sa cosa dobbiamo fare. Sarà un discorso vago e generico, ma resterà un discorso valido e comprensibile per tutti i popoli e in tutte le epoche.
Torna suSpeciale a cura di amterme63 - aggiornato al 03/04/2009