Dopo Luci della città" Chaplin si prende una vacanza di un anno e fa il giro del mondo. Anche stavolta trova fiumi di folla ad acclamarlo e le persone più in vista fanno a gara per averlo come ospite. Questa lunga pausa nasconde in realtà un grande disagio: "Ero incerto e deluso. Dall'avvento del sonoro non riuscivo a fare progetti per il futuro".
La situazione si sblocca quando Chaplin fa la conoscenza di una ragazza ventunenne bella, vivace e di carattere allegro e semplice, la splendida Paulette Goddard. Le sembra perfetta come gamine, cioè come monella, una degna spalla per il vagabondo. Immagina subito il loro incontro a bordo di un cellulare della polizia e poi tante altre idee. Come spesso gli accade, si innamora della prima attrice e convivrà con lei a lungo, scandalizzando i benpensanti.
L'entusiasmo ritrovato lo porta a continuare la sfida al sonoro. "Modern Times" ("Tempi moderni") sarà l'ultimo film muto di Hollywood. Nelle sue intenzioni doveva essere anche un film meno sentimentale e più legato alla realtà economica. Erano gli anni in cui era più acuta la depressione economica causata dal crollo della borsa americana nel 1929. Dappertutto c'era disoccupazione, fame, scioperi, disordini; il capitalismo stava attraversando una profonda crisi. Il film sarebbe stato lo specchio delle difficoltà che affrontava l'uomo della strada per sopravvivere in società. Era rimasto poi molto impressionato dalla conversazione con un giornalista di Detroit che gli aveva parlato dei risultati disastrosi che aveva la catena di montaggio della Ford sulla psiche degli operai.
Con "Tempi moderni" avrebbe mostrato il rovescio della medaglia rispetto ai documentari celebrativi della tecnologia applicata al lavoro, che giravano nei cinema dell'epoca.
Le riprese durarono dall'ottobre 1934 all'agosto 1935. In origine il film finiva con Paulette Goddard che invece di diventare ballerina si faceva suora e avrebbe detto addio al vagabondo in una scena molto commovente. Fu scelto invece un finale meno sentimentale e più in sintonia con il tema generale del film. Moltissima cura fu poi impiegata nella composizione delle musiche. Chaplin fece venire l'esaurimento nervoso a diversi musicisti a causa del suo ritmo di lavoro intensissimo e della sua mania della perfezione. La prima avvenne il 5 febbraio 1936 e fu un grande successo. La stampa reazionaria però reagì al film in maniera furiosa, accusando Chaplin di comunismo. Ormai cominciava ad essere inviso a certi ambienti conservatori e bigotti, che prima o poi gliela avrebbero fatta pagare.
Come recita la didascalia iniziale, "Tempi moderni" è "una storia d'industria, iniziativa individuale, umanità in marcia alla ricerca della felicità". Il tema principale è il contrasto fra libertà della singola persona e condizionamento sociale. In questi tempi "moderni" è sempre più difficile rimanere indipendenti, conservare la propria personalità o semplicemente portare a casa qualcosa da mangiare. Da una parte il lavoro che aliena e incatena le persone (quando c'è), dall'altra i movimenti di massa con scioperi o sommosse, nelle quali il singolo non conta niente e magari viene coinvolto suo malgrado. L'unica speranza è l'arte, forse l'unica attività che non schiaccia o imprigiona la persona, ma soprattutto l'amore della persona cara, il balsamo di tutti i mali. Certo la vita è dura e piena di difficoltà, eppure con l'affetto e la solidarietà vale la pena viverla e stringere i denti.
Dal punto di vista stilistico "Tempi moderni" si caratterizza per il frequente uso di immagini simboliche. Chaplin conosceva personalmente Ejsenštein e Buñuel e certamente ha preso ispirazione dal loro cinema. Come in "Luci della città" il sonoro viene usato sempre per mettere in risalto qualcosa di negativo. Infatti sono solo gli oggetti meccanici a "parlare" (la radio, il giradischi), mentre gli umani si esprimono con i sentimenti e le espressioni. Fa eccezione la canzone cantata verso il finale, ma anche lì si prende in giro la comunicazione sonora usando un linguaggio inventato (eppure molto espressivo). Lo stile usato è sempre quello della successione di singoli sketch. Qui però il legame è più stringente ed è sempre il problema di guadagnarsi da vivere.
Si entra subito nell'atmosfera simbolica con l'immagine di un orologio che gira, accompagnato da una musica drammatica. La prima sorpresa arriva dall'elenco dei personaggi. Il protagonista non è più "a tramp" (un vagabondo) ma "a factory worker" (un operaio di fabbrica). Questa volta si cerca di ritrarre qualcuno che cerca di vivere e integrarsi nella società, piuttosto che starsene ai margini. La dimostrazione che la vita è dura per tutti, non solo per certe categorie più disagiate. La musica drammatica introduce anche l'immagine simbolica di un gregge di pecore con in mezzo una pecora nera. Subito dopo appare un gruppo di operai che in massa si dirigono verso una enorme fabbrica. Il paragone poco lusinghiero fa capire molto sullo sfruttamento e sulla sostanziale passività di chi lavora.
Un aitante personaggio a torso nudo (sembra uno di quei monumenti retorici di moda allora) dà il via all'enorme macchinario pieno di leve. Il padrone (Allan Garcia, il duro direttore de "Il Circo") non fa attività manuali e infatti passa il tempo giocando, sorvegliando gli operai e ordinando di aumentare la velocità delle macchine. Una musichetta da cartoni animati introduce la catena di montaggio con gli operai ossessionati dalla frenesia di stare al passo con la macchina. Le gag ovviamente si sprecano. O una vespa, o una discussione con il capo, o un impiccio con la chiave inglese: insomma basta poco per mostrare quanto tutto sia ridicolo e assurdo. Tanto più che non si capisce nemmeno cosa stiano producendo, a cosa serva tutta questa loro fatica nello stringere bulloni. Il condizionamento è così forte che si continua a fare gli stessi gesti anche fuori della catena di montaggio. Qualsiasi distrazione, come andare in bagno a fumarsi una sigaretta, è attentamente controllata e vietata. Naturalmente, qualsiasi cosa uno faccia deve timbrare il cartellino.
Il massimo della comicità e della critica viene raggiunto nella scena da antologia della macchina per mangiare. Un elegante signore introduce un macchinario, presentato da un disco: "vi parla il vostro venditore automatico" (tutto meccanico, anche la vendita). Lo scopo è quello di nutrire gli operai automaticamente, riducendo i costi e aumentando la produttività. Tutta musica per le orecchie del padrone. Nella dimostrazione il nostro operaio viene quasi imprigionato dalla macchina e quando questa (naturalmente) si guasta, gliene combina di tutti i colori. In pratica la macchina al servizio dell'uomo diventa uno strumento di tortura. Con una semplice scena comica (fa ridere moltissimo anche adesso) si riesce a dire quanto o più di un trattato di sociologia o di filosofia. Dulcis in fundo, il padrone non dice "è pericolosa" ma semplicemente "non è pratica".
A fine giornata, quando gli operai sono più stanchi, il padrone decide di portare i ritmi al massimo. Anche il ritmo comico aumenta. Da ora in poi le gag si susseguono una dopo l'altra, lasciando senza fiato. Alla catena di montaggio basta uno starnuto per determinare il disastro. L'operaio viene letteralmente inghiottito dalla macchina. L'immagine di Chaplin che serpeggia fra gli ingranaggi è diventata il simbolo del dominio della macchina sull'uomo.
A questo punto il nostro operaio perde totalmente il controllo o meglio, riesce finalmente a ribellarsi (è lui la pecora nera). Inizia una danza satiresca assurda come se fosse in una favola e come tutti i bravi satiri insegue una ninfa, in questo caso la segretaria. Tutti lo prendono per pazzo ma in realtà la sua "pazzia" è l'unica maniera per evadere dalla vera "pazzia", che è la schiavitù alla macchina.
Nella sua foga di avvitare bulloni, insegue per strada una grassa signora impettita che porta, guarda caso, due bottoni a forma di bullone proprio sul seno.
Ritornato in fabbrica, va dal collega a torso nudo e si diverte a scombinargli tutte le leve; in pratica si trasforma in un luddista. Usa uno spruzzaolio come arma per "svegliare" i colleghi incatenati mentalmente alla catena di montaggio che, invece di unirsi a lui, lo inseguono e lo vogliono punire, tanto sono assuefatti e assoggettati. Il nostro operaio rimette in moto apposta la catena di montaggio, tanto sa che non possono fare a meno di riprendere a lavorare.
Ormai è in arrivo l'ambulanza per portarlo via. Fa in tempo però a togliersi la grande soddisfazione di spruzzare olio in faccia al padrone.
Questi primi venti minuti del film sono qualcosa di eccezionale. è forse il documento più efficace mai realizzato per dimostrare la sostanziale dipendenza dell'uomo dai ritmi della macchina, caratteristica base della nostra società. Qui l'arte comica lo dimostra meglio di qualsiasi film drammatico o trattato scritto. Noi del XXI secolo ormai siamo così assuefatti che non ce ne accorgiamo più; la nostra giornata invece è tutta scandita da orari, impegni, cartellini da timbrare, ritmi da seguire senza tregua, ecc. Anche un semplice semaforo è una dimostrazione di quanto meccanica sia la nostra vita. Stress, insoddisfazione, disagio sono il prezzo che si paga e se ci si riflette bene, i tic e le pazzie dell'operaio di "Tempi moderni" non sono poi così campati per aria.
In ogni caso siamo di fronte ai venti minuti migliori che il cinema comico abbia mai espresso, qualcosa che vale la pena di trasmettere nelle scuole, giusto per svegliare un po' la voglia di guardare meglio come funziona quello che abbiamo sotto gli occhi.
Torna suSpeciale a cura di amterme63 - aggiornato al 03/04/2009