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Un povero ex-operaio cerca di mantenersi trovando un nuovo impiego nell'epoca dell'industrializzazione; a stargli vicino nel suo travagliato peregrinare una ragazza di strada, anch'essa in cerca di una vita migliore... Il sonoro è ormai giunto da tempo e il medium filmico si è evoluto sempre più, avviandosi verso una crescente maturazione; parallelamente, lo stesso si può dire del cinema di Charlie Chaplin. Sebbene anche per questa volta egli decida di mantenersi nei limiti del formato muto, il prodotto finale non solo non ne risente, ma per certi versi ne esce ulteriormente rafforzato, presentandosi come uno dei lavori più perfetti e riusciti del geniale cineasta e narratore. Ogni aspetto, sia tecnico che narrativo, di questo "Tempi Moderni" dimostra la completa e assoluta padronanza che Chaplin ha ormai acquisito del linguaggio cinematografico, e porta per lo più a compimento le tematiche a lui tanto care e che comunque, anche in futuro, non smetteranno di affiorare. Non è un caso che questo sia l'ultimo film in cui compare l'iconico personaggio del "Tramp", alter ego ideale di Chaplin fin dal suo esordio sul grande schermo: fu anche per questo che Chaplin decise di ricorrere un'ultima volta al muto nei suoi film, perché, secondo lui, era questo il modo in cui il suo personaggio poteva esprimersi meglio, perché la parola lo avrebbe in qualche modo privato di una parte del suo fascino. Questo, naturalmente, non impedisce al film di incorporare alcuni elementi del nuovo formato, in particolare nell'uso di una colonna sonora secondo gli standard dell'epoca e di effetti sonori sincronizzati, e nel dotare alcuni dei personaggi di contorno di parola (solo uno, in realtà). In ambito contenutistico invece, si fa un ulteriore passo avanti: stavolta, la tematica sociale risulta perfettamente integrata, poiché, anziché fare da contorno alla vicenda ne diventa il cuore pulsante; e la satira contro il dilagante progresso industriale rimane graffiante e spietata dall'inizio alla fine: il ritratto di una società completamente presa dal materialismo, dal bisogno di seguire un ritmo indemoniato per ottenere il proprio posto al sole, dove non c'è spazio per chi non sa tenere il passo o canta fuori dal coro, dove non c'è spazio per l'umanità stessa se si vuole sopravvivere.
Concetto sottolineato dal disturbante tema tema musicale che torna a più riprese, e rafforzato da immagini divenute iconiche, come la dissolvenza in apertura sull'enorme orologio, o la folla in corsa verso le fabbriche paragonata a una mandria di pecore.
Il tutto raccontato con il solito, brillante miscuglio di dramma e commedia, in cui si viaggia da una sequenza iconica alla seguente sequenza iconica, ciascuna colma di esilaranti gag fisiche e situazioni paradossali; forse, a ben pensarci, è proprio qui che troviamo il vecchio Chaplin al massimo della sua forma, al punto che riesce difficile pensare che lo stesso Chaplin si supererà solo quattro anni dopo.
La sequenza iniziale in fabbrica dove Chaplin da di matto, quella in galera dove per sbaglio si droga, quella con il capo ingegnere che finisce incastrato nella macchina e quella finale nel ristorante, dove il protagonista intrattiene gli ospiti con la famosa canzone nonsense... ce ne sono troppi da contare.
In tutto questo emerge con prepotenza l'esaltazione degli emarginati, degli ultimi che in realtà sono i primi, perseguitati dalla sfortuna a dispetto dei loro genuini sforzi di adattarsi, sempre destinati ad essere alla deriva, ma senza mai rinunciare alla speranza: persone che vivono la vita come camminando su una lunga strada in linea retta verso l'orizzonte, verso il sole che sorge. Non ho altro da dire, se non: mi inchino umilmente.