Quando in Italia non c’era ancora sentore di
Halloween, neanche lontanamente intendo, la maggior parte della gente non ne conosceva l’esistenza. Non era stata ancora forse neanche pensata l’omonima saga horror hollywoodiana, che in seguito invase l’Italia con successo sempre crescente, rendendo popolare la festività celtica.
Beh, dicevo, quando non esistevano feste horror con zucche, teschi, streghe, “
dolcetto o scherzetto”, la festività di
Ognissanti qui da noi era una “cosa” seria, serissima: niente giochi, risate ancor meno. Era il momento della ricorrenza più visceralmente triste dell’anno.
I giorni a cavallo dell’ 1 Novembre si trascorrevano in giro per cimiteri: tutti i camposanti in cui ci fosse la salma di un parente, di un amico o conoscente erano visitati; si organizzavano i tour sepolcrali fin dall’estate, perché spesso ci si doveva spostare in macchina o in treno per raggiungere i cimiteri più lontani, anche in altre regioni, lontane dalla propria.
Quando, dunque, in Italia non era ancora stata importata la festa di
Halloween, si pensi per un momento a quale tormento dovevano sottostare quei bambini sfigati, nati a cavallo di quei giorni: trascorrere il proprio compleanno a zonzo per cimiteri con i propri genitori e parenti; atteggiamento forzatamente compunto ed espressione contrita e malinconica. E non c’era speranza neppure per i giorni successivi, l’impronta malinconica s’imprimeva nel profondo e lo sforzo amorevole di mamma e papà per creare l’opportuna atmosfera di compleanno restava comunque un tentativo vano. Perché da bambini il concetto di morte è innaturale, quasi irreale, ma l’afflizione che lo sottintende la si percepisce intensamente. Da bambini, purtroppo, non si possiede ancora l’ironia come strumento di protezione nei confronti del “brutto” della vita.
Tuttavia, io bambina mi consolavo guardando tutto ciò che mamma
Rai ci propinava e proprio nella stagione suddetta, una sorprendente rivelazione mi giunse con la visione di un “
vecchio documento RAI” , trasmesso all’interno di qualche trasmissione d’archivio.
Il filmato riprendeva un’ intervista al “Principe” Antonio De Curtis, in arte
TOTÒ, che oltre essere attore cinematografico e teatrale indimenticabile, fu anche autore di poesie lievi, ironiche.
Nel filmato d’archivio, l’attore, al termine dell’intervista, declamò la sua più celebre poesia: “
'A livella” , quasi un breve testo teatrale d’autentica napoletanità, semplice scritto che parla della morte in modo umoristico e senza paura.
Il testo racconta di un signore che, suo malgrado, alla festività dei Santi-Morti, resta rinchiuso nel cimitero durante la doverosa visita. Assiste ad un grottesco colloquio fra due fantasmi: un marchese e un netturbino. Il marchese si lamenta della vicinanza delle due tombe, poiché non è stata rispettata la differenza di ceto; il netturbino, alquanto scocciato, gli risponde che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali.
La morte sublimata a “LIVELLA” la cui forza rende tutti uguali. La morte come principio di uguaglianza universalmente realizzato.
“
A morte ‘o ssaje ched”è? …è una livella”
Già allora adoravo Totò, di cui non perdevo un film; naturalmente rimasi piacevolmente sorpresa nel sentire “canzonare” così lievemente un mio fardello e proprio nel periodo mesto del compleanno!
Che consolazione sentire parlare della morte senza timore, in modo leggero fino a sfiorare l’umorismo: una liberazione, finalmente qualcuno aveva sdrammatizzato!
Ero piccola e non capivo tutto del testo in dialetto napoletano, ma l’eloquente mimica di Totò è d’immediata comprensione; benché non possedessi ancora la capacità ironica di afferrare ogni sfumatura del messaggio dell’autore-attore, ne colsi tuttavia la sostanza e sorrisi compiaciuta.
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